home
biografia
video
audio
english
español
français
Deutsch
polski
한 국 어
1976/90
1991/95
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
2015
2016
2017
Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


«Difesa e promozione della vita umana» a presentazione della nuova rivista Anthropotes
Roma, maggio 1985

(redatto con i monsignori Edouard Hamel e Bonifacio Honings)


“Se volessimo sapere non solo che siano uomini, ma quali siano sani e quali malati, forse che la gente ci sarebbe buona maestra? No. E la prova che sono malvagi maestri di tali cose l’avresti il vederli in disaccordo? Sì. E allora! Ti sembra adesso che sulla giustizia e sulla ingiustizia degli uomini e delle cose la gente sia tutta d’accordo con se stessa o fra loro? Assolutamente no... anzi. Non ti sembra che in tali questioni soprattutto sia in disaccordo? Proprio qui. Così, credo che tu non abbia mai visto né udito uomini di opinione così contrastante sulla salute o la malattia tanto da battersi ed ammazzarsi gli uni contro gli altri per queste cose. No certo” (Platone, Alcibiade primo, VIII).

Le domande e le risposte di questo dialogo tra Socrate ed Alcibiade dimostrano che circa l’uomo ci sono state sempre grandi discussioni. Tuttavia, oggi più che mai, l’uomo si pone la domanda: ma chi sono? Io, che ormai secondo tutti, credenti e non credenti, sono il punto di riferimento di tutto quanto esiste sulla terra. (Cfr GS 12).

In effetti, la “causa dell’uomo” è divenuta di difficile soluzione e quanto segue intende offrire alcune riflessioni in vista di una risposta.

 

1. (Diagnosi di una situazione)

La difficoltà che la cultura contemporanea dimostra nel suo prendersi cura dell’uomo è dovuta in primo luogo alle molteplici difficoltà che essa avverte quando tenta una risposta alla domanda su chi è l’uomo. Le difficoltà nascono, a nostro parere, dall’avere smarrito alcuni sentieri principali che possono introdurci dentro la verità dell’uomo. Questi sentieri (erano) sono soprattutto tre: l’esperienza metafisica, l’esperienza etica e l’esperienza religiosa. A ragion veduta abbiamo parlato di “esperienza”. Non si tratta, infatti, di una mancanza di informazione su ciò che è stato scritto ieri e oggi di metafisica e di etica. Si tratta di un’attenzione che l’uomo è chiamato a prestare a se stesso: ad alcune domande che abitano nel suo spirito, naturalmente. Disattenderle può essere solo effetto di una voluta distrazione da se stesso. Sono la domanda metafisica, la domanda etica e la domanda religiosa.

La domanda metafisica, in primo luogo. Fu Carnap a scrivere che “i metafisici sono musicisti senza talento musicale”. Il sarcasmo esprime assai bene una domanda essenziale della cultura contemporanea. La riflessione filosofica-metafisica deve essere connessa all’ambito della “espressione artistica” e non all’ambito della “cognizione intellettuale“, dalla quale ogni discorso non scientifico deve essere bandito come estraneo. Un pensare, dunque, quello metafisico che non mostra la verità delle cose, ma serve solo ad esprimere sentimenti ed emozioni che sono propri di ciascuno e, dunque, incomunicabili. Questa riduzione può sostenersi solo a una condizione. La condizione che la realtà conosciuta dalla scienza sia tutta la realtà: che l’intero sia esaustivamente conoscibile solo dalla scienza. Ma questa semplice affermazione coimplica che l’affermante abbia compiuto la prova che l’intero come tale coincida con l’intero conoscibile scientificamente. Che abbia cioè posto la domanda: l’intero come tale è ciò che la scienza come tale può conoscere? che è già precisamente la domanda metafisica come tale. Lo “scientismo” anche nelle sue forme più scaltrite, racchiude sempre in sé una contraddizione e, pertanto, può essere solo voluto (irrazionalmente) e non pensato.

Con queste semplici riflessioni abbiamo già formulato la domanda metafisica. Essa riguarda certamente la nostra quotidiana esperienza — o meglio: ciò che la nostra quotidiana esperienza ci mostra — ma su questa pone la domanda, letteralmente, radicale, riguardante la sua spiegazione ultima. È la domanda seguente: il “tutto” della nostra quotidiana esperienza è sufficiente da sé solo a dare ragione di se stesso? oppure: esso, nella sua insufficienza intrinseca, lascia aperta la via ad un “ulteriore”, ad un “altro da sé”? È come si vede la domanda se l’intero universo dell’essere si riduce a ciò di cui abbiamo (possiamo avere) esperienza diretta ed immediata oppure se in questo universo esiste una “regione” di cui non abbiamo (non possiamo avere) un’esperienza diretta e immediata. In una parola: la domanda metafisica è la domanda sul Trascendente, nel senso più rigoroso del termine.

Questa domanda ha due proprietà uniche. In primo luogo, essa è ineliminabile, nel senso che non ammette via di uscita, neutralità: esige una risposta. La decisione di ignorarla costituisce già una risposta. Decidere di ignorare il Trascendente, di non pronunciarsi sulla sua esistenza o non, è già negazione del Medesimo. In secondo luogo, e di conseguenza, il senso della vita dell’uomo cambia totalmente a seconda della risposta a questa domanda. Se, infatti, l’uomo è completamente chiuso dentro questo mondo, egli ha come suo primo dovere di rifiutare — come distruttivo di se stesso — ogni proposta che tenti di farlo sporgere sopra di esso: momento di questa storia, non possiede in sé alcunché che lo possa rinviare oltre essa. Una cultura che ignora questa domanda o che semplicemente non ne è toccata è inevitabilmente una cultura che avrà una cura dell’uomo tesa semplicemente a renderlo un felice abitatore del tempo, non un chiamato all’eternità.

La domanda metafisica è — come si vede — strettamente connessa colla domanda etica: l’una, alla fine, non può porsi senza porre contemporaneamente l’altra. Se immediatamente la domanda etica emerge nella coscienza di ogni uomo come domanda su ciò che devo fare per non perdere me stesso, essa è portatrice, gravida di una duplice esperienza spirituale: l’esperienza di un assoluto e incondizionato dovere; l’esperienza della possibilità, inscritta nell’essere umano stesso, di perdere se stesso. Riflettiamo brevemente su ciascuna di esse.

Prestando attenzione a ciò che accade in noi, quando viviamo l’esperienza di un “dovere da compiere”, vediamo che siamo posti di fronte a un incondizionato, ad un assoluto. “Ciò che” ci è chiesto, ci viene chiesto non in nome di una qualche utilità che a noi potrebbe provenire dal compierlo o da qualche piacere che ne ricaveremmo. Utilità e piacere possono mancare del tutto. Esso ci viene chiesto, poiché esso merita/non merita in se stesso e per se stesso di essere fatto/non fatto. Un atto di ingiustizia non deve essere fatto semplicemente perché non è degno di essere fatto: non possiede nessun titolo all’esistenza. Non merita, per sua natura stessa, di essere compiuto. Attraverso e nell’esperienza del dovere si ha la percezione di un universo dell’essere che possiede in se stesso una sua intrinseca bellezza, una sua intrinseca bontà e preziosità che esige un rispetto assoluto. Non riconoscere questo universo è un atto privo di senso completamente: l’atto che ci è chiesto è essenzialmente un atto di riconoscimento di esso. Questa riflessione perde la sua apparente astrattezza, se facciamo ulteriormente attenzione all’esperienza.etica. “Ciò che” è chiesto dal dovere morale è un atto della persona: è la persona che è interpellata incondizionatamente e assolutamente. Sotto pena di tradire la verità del suo stesso essere persona: un atto di ingiustizia distrugge chi lo compie non, in primo luogo, chi lo subisce. Per questo è meglio esserne vittima che esecutore, E, così, nella e attraverso l’esperienza del dovere, la persona percepisce se stessa, vede se stessa come soggetto collocata in una dignità singolare ed unica: la dignità di chi deve riconoscere, divenire partecipe di quella bellezza, bontà che le appare come valore assoluto.

“... ove la volontà s’attenga all’ordine oggettivo degli enti, e così si faccia buona, ella s’innalza alle cose eterne, giacché l’ordine degli enti è eterno; e da tanta altezza domina sublime su tutte le temporali cose” (Antonio Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, Roma-Stresa 1981 pag. 472).

Ma in questa stessa esperienza, la persona umana scopre, inscritta in se stessa, la possibilità di perdersi, poiché “sente” che la sua libertà può rifiutare il suo assenso al Valore. La persona può perdere se stessa, per guadagnare il mondo intero. (cfr Mt. 16, 26).

Dunque, quando la persona umana ha la percezione del bene (morale), essa vede “qualcosa” di essenzialmente diverso da quando vede qualcosa che le è utile e/o piacevole. L’utilità non denota nessun valore in sé; è utile ciò che serve per l’altro. E lo stesso vale per ciò che piace. Una cultura, dunque, che censura la domanda etica è inevitabilmente una cultura che ha una visione utilitaristica dell’uomo. La “cura” che in questa cultura l’uomo avrà di se stesso sarà, pertanto, una cura tesa a dare all’uomo solo ciò che gli è utile e/o piacevole. Una cura, dunque, preoccupata non solo dell’essere della persona, ma del suo avere.

La domanda etica — come quella metafisica con cui è inestricabilmente connessa — è costretta, alla fine, a sfociare in quella religiosa. Per una ragione fondamentale che può essere espressa in due modi. La possibilità della libertà umana di rinnegare il valore è una imperfezione, un limite inscritto in essa, dal quale essa cerca di essere liberato. Alla fine, la libertà liberata è la salvezza dell’uomo, poiché l’uomo è veramente salvato quando ha superato il rischio di perdere non ciò che ha, ma ciò che è. Non di abbandonare ciò che possiede, ma la verità stessa del suo essere. Ed il peccato è questo male supremo: un male cioè di cui non se ne può pensare uno maggiore. Poiché anche il male di essere privato eternamente della visione del Volto di Dio non è paragonabile al male del fatto che l’uomo non sia degno, a causa precisamente del suo peccato, di avere questa visione. E ancora. Questa possibilità della libertà umana pone il problema del destino finale dell’intero universo creato in quanto è affidato al la medesima libertà dell’uomo. Da questa duplice constatazione sorge nell’uomo la domanda di una salvezza eterna, una domanda che so lo Dio può accogliere. Una cultura, dunque, che censura la domanda religiosa diviene alla fine una cultura della disperazione, così come una cultura che censura la domanda etica diviene alla fine una cultura della supremazia delle cose sull’uomo e una cultura che censura la domanda metafisica diviene alla fine una cultura del non senso. Disperazione, evasione e non senso non sono forse le linee fortemente caratterizzanti la cultura in cui viviamo? E la cura che in essa si ha dell’uomo non è prevalentemente una cura preoccupata di far tacere nell’uomo le tre domande fondamentali?

 

2. (La Chiesa e la cura dell’uomo)

Può sembrare fuorviante tutta questa riflessione che abbiamo compiuto finora in ordine allo scopo preciso di questo studio, dare inizio ad una pubblicazione che sia organo ufficiale dell’impegno istituzionale della Chiesa nel mondo della medicina. In realtà, così non è.

La Chiesa è stata istituita da Cristo per rispondere alla domanda di salvezza dell’uomo. Essa è stata voluta unicamente per questa salvezza. Sarebbe, tuttavia, un grave errore ritenere che la salvezza cristiana riguardi una non meglio identificata dimensione (della persona) che sia separata da altre. È l’uomo come tale che è salvato. Essa, la Chiesa, col suo Vangelo e coi suoi Sacramenti libera l’uomo dal non senso e dalla disperazione che ne segue, dal peccato e dalla perdita che in esso l’uomo subisce di se stesso, dalla morte col dono della Vita eterna. La sua esistenza non ha altra ragione.

La storia, d’altra parte, mostra che fin dagli inizi la Chiesa si è profondamente impegnata nella cura dell’uomo ammalato. Gli Ospedali (come le Università) sono invenzioni della Chiesa. Ha tradito se stessa in questo impegno? o, quanto meno, ha supplito lacune, disimpegni e disinteressi di altri? Solo chi ha una visione e dell’uomo e del Cristianesimo unilaterale e, dunque, astratta può, alla fine, pensare questo.

È l’uomo (ammalato) che la Chiesa vede nel malato. Cioè una persona umana ferita in una dimensione essenziale del suo essere personale, la dimensione corporea e/o psichica. E, pertanto, essa, la Chiesa, vede in questa situazione, la malattia, una conseguenza che può trovare la sua spiegazione ultima nel peccato. È ovvio che questa connessione non è affermata come valida in ogni e singolo caso. La malattia appartiene a questo mondo non in quanto esso è uscito dalle mani creatrici di Dio, ma in quanto è opera delle mani peccatrici dell’uomo. In questo senso, l’impegno della Chiesa vuole mostrare la sua missione di prolungare nel mondo la potenza salvifica del Cristo stesso. Ciò non toglie nulla al fatto che questa lotta sia e debba essere condotta con mezzi elaborati, inventati dal sapere e dalla ricerca umani. Al contrario: innalza questo impegno.

Proprio perché affidata a questi mezzi, questa lotta può fallire e la malattia risultare, alla fine, vincente. Ma vincente su che cosa? sull’uomo sofferente? A guardare le cose con occhio non superficiale, in realtà l’uomo, anche in questo caso, viene salvato se egli vive la sua sofferenza come partecipazione al mistero della Redenzione.

Abbiamo in questo il motivo più profondo della presenza della Chiesa nel mondo della sanità e della malattia, poiché esso si connette direttamente, immediatamente con l’atto redentivo di Cristo, da cui la Chiesa trae continuamente la sua vita.

L’atto redentivo, infatti, è, nella sua essenza, un atto di condivisione piena da parte del Verbo della condizione umana. Vissuta nell’obbedienza al Padre. “La realtà del peccato non può venir mutata in irrealtà da un decreto esterno di Dio. Il Figlio di Dio doveva prenderla su di sé per espiarla nell’abbandono della Croce. Ma questo non poteva accadere semplicemente dall’esterno. Non avrebbe corrisposto alla dignità della natura umana, se questa fosse stata trasferita in un altro stato come un oggetto senza vita; molto più si addiceva invece che nell’opera della massimamente libera grazia di Dio non mancasse il sì della cooperazione umana. Per questo dallo stadio di colpa in cui finora si trovava, l’umanità viene portata dal Redentore in un nuovo stato riconciliato con Dio: lo stato della Croce, nella quale essa, grazie alla libera grazia della Croce stessa, viene posta nella condizione di cooperare alla completa redenzione e di percorrere la strada verso lo stato finale celeste insieme col Redentore” (H.U. von Balthasar, Gli stati di vita del cristiano, Milano 1985, pag. 113).

L’atto redentivo di Cristo va, giunge fino alle radici del male umano sia e in primo luogo del male morale sia del conseguente male fisico e psichico. Esso, infatti, sottoponendosi anche alla morte — che di quel male è la sintesi totalizzante — lo prende su di sé, ma in un atteggiamento umano-spirituale opposto a quello che lo ha generato: l’obbedienza al Padre. In questo modo, il male morale è vinto alla sua radice e le conseguenze di questo, gli altri mali, possono essere vissuti, cambiandone sostanzialmente il significato: come accettazione e offerta per la completa redenzione del proprio corpo e del mondo.

In questa prospettiva, nella prospettiva della Redenzione, si vede come l’eventuale assenza della Chiesa dal mondo della malattia, priverebbe l’uomo ammalato (e il mondo stesso) di quella luce che gli fa scoprire la verità più profonda di quello stato in cui si trova.

D’altra parte si comprende come in una cultura di cui abbiamo tentato uno schizzo diagnostico nel punto precedente questa presenza sia tendenzialmente mal sopportata: tanto più quanto più la Chiesa è fedele alla sua identità specifica. In detta cultura, la malattia, e la morte, di cui la malattia è sempre in un qualche modo un segno precursore, è considerata unicamente come un “problema” da risolvere e non come un “mistero” nel quale l’uomo stesso è messo in questione, nelle radici del suo stesso essere. È questo “essere messo in questione” che esige dalla Chiesa una vicinanza al l’ammalato.

Dentro questa prospettiva generale, la Chiesa non poteva non preoccuparsi di elaborare, nel corso della sua storia, anche e di conseguenza un’etica della medicina. È questo un fatto che merita oggi un’attenzione particolare.

È stato detto giustamente che la medicina è la più umana delle scienze della natura, la più scientifica delle scienze umane. Con questa affermazione, si sottolinea l’incontro fra l’esigenza di un sapere rigorosamente scientifico e l’esigenza di non dimenticare mai, neppure per un momento, che la medicina ha sempre a che fare con una persona umana: con un soggetto avente un valore assoluto in sé e per sé. L’equilibrio fra le due esigenze non è facile né in teoria né in pratica. Per varie ragioni. Una sperimentazione, utile per accrescere le proprie cognizioni diagnostiche ma di nessuna utilità per quell’ammalato, si giustifica alla luce della prima esigenza, ma non alla luce della seconda. E gli esempi potrebbero essere moltiplicati. L’etica della medicina esprime quel complesso di norme morali che assicurano alla medicina, nel suo momento teorico e nel suo momento pratico, di essere precisamente rigorosamente scientifica e pienamente umana. Questa Rivista, che comincia con il presente numero, entrerà certamente nella trattazione di singoli problemi specifici. Non è questo il momento di farlo ora. Ci accontenteremo di alcune riflessioni generali.

La prima. La duplice esigenza di cui ho parlato non sono, strettamente parlando, co-ordinabili. La prima, quella della scienza, deve essere subordinata alla seconda, quella dell’etica, dal momento che il sapere scientifico non è un valore assoluto, nel senso che a esso debba essere sacrificato anche il rispetto che è dovuto ad ogni e singola persona umana. È vero che, come si obietterà, che la scienza, in questo caso, è per il bene dell’uomo. Si deve, tuttavia, risottolineare che nessuna persona umana può essere usata come mezzo, sia pure per il più nobile degli scopi. Ogni persona ha un valore intangibile di fine. E anche che la momentanea impossibilità da parte della medicina di vincere una malattia fisica o psichica non può essere equiparata — come male — al male morale di mancare di rispetto ad una persona. Il male morale è infinitamente superiore a qualsiasi altro male, poiché — se volessimo usare il vocabolario pascaliano — esso si oppone all’ordine della carità.

La seconda. L’esigenza del rispetto, assoluto ed incondizionato, dovuto a ogni persona umana acquista una particolare urgenza nei due momenti più importanti della sua storia: quello del suo concepimento e quello della sua morte. Questo spiega la particolare attenzione che la Chiesa ha riservato, nella sua riflessione etica, a questi due momenti della nostra storia. Nel primo, infatti, la Chiesa — ma non solo, ogni animo religioso — venera la presenza di un atto creativo di Dio e il “luogo” in cui esso accade deve essere santo. Di qui il rifiuto della contraccezione, della sterilizzazione e dell’aborto e l’affermazione del valore della procreazione responsabile. Nel secondo, l’uomo esce dalla storia per collocarsi definitivamente nell’eternità, davanti a Dio. Di qui la cura somma di cui questo momento deve essere circondato e, sul piano etico, il rifiuto di ogni suicidio-omicidio come di ogni accanimento terapeutico.

 

3. (Conclusione)

La missione della Chiesa è di servire l’uomo perché questi non muoia, ma abbia la vita eterna. Essa dà la risposta alle tre domande fondamentali che abitano nel cuore di ogni persona umana, anche oggi, soprattutto oggi, quando quelle tre domande sono censurate o, quantomeno, giudicate prive di senso. In questo essa promuove e difende la vita della persona: anche nel suo servizio alla persona ammalata.