S. MESSA CRISMALE
Cattedrale
17 aprile 2003
1. "Ho trovato Davide, mio servo, dice il Signore, con il mio santo olio l’ho consacrato". Le parole del Salmo che narrano l’elezione immeritata di Davide risuonano oggi con particolare profondità nel nostro cuore. Esse prefigurano la consacrazione dell’Unigenito Figlio del Padre con l’unzione dello Spirito Santo, della quale ciascuno di noi è divenuto partecipe. Noi oggi ci ritroviamo per celebrare l’incomprensibile misericordia del Padre che ha costituito sommo ed eterno sacerdote il suo Verbo, inviato "per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista". Per celebrare "Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno di sacerdoti". Resi partecipi della stessa unzione sacerdotale del Verbo incarnato, siamo stati costituiti suoi sacramenti personali, collocati dentro all’atto redentivo di Cristo per essere ministri e servi della sua redenzione. È precisamente questa collocazione della nostra persona nel mistero della redenzione, questa relazione unica col Redentore dell’uomo, che definisce la nostra identità.
Si tratta di una identità avente una connotazione essenzialmente "relazionale". "Ho trovato Davide, mio servo": ciascuno di noi è stato pensato e voluto dal Padre in Cristo; il nostro essere è stato voluto dal Padre come un essere consegnati al servizio redentivo di Cristo. "Con il mio santo olio l’ho consacrato": lo stesso Spirito che ha consacrato Cristo ha consacrato ciascuno di noi. In Cristo e con Cristo siamo stati mandati dal Padre nella potenza dello Spirito Santo per servire il popolo di Dio che è la Chiesa ed attrarre tutti a Cristo. È dunque il riferimento a Cristo la chiave interpretativa di tutta la nostra esistenza sacerdotale; la dimora stabile della nostra giornata; ciò che definisce interamente il senso della nostra vita. E poiché Cristo è – se così posso dire – tutto "relativo all’uomo" ["per noi uomini e per la nostra salvezza…"], il nostro "essere in Cristo" ci costituisce interamente "rivolti all’uomo": il "pro nobis" che spiega tutta l’opera del Verbo incarnato spiega tutta la nostra partecipazione sacramentale al suo sacerdozio. È questa la nostra identità, la nostra vera dignità, la sorgente della nostra gioia anche nella tribolazione, la certezza della nostra vita. Quale immensa grandezza accompagna il nostro vivere! rendere presente in mezzo al nostro popolo il donarsi di Cristo all’uomo. Essere in Cristo come Cristo; seguire Cristo che dona se stesso sulla croce: questo è tutto!
Comprendiamo allora qual è la principale insidia alla (consapevolezza della) nostra identità: è la solitudine. Non prendiamo subito questa parola nel suo immediato e superficiale significato psicologico e/o sociologico. L’insidia della solitudine è costituita dalla comprensione di se stessi prescindendo dal rapporto col Cristo Redentore dell’uomo e quindi dal rapporto con l’uomo. La solitudine di cui parlo è quella di chi non vive con Cristo per l’uomo. E poiché l’errore può insediarsi nello spirito solo mostrandosi come vero, con l’inganno cioè e/o con l’illusione, la falsa comprensione di sé che ci chiude nella solitudine, può entrare in noi o riducendo la nostra relazione a Cristo o mutando la natura del nostro rapporto con l’uomo. Questo infatti non è un rapporto di natura semplicemente morale, ma è di natura teologale: è un servizio redentivo. Ed è così perché il nostro rapporto con Cristo è di natura mistico-sacramentale.
2. Venerati fratelli, quest’anno il S. Padre non ci ha inviato nessuna lettera. Metterà nelle nostre mani, questa sera, la sua Enciclica sull’Eucarestia: dono grande ed atteso.
Fra pochi minuti la nostra celebrazione raggiungerà un momento di particolare drammaticità: rinnoveremo le promesse, e riscriveremo nel nostro cuore le clausole di quel "patto sacramentale" che lo Spirito Santo ha siglato fra la nostra persona e la persona di Cristo. Questo patto è quotidianamente rinnovato mediante il santo Sacrificio eucaristico. E pertanto quanto ho detto finora, resterebbe mera teoria se non ci fosse l’Eucarestia; se non celebrassimo l’Eucarestia.
Venerati fratelli, il momento centrale della nostra esistenza sacerdotale è costituito dalla celebrazione dell’Eucarestia. Che cosa significa la centralità dell’Eucarestia? Che essa è la chiave interpretativa unica e completa di tutta la propria vita.
Ciascuno di noi vive e configura la propria esistenza alla luce dell’interpretazione che egli dà di essa. Interpretare significa capire il significato; significa rispondere alla seguente domanda: "quale è il significato della mia vita?". Il significato è stato inscritto in ciascuno di noi dal carattere sacramentale impresso nella nostra persona dall’imposizione delle mani: carattere sacramentale che è in ordine alla missione. E così il cerchio interpretativo si chiude: la missione è il significato della nostra vita. Cioè: esiste una coincidenza perfetta fra la nostra persona (la nostra vita) e la nostra missione. Questa esaurisce completamente la ragione del nostro esserci: non c’è altra ragione di vivere all’infuori della nostra missione.
Qualora questa coincidenza fra missione e (significato della) vita non si avverasse, si aprono due alternative esistenziali davanti alla libertà del sacerdote: o vive una vita che ha contemporaneamente più significati, cioè una vita ambigua; o vive il proprio sacerdozio come un impegno assunto e da svolgere coscienziosamente, cioè una vita noiosa.
L’Eucarestia è la chiave interpretativa unica e completa della nostra vita, perché costituisce il contenuto della nostra missione: in Cristo e con Cristo servi della Redenzione dell’uomo.
3. Tutti i santi sacerdoti che hanno illuminato la Chiesa del secolo appena trascorso, il secolo dei martiri, ci svelano una particolare dimensione essenziale del nostro servizio alla redenzione dell’uomo: il mysterium iniquitatis vissuto dentro al mysterium pietatis. Il "mistero della pietà" è la morte di Cristo sulla Croce, che lo introduce nella vita eterna: è questo mistero che noi celebriamo quando celebriamo l’Eucarestia. Ma questo "mistero della pietà" si oppone quotidianamente a quel "mistero di iniquità" nel quale si trova l’uomo che rifiuta l’amore di Dio. Questa opposizione, vissuta in modo straordinario dai tanti martiri di oggi così come dai santi sacerdoti, è lo spazio, per così dire, in cui si svolge la nostra missione sacerdotale. "La Chiesa di continuo innalza la sua preghiera e presta il suo servizio, perché la storia delle coscienze e la storia delle società nella grande famiglia umana non si abbassino verso il polo del peccato col rifiuto dei comandamenti divini "fino al disprezzo di Dio", ma piuttosto si elevino verso l’amore, in cui si rivela lo Spirito che dà la vita" [Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Dominum et vivificantem 48,1; EE 8/549].
Più precisamente, che cosa implica il fatto che celebrando l’Eucarestia, noi portiamo all’altare sulle nostre spalle lo scontro redentivo fra il "mysterium iniquitatis" e il "mysterium pietatis"?
Poiché la coincidenza fra missione, vita e persona è posta in essere dalla nostra libertà, in primo luogo la celebrazione eucaristica implica un modo di essere libero, di concepire e vivere la nostra libertà, che è denotato da due termini: espropriazione-obbedienza. La libertà metafisica è nella sua natura autopossesso: in ordine a che cosa ultimamente? All’affermazione di sé attraverso un autonomo progetto di vita oppure attraverso un dono di sé stesso fino alla totale auto-espropriazione?
Poiché la coincidenza di cui sopra esige una precisa visione dell’uomo, la celebrazione dell’Eucarestia ci chiede di verificare continuamente la risposta che noi diamo alla domanda sull’uomo: siamo convinti che il male per eminenza dell’uomo è il male morale, il peccato? Oppure crediamo che altri mali siano più gravi?
Poiché la celebrazione dell’Eucarestia ci pone in un preciso rapporto con l’uomo, con ogni uomo, che è il rapporto istituito da Cristo sulla Croce, il "nucleo" della nostra esistenza sacerdotale è alla fine costituito dal nostro "stare alla tavola dei peccatori" per dire la salvezza di Cristo. In una parola: il cuore del nostro vivere è l’amore redentivo che Cristo ci comunica e vuole rivivere in noi. E’ la carità del pastore che dona la vita: "perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa" [Col 1,24].
Conclusione
"La mia mano è il suo sostegno, il mio braccio è la sua forza. La mia fedeltà e la mia grazia saranno con lui e nel mio nome si innalzerà la sua potenza ". Le parole dello Spirito Santo sono la nostra vera consolazione. Ci accompagnino oggi e sempre nel nostro ministero. Conosco le vostre difficoltà e le vostre tribolazioni; conosco la vostra quotidiana costanza; so quanto il Satana cerchi di farvi cadere nello scoraggiamento o di oscurare in voi la consapevolezza della vostra identità. Ma, siatene sempre certi, la mano del Signore è il vostro sostegno; il suo braccio è la vostra forza. La sua fedeltà e la sua grazia saranno sempre con voi e nel suo nome si innalzerà la vostra potenza, per ottenere dall'uomo l’obbedienza della fede.
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