Etica ed affari: impossibile, difficile, auspicabile convivenza?
Bologna – Prefettura, 15 novembre 2008
Esiste una relazione fra economia ed etica? La mia riflessione cercherà di rispondere a questa domanda. Se essa sorge, è perché almeno sembra che fra le due non vi sia alcuna relazione. Poiché ogni agire umano si definisce dal fine che si propone, è indubbiamente vero che il fine che si propone l’economista è altro dal fine che si propone l’eticista. Il primo studia e cerca di individuare "quei principi che spiegano le interazioni di soggetti che vivono in società e che riguardano la produzione, lo scambio, il consumo, etc. di beni e servizi" [S. Zamagni]. Il secondo studia le ragioni che giustificano/ non giustificano [nel senso letterale: che rendono le scelte giuste/ingiuste] le scelte dell’uomo: ragioni universalmente ed incondizionatamente condivisibili. Mentre dunque l’economista non intende sapere se l’agire è giusto, ma se è utile; l’eticista non intende sapere se l’agire è utile, ma se è giusto. Dunque separati in casa, dal momento che l’uno e l’altro studiano lo stesso "materiale": l’agire umano.
Ad un occhio però più penetrante le cose non appaiono solo in questo modo: esiste una correlazione reale, non semplicemente imposta ab estrinseco, fra l’etica e l’economia. È ciò che mi appresto a dimostrare.
1. Vorrei partire dalla costatazione di un fatto: la richiesta di regole, di nuove regole, dovuta soprattutto a quanto sta accadendo. L’idea di un mercato che ha in se stesso e per se stesso le proprie regole che lo legittimano pienamente, esce sconfitta, o quantomeno seriamente messa in discussione. Ciò che è accaduto ha decretato la fine della convinzione che il libero mercato sia in grado da solo di porre rimedio alle storture che esso stesso crea. L’invocazione di regole, sempre più frequente oggi, dimostra dunque che il divorzio o la separazione fra etica ed economia è cessato? Che il muro di silenzio reciproco è crollato? La vicenda non si chiude purtroppo così in fretta.
Mi spiego con un esempio. Un governo emana norme assai severe circa la concessione del permesso di soggiorno agli immigrati. Che cosa può spingere un imprenditore, che ha assoluto bisogno di forza lavoro per la sua impresa, a non trattare col trafficante di immigrati o a trattare? La prospettiva della sanzione? Potrebbe essere; ma non è pensabile che almeno in certe circostanze, la sanzione sia un’ipotesi poco probabile?
Sono a proposito due osservazioni di G. Leopardi. La prima dice che "L’abuso e la disobbedienza alla legge non può essere impedita da nessuna legge" [Zibaldone 229]; la seconda:
"Se l’idea del giusto e dell’ingiusto, del buono e del cattivo morale non esiste o non nasce per sé, nell’intelletto degli uomini, niuna legge di niun legislatore può far che un’azione o un’omissione sia giusta né ingiusta, buona né cattiva. Perocchè non vi può esser niuna ragione per la quale sia giusto né ingiusto, buono né cattivo, l’ubbedire a qualsivoglia legge, e niun principio vi può avere sul quale si fondi il diritto che alcuno abbia di comandare a chi che sia" [Zibaldone 3349-3350].
Se la richiesta di (nuove) regole è seria, essa deve prevedere ed assicurare la loro esecutorietà. Ora, l’esecutorietà di esse non dipende dalle regole stesse, ed ancora meno da sistemi di rafforzamento esogeno, ma dalla costituzione morale del soggetto. Solo una riflessione etica "in prima persona" sarà capace di dialogare con l’economia. Non ne è capace un’etica della "terza persona".
Mi fermo un momento a spiegare questo concetto, centrale in tutta la nostra riflessione. La prima figura di etica – "in prima persona" – studia la condotta umana dal punto di vista del soggetto agente, cioè in quanto essa è progettata e realizzata dal soggetto che ne è l’autore in vista di una vita buona.
La seconda figura – "alla terza persona" – studia la possibilità e l’individuazione delle regole che governano l’agire umano, ma prescindendo dal soggetto che agisce e progetta la sua vita. Ritiene infatti la considerazione di queste fonte di divisioni sociali [Hobbes, Locke], o come puramente soggettiva [Kant]; comunque razionalmente intrattabile.
La prima figura, elaborata dalla classicità greca e ripresa dal pensiero cristiano, è stata rifiutata dalla modernità.
Riprendiamo il filo della nostra riflessione. È perché vi sono agenti che hanno una precisa costituzione etica in forza della quale preferiscono la giustizia all’ingiustizia, che le regole, nuove od antiche che siano, saranno rispettate. Già Aristotile annotava che non è la regola che fa l’uomo giusto, ma l’uomo giusto che fa ed osserva le regole.
Contro questa dottrina etica "alla prima persona", comune ripeto all’Occidente fino al XVI secolo, si oppone la dottrina etica che la regola ha la sua origine esclusivamente dal consenso delle parti, le quali devono prescindere dalle loro concezioni di vita buona. Non per caso è stata questa teoria etica la principale responsabile della separazione fra etica ed economia, dal momento che essa ha fondato e giustificato la tesi secondo la quale il mercato si autolegittima. Esso infatti è il luogo in cui gli agenti sono liberi di scegliere e perciò liberi di acconsentire alle conseguenze derivanti dalle loro scelte: consensus facit justum!
È noto che l’aver posto alla base dell’obbligazione etica il consenso, è una conseguenza della visione individualista dell’uomo. Secondo questa visione infatti l’uomo non è originariamente, cioè per natura associato. Esso si associa per libero consenso. È la contrattazione l’unica forma dell’associarsi fra gli uomini. Pertanto esiste fondamentalmente solo la giustizia commutativa e la giustizia legale: l’una esige il rispetto degli obblighi contrattati [= "fosti d’accordo, ora sei obbligato a mantenere gli accordi"]; l’altra esige il rispetto delle regole che disciplinano la libera contrattazione. Un’idea forte di bene comune non è pensabile in questo contesto.
Come è noto il grande teorico della teoria (neo-)contrattualista è stato J. Rawls. Uno dei principi che giustificano la detta teoria è che i vincoli, le regole che governano il mercato e le contrattazioni, siano da tutti condivisi o comunque se conosciute, sarebbero da tutti condivise.
Già Agostino nelle sue profonde analisi della libertà umana aveva però accuratamente distinto la possibilità di scegliere dalla capacità di scegliere. Poiché trattava un problema teologico, faceva la distinzione fra il posse non peccare [= possibilità di peccare o non peccare] e il non posse peccare [= la capacità effettiva di non peccare]. Da ciò deduceva che la grazia di Cristo non negava la libertà, ma semplicemente la rendeva capace di scegliere.
Lasciando il contesto teologico, possiamo semplicemente dire: la capacità di usare della propria libertà rientra nella sua definizione. L’uso fa parte della definizione.
Orbene, non bisogna essere grandi economisti per sapere che nelle nostre economie di mercato spesso c’è la possibilità di scelta, c’è assenza di costrizioni [nessuno obbliga un genitore ridotto alla miseria a vendere un organo del suo corpo per risolvere i suoi problemi], ma non la capacità di scegliere, come risulta dal fatto che la stessa persona non acconsente alle conseguenze della scelta, ma le subisce [il genitore non acconsente alle conseguenze spiacevoli del fatto che ora sarà con un rene solo].
Aristotile già diceva finemente che non esiste solo il volontario e l’involontario, ma anche il non –volontario. E che solo il volontario è un atto pienamente umano. Il pilota che in un’emergenza scarica in volo tutto il carburante dell’aereo compie un atto non –volontario, e non un atto involontario: ha voluto, ha deciso di svuotare i serbatoi, ma non acconsente alle conseguenze.
Insomma: il libero mercato deve essere veramente libero. Ed è tale se chi lo fa, è persona libera; se il mercato risponde alle esigenze reali dell’uomo in tutte le sue dimensioni; se il valore di scambio non è sconnesso dal valore d’uso, cioè dalla sua effettiva utilità all’uomo nella concretezza dei suoi bisogni.
Questa lunga, e forse complicata riflessione, ci ha portato ad una conclusione. La seguente: il mercato, in quanto luogo in cui gli agenti sono liberi di scegliere e quindi di acconsentire alle conseguenze delle loro scelte, non è in grado di autolegittimarsi, perché semplicemente non è quasi mai vero il presupposto dell’autolegittimazione.
E pertanto, se il mercato non è in grado di autogiustificarsi è necessario ricorrere all’etica.
Ma quale etica? I sistemi etici sono tanti. Ho parlato sopra di una transizione epocale da un’etica alla prima persona ad un’etica alla terza persona. Ritengo che sia necessario tornare alla prima, perché la sola capace di instaurare un dialogo vero con l’economia. Nella seconda parte del mio intervento vorrei riflettere in questa direzione, partendo dalle ultime riflessioni.
2. Parto da un testo mirabile della Lett. Enc. Centesimus annus, che dice:
"Sembra che, tanto a livello delle singole nazioni, quanto a quello dei rapporti internazionali, il libero mercato sia lo strumento più efficace per collocare le risorse e rispondere efficacemente ai bisogni. Ciò, tuttavia, vale solo per quei bisogni che sono "solvibili", che dipendono da un potere di acquisto, e quelle risorse che sono "vendibili", in grado di ottenere un prezzo adeguato. Ma esistono numerosi bisogni umani che non hanno accesso al mercato. È stretto dovere di giustizia e di verità impedire che i bisogni umani fondamentali rimangano insoddisfatti e che gli uomini che ne sono oppressi periscano" [34,1; EE 8,1417].
È ripresa in questo testo l’intuizione centrale del Magistero della Chiesa da Paolo VI in poi: la globalizzazione non va condannata ma governata, e la finanza deve essere al servizio dell’economia reale.
Per comprendere la ragione profonda di queste affermazioni è necessario che partiamo da alcune riflessioni antropologiche.
Il modo di essere proprio delle persone è costitutivamente relazionato alle altre persone. Nessuna persona è in questo senso un individuo: indivisum in se et divisum a quolibet alio, come dicevano gli Scolastici. Parlare di persona irrelata è parlare di un’astrazione.
La relazione si costituisce nel riconoscimento dell’altro come persona avente la stessa dignità della propria persona. "Non fare all’altro ciò che non vorresti fosse fatto a te – ama ogni altro come te stesso", è la regola aurea inscritta nella natura stessa della persona umana.
Come giustamente pensava I. Kant, le due parole "genere animale" e "genere umano" hanno significato denominativo diverso. Mentre la prima denota semplicemente un insieme di tanti individui appartenenti alla stessa specie, la seconda denota e la famiglia-comunità umana e ciò che fa di ogni membro di essa una persona. Umanità denota cioè non un insieme di individui appartenenti alla stessa specie, ma una comunità di persone legate dal vincolo del riconoscimento.
Il termine "prossimo" [che, non dimentichiamolo, è il superlativo di prope] significa questo legame originario. Anche altri termini denotano "prossimità" come cittadino, coniuge, nazione … Ma mentre il primo termine denota la interrelazione nella stessa umanità; gli altri termini denotano la modalità in cui la prossimità si realizza. L’essere prossimo e l’essere membro di una comunità si compenetrano reciprocamente.
Questa compenetrazione è sia di ordine oggettivo che di ordine soggettivo. Di ordine oggettivo: il prossimo è sempre membro di una certa comunità [famiglia, nazione, Stato …] e i membri di una certa comunità sono prossimo. Di ordine soggettivo: l’agire con i membri della stessa comunità [della stessa famiglia, della stessa città …] deve giungere fino all’umanità di ogni uomo. Separare cioè la realizzazione del bene della comunità dal bene dell’uomo come tale è una menzogna [nega la verità dell’uomo] ed un’ingiustizia [non rende all’uomo ciò che è dell’uomo: unicuique suum].
L’interpretazione che Gesù dà nella parabola del Samaritano della regola aurea [amerai il prossimo …] ci fa comprendere il profondo significato di "prossimità". Il sistema di riferimento "il prossimo" esprime l’interrelazione tra tutti gli uomini sulla base della loro semplice umanità, mentre il sistema di riferimento "membro della comunità", non svela ancora questa interrelazione [cfr. K. Woitila, Persona e atto, Rusconi, Milano 1999, pag. 685-687].
Il samaritano si rapporta al ferito uscendo dalla sua determinazione di appartenere ad un’etnia, cosa che non fa né il sacerdote né il levita.
Se ora rileggiamo il testo della Centesimus annus ne comprendiamo meglio il significato. La "comunità mercato" colle sue regole proprie non può essere sradicata dalla comunità posta in essere dall’interrelazione di umanità. Non tutti i bisogni sono "solvibili" né tutte le risorse sono semplicemente "vendibili": l’humanum come tale non ha prezzo perché ha una dignità.
Comprendiamo meglio come il mercato non debba essere lasciato alla sua autosufficienza ed autolegittimazione: esso è strumento, oggi necessario, per il fine che è il bene comune. E fra bene comune e bene individuale due esiste una integrazione gerarchica. Non si tratta di una reciproca limitazione: l’uomo come "membro della comunità mercantile" limiterebbe l’uomo "prossimo" e alla "regola d’oro" andrebbe sostituita la "regola di rame": "fai all’altro ciò che l’altro fa a te". Integrazione gerarchica significa che il sistema di riferimento "prossimo" ordina dall’interno il sistema di riferimento "mercato". Siamo così giunti alla stessa conclusione della riflessione sviluppata nel primo punto.
Solo una profonda attitudine di solidarietà, che trova espressione nel comandamento dell’amore del prossimo, è in grado di subordinare dall’interno il mercato al sistema di riferimento "prossimo", cioè al bene comune. Questa subordinazione è opera della "giustizia generale", la chiamavano gli antichi eticisti: la permanente disposizione ad ordinare il proprio interesse privato al bene comune. E aggiungevano che … era soprattutto necessaria [principaliter et quasi architectonice, dice S. Tommaso in 2,2,q.58,a.6] in chi governa gli Stati.
La conclusione quindi non è di mettere in discussione né il mercato come tale né il mercato a struttura capitalista. Esso al contrario è da salvaguardare, contro eventuali tentazioni di marca neo-statalistica e neo-corporativa.
La riflessione precedente conduce invece a concludere che si tratta alla radice di una crisi più antropologica che economica. In un duplice senso. E nel senso che la riduzione della razionalità alla razionalità utilitarista, porta alla creazione di una ricchezza solo virtuale. E nel senso, anche e soprattutto, che non si può mai dimenticare che l’uomo ha bisogni e moventi ben più profondi del solo profitto anche quando e nel momento in cui è homo oeconomicus.
Vorrei concludere con un paio di osservazioni che mi sembrano logiche conseguenze di quanto detto finora.
La prima. L’analisi condotta, un po’ troppo schematicamente lo riconosco, nella seconda parte della mia riflessione ci fa scoprire la vera radice dell’alienazione dell’uomo. Essa consiste nella separazione del sistema "prossimo" dal sistema "membro della comunità mercantile" e nella loro contrapposizione. Potremmo dire: l’uomo si aliena, si estranea da se stesso quando sostituisce la regola di rame alla regola d’oro. Quando l’uomo sradica il mercato dall’interrelazione di tutti gli uomini nell’umanità come principio di ogni comunità, perde se stesso e vedrà sempre il proprio bene in concorrenza col bene comune. E alla fine dimentica i suoi bisogni reali.
La seconda. Ciò che ha generato l’alienazione è stata la visione individualista dell’uomo: è questa la nostra malattia mortale. Il ritorno in economia della relazionalità – di cui parla il prof. Zamagni – è la via da percorrere. Riportare dentro l’economia la visione relazionale della persona e quindi la centralità della categoria del bene comune, è un’impresa ed un sfida non più eludibili. È questa la condizione per far sì che il mercato diventi luogo di umanizzazione dei rapporti interpersonali e strumento di progresso sociale.
Era anche questo il significato dell’omelia che ho fatto per la solennità di S. Petronio, indicando in questa svolta antropologica la condizione basilare della crescita anche della nostra città.
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