INCONTRO CONFESERCENTI 12 settembre 1996
Ringrazio dell’invito rivoltomi a partecipare a questo vostro incontro.
Sono sicuro che, invitando il vescovo, non vi aspettate da lui lezioni
di economia: non è mia competenza né personale né
istituzionale. La Chiesa non ha nessuna dottrina economica da proporre
e non si sposa a nessuna di esse, non avendo nessuna autorità conoscitiva
al riguardo. Ma la Chiesa, con una esperienza ormai bimillenaria, ha una
precisa visione della persona umana e dell’agire umano. Dunque anche dall’agire
umano teso a produrre beni utili, quale è l’attività economica
in tutte le sue forme.
La mia breve riflessione vorrà allora richiamare alcuni punti
di questa visione, che mi sembrano abbiano particolare attinenza ai problemi
che poi discuterete. Non voglio dare al mio dire alcun ordine sistematico:
sono riflessioni che sono sorte in me, a causa del mio dovere pastorale.
1. Leggendo i vostri rapporti, ho notato che volete trattare di imprese
familiari. La cosa mi ha fatto riflettere, poiché mi ha fatto pensare
subito ad uno dei cardini di quella visione cristiana dell’uomo e della
società di cui parlavo poc’anzi. Essa rifiuta una costruzione della
società che riconosca come uniche realtà in gioco lo Stato
e l’individuo, poiché esistono delle realtà, diciamo, intermedie.
Fra queste la più importante di tutte è la famiglia.
La famiglia si rivela come soggetto sociale, economico e culturale
e per certi aspetti anche politico di necessaria intermediazione, che
lo Stato deve riconoscere. Se queste affermazioni hanno una rilevanza di
importanza decisiva per il futuro del nostro popolo, quando si affronta
il problema educativo e dell’organizzazione scolastica, non riveste minore
importanza quando si affrontano i problemi economici. La famiglia, d’altra
parte, in quanto “società naturale fondata sul matrimonio”, ha dei
diritti che non le sono conferiti dallo Stato ma che le appartengono in
proprio.
La vostra presenza, il vostro desiderio di porvi come vero soggetto
economico e sociale, anche come imprese a conduzione familiare, pone un
problema molto serio. Esso non è solo di “tecnica” politica, di
“ingegneria” istituzionale: in questo caso come Vescovo non avrei nessun
diritto di parlare. E’ un problema dell’uomo come tale. E’ un problema
che formulerei nel modo seguente.
O lo Stato risponde a tutti i bisogni, - creando una organizzazione
burocratica enorme, la quale poi si espande non tanto per rispondere ai
bisogni quanto per obbedire a logiche interne di crescita e di potere di
quelli che fan parte dell’organizzazione, - oppure è necessario
concepire la politica sociale come una politica in cui lo Stato valorizza
le comunità intermedie, dà loro risorse (finanziarie, tecniche
o di altro tipo), le aiuta a mettersi insieme, a creare associazioni, gruppi,
movimenti attraverso i quali la società stessa risponde ai propri
bisogni nel campo dell’assistenza, dell’istruzione, della politica, del
lavoro, della casa ecc. Nella dottrina sociale della Chiesa questo è
chiamato il “principio di sussidiarietà”: una comunità più
grande non deve fare ciò che è compito di una comunità
più piccola, a meno che, questa comunità più piccola
non sia così disgregata, così distrutta da non poter rispondere
al bisogno. La crisi dello stato sociale porta a riscoprire questo principio
di sussidiarietà. Lo Stato deve intervenire per aiutare queste comunità
a svolgere i compiti che appartengono loro.
Leggendo la documentazione che mi avete inviato, mi sono reso conto
certamente dei problemi di vario genere che il tener fede ad una costruzione
sociale così concepita comporta. Ma, credetemi, la via da battere
è questa: rivalutare la famiglia come soggetto sociale che interpella
l’istituzione e l’intera strutturazione della politica sociale.
2. Vorrei ora precisamente riflettere su uno dei problemi che
è implicato in ciò che ho detto precedentemente, di particolare
gravità e importanza. Dicevo che ogni Stato, quando non valorizza
le comunità intermedie, è costretto a creare una organizzazione
burocratica sempre in crescita, col rischio di rispondere sempre meno ai
bisogni della gente. Uno degli effetti di questo fenomeno è la necessità
per lo stato di prelievi fiscali sempre maggiori. Al riguardo l’insegnamento
della Chiesa merita di essere brevemente richiamato.
Credo che non sia necessario ricordare essere un grave dovere morale
pagare le tasse. Morale e non solo giuridico: un dovere cioè che
lega la persona in ciò che costituisce la sua realtà o dimensione
più sacra, la coscienza morale, e di fronte a Dio stesso.
Ma colla stessa forza si deve ricordare anche un altro insegnamento
della Chiesa, la quale per altro non fa che esplicitare quanto la retta
ragione di ogni uomo capisce: lo Stato deve rispettare le esigenze fondamentali
della giustizia tributaria. Esse sono le seguenti.
La prima: il prelievo fiscale deve essere adeguato, proporzionato alle
vere, concrete esigenze del bene comune. Un prelievo fiscale eccessivo
reca danni assai gravi di ordine morale: genera attitudine di sfiducia
nei confronti delle istituzioni pubbliche. La seconda: poiché l’imposizione
fiscale è ricchezza tolta ai privati per impiegarla per il bene
pubblico, al diritto dello Stato di prelevare al privato la ricchezza corrisponde
il dovere dello Stato di assicurare servizi pubblici sempre migliori. E’
una grave e permanente ingiustizia se alla crescita in quantità
del prelievo corrisponde una diminuzione in qualità dei servizi.
Se non presta nel modo dovuto i servizi per cui esige le tasse, lo Stato
non ha più il diritto a questa esazione. La terza: il prelievo fiscale
non deve mai essere tale da mortificare l’iniziativa privata dei cittadini,
anzi essa dovrebbe risolversi in un elemento di tutela e di stimolo della
medesima. La quarta: poiché, come ho già detto, la legge
fiscale toglie ricchezza guadagnata onestamente, essa deve essere estremamente
chiara e semplice da interpretare, poiché ognuno ha il diritto di
sapere con esattezza ciò che deve.
Quando la legge fiscale non rispetta più queste esigenze, essa
è ingiusta ed in linea di principio non obbliga più moralmente.
Non voglio più togliere tempo ulteriore ai vostri lavori. Consentitemi
una breve conclusione. Siamo tutti d’accordo che abbiamo bisogno di ricostruire
un tessuto sociale più forte, e di ridare al nostro popolo una fiducia
ed una speranza più grande: di riscoprire, in una parola, la nostra
vera identità di persona chiamata alla comunione interpersonale
colle altre persone. L’uomo vive sempre appartenendo; è un essere
che appartiene sempre a qualcuno: ricostruire una società equivale
sempre a riprendere coscienza che il destino di ogni uomo è legato
al destino di ogni altro.
|