LE RAGIONI ANTROPOLOGICHE DELL’ACCOGLIENZA
Catania, 3 giugno 2003
Il gesto dell’accoglienza di cui parleremo, è carico di significato sia teologico sia antropologico. Mi limiterò al significato antropologico. Cercherò di rispondere alla seguente domanda: quale senso veicola il gesto di accogliere in famiglia chi fino a quel momento ne era estraneo?
1 [Prologo teologico]. Partiamo da un testo paolino che dice: "così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e famigliari di Dio" [Ef. 2,19]. L’affermazione paolina è il seguito di una potente descrizione dell’atto redentivo di Cristo, pensato interamente come opera di superamento dell’estraneità della creatura umana peccatrice al suo Creatore: estraneità chiamiamola verticale che generava una estraneità orizzontale. Spaccava in due l’umanità [cfr. ibid. 14.18]. La redenzione dell’uomo quindi consiste nell’essere stato introdotto definitivamente nella "famiglia di Dio", e il senso della sua vita nel famigliarizzarsi sempre più profondamente col suo Dio.
Questa lettura che Paolo fa dell’avvenimento cristiano apre una finestra sul Mistero stesso di Dio, per così dire: ci consente in un qualche modo di guardarci dentro. Ciò che ci stupisce senza fine è il fatto che in Cristo Dio non ha voluto che rimanessimo semplicemente nella nostra condizione di creature, nella infinita distanza che separa l’Essere increato dall’essere creato, l’Essere infinito impartecipato dall’essere finito partecipato. Egli ha deciso di farci vivere della sua stessa vita: di elevarci alla condizione divina, rendendoci partecipi della sua stessa natura divina. Paolo esprime tutto questo dicendoci che noi siamo "famigliari di Dio".
È questo l’originario gesto di accoglienza che sta all’origine del nostro esserci: Dio in Cristo ha per così dire aperto le mura insuperabili della sua casa e vi ha introdotto l’uomo. L’uomo in Cristo e per mezzo di Cristo ha cessato di essere un estraneo, "extra Deum", ma ne è divenuto "uno di casa".
L’essenza di Dio sono le relazioni di amore e di conoscenza tra le Persone divine che costituiscono un unico Dio tripersonale: uno nella Trinità e trino nell’unità, come ripete la Chiesa. L’unità suprema dell’essere non è l’identità di Dio con Se stesso, ma è l’unità delle tre Persone divine. Dio è Amore: nella sua intima essenza è unità, reciprocità, correlazione tripersonale. L’uomo ha cessato di essere estraneo a questa Famiglia divina. Vi è stato introdotto; vi è stato ammesso. Come? da figli nel Figlio.
Perché ho fatto questo "prologo teologico"? perché l’atto redentivo di Cristo, l’avvenimento cristiano in senso stretto, è la chiave interpretativa corretta della persona umana e di ogni suo agire. Più precisamente: è l’unica via che ci conduce ad avere una comprensione dell’intera verità dell’uomo.
2. [Prologo antropologico]. La più grande affermazione fatta dalla Rivelazione ebraico-cristiana sull’uomo è che questi è stato creato "ad immagine e somiglianza di Dio". Nella pienezza della rivelazione cristiana questo significa che egli partecipa alla vita e alla verità di Dio. L’uomo, la persona è a livello creaturale ciò che Dio è a livello increato nella sua essenza, cioè Amore. La persona umana è un essenziale relazione con l’altra persona. È questa un affermazione centrale sull’uomo, sulla quale è opportuno che ci fermiamo brevemente. Che cosa in realtà noi diciamo quando diciamo che la persona umana è in essenziale relazione con l’altra persona?
Non affermiamo semplicemente un fatto: ovunque l’uomo vive con l’uomo. Non descriviamo semplicemente un bisogno: l’uomo ha bisogno dell’uomo. Diciamo una verità riguardante la natura stessa della persona umana: il suo essere in relazione con l’altro coinvolge il nucleo stesso della sua soggettività.
Ritornerò più avanti su questa visione dell’uomo in rapporto alla condizione spirituale con cui oggi ci troviamo a vivere. Per ora riteniamo conclusi i due prologhi. Essi in fondo ci hanno ricordato due fondamentali verità. La prima: all’origine del nostro esserci ci sta un atto di "accoglienza" di Dio; la seconda: questa condizione relazionale in cui la persona umana è posta, la rende costitutivamente capace di vivere nella relazione con l’altra persona. In sintesi: il fine per cui esiste di fatto la persona umana è la relazione del Dio trino che la crea, la vivifica, la santifica, ponendola così in relazione con ogni altra persona umana.
S. Tommaso ha scritto che tutto l’ordine della divina sapienza creatrice si propone la relazione d’amore fra l’uomo e Dio e fra l’uomo e l’uomo.
3 [La relazione coniugale forma originaria della relazione interpersonale]. Entro ora pienamente in argomento. Esiste un fatto che è simbolo reale di questo mistero dell’uomo di cui ho parlato finora? È necessario spiegare brevemente che cosa significa "simbolo reale". È una realtà che significa "qualcosa d’altro" presente …però nello stesso segno. Per i credenti, l’Eucarestia è il più grande e perfetto simbolo reale che esita. Ed ora cerchiamo di rispondere.
In realtà il simbolo reale della persona è il corpo. È il corpo che manifesta l’esistenza della persona e comunica la sua presenza. Per mezzo del corpo, la presenza del nostro io – che è di natura spirituale – è presenza immediata. La persona è il corpo personale; il corpo è la persona corporale.
Il corpo umano però non è uni-forme; è bi-morfe: è maschile o femminile. La persona umana è uomo o donna. E dunque la capacità, il linguaggio simbolico del corpo si realizza e si esprime mediante la mascolinità/femminilità.
E qui si pone una domanda fondamentale su questo modo di dirsi della persona umana, di rendersi presente: perché così? che senso ha questo linguaggio? quale è il suo significato fondamentale? Devo per ragioni di tempo, formulare subito la risposta: il bimorfismo sessuale è il simbolo reale della chiamata della persona alla comunione interpersonale che consiste nell’unità duale fra uomo e donna. Il corpo parla un linguaggio sponsale. E l’unità duale si costituisce solo nel dono di sé che nasce dal riconoscimento del valore dell’altro come altro.
Nell’universo dell’essere creato là dove si costituisce una comunione coniugale, accade l’avvenimento originario della vocazione umana: "ad immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò".
4 [La relazione coniugale genera la relazione parentale]. Ma quanto detto finora ci porta a riflettere sull’altra relazione fondamentale di accoglienza: quella parentale.
La questione può anche essere posta nel modo seguente: quale è il modo di dare origine ad una nuova persona umana, adeguato alla sua dignità?
La correlazione coniugale si compie nella correlazione paternità-maternità. Dobbiamo ora riflettere seriamente e pacatamente su questo "compimento" della correlazione o vincolo coniugale.
Partiamo da un testo paolino: "piego le ginocchia al Padre dal quale trae nome ogni paternità in cielo e sulla terra" [Ef 3,14-15]. La paternità [-maternità] umana trae la sua "origine" dalla paternità divina. È qui suggerito un grande mistero, al quale dobbiamo accostarci "piegando le ginocchia".
Ogni persona umana è creata immediatamente da Dio: nessuno viene a mondo per caso o per necessità. Non solo, ma come insegna S. Tommaso – insegnamento fatto proprio dal Concilio Vaticano II – ogni persona umana è voluta "per se stessa": non in funzione d’altro, come invece accade per gli individui nelle altre speci viventi. Ma è ugualmente certo alla luce della fede che
nel disegno di Dio la vocazione di ogni persona umana va oltre i confini del tempo: ciascuno di noi esiste in vista della partecipazione alla stessa vita divina (cfr. Gv 10.10).
Esistere "per se stesso" non contraddice l’esistere "per la vita divina"?
destinando l’uomo alla vita divina non lo sottrae definitivamente al suo esistere per se stesso? La risposta della fede a questa domanda – chiave sul senso della nostra vita è semplice e grandiosa. "Per la sua stessa genealogia, la persona, creata ad immagine e somiglianza di Dio, proprio partecipando alla Vita di Lui, esiste "per se stessa" e si realizza. Il contenuto di tale realizzazione è la pienezza della vita in Dio, quella di cui parla Cristo (cfr. Gv 6,37-40), che proprio per introdurci in essa ci ha redenti (cfr. Mt 10,45)" [Giovanni Paolo II, Lett. … cit. 9,6].
Quando parliamo di paternità-maternità, non dimentichiamo mai queste verità: quando viene nel mondo una nuova persona umana, nell’universo dell’essere è accaduto un atto d’amore di Dio che ha voluto che una nuova persona partecipasse della sua beatitudine. Ogni paternità-maternità trae origine da questa Paternità.
La venuta al mondo di una nuova persona umana esige la cooperazione dell’uomo e della donna. Quale cooperazione? Di che natura deve essere questa cooperazione? La risposta a questa domanda farà vedere i fondamenti antropologici della famiglia.
Se ogni paternità deriva dal Padre, solo la cooperazione umana che desidera, che vuole il figlio "per se stesso" è adeguata al suo Archetipo. Ed ancora, a ben riflettere, solo quando il desiderio del figlio si configura come l’attesa di un dono, egli è voluto "per se stesso". Al dono infatti non abbiamo nessun diritto; il dono implica un donatore che compie la donazione per gratuito amore; il dono implica che il donatario permanga sempre nella pura attesa del non-dovuto.
Il dono di cui stiamo parlando non è "qualcosa", ma "qualcuno": una persona umana considerata nel momento in cui viene all’esistenza. Quanto abbiamo detto prima si concretizza nel modo seguente. Al figlio non esiste nessun diritto; il Donatore è solo Dio Creatore che fa essere la persona "per se stessa"; i genitori possono solo cooperare a che la persona sia voluta anche da loro "per se stessa", mediante un atto di reciproco amore. L’unica risposta giusta alla domanda che il figlio rivolge ai genitori: "perché ci sono?", è la seguente: "perché ho amato tuo padre/tua madre". "Occorre … che al volere di Dio si armonizzi quello dei genitori: in tal senso, essi devono volere la nuova creatura umana come la vuole il Creatore: per se stessa" [Giovanni Paolo II, Lett. … cit. 9,7]. La genealogia della persona può radicarsi solo in questo evento di amore-dono. È questa la ragione profonda per cui niente e nessuno può sostituire l’atto dell’amore coniugale in ordine a porre le condizioni del concepimento di una nuova persona. È questa la ragione ultima per cui la relazione genitoriale si radica e si fonda nella relazione coniugale.
Ne consegue che la cooperazione umana alla paternità divina può subire due squalificazioni; ambedue nascono dalla non consapevolezza che ogni persona umana "esiste per se stessa".
La prima squalifica può venire dalla riduzione della genealogia della persona alla biologia della generazione. Uno dei segni di questa riduzione è l’inflessibilità con cui si è proceduti nell’estensione dei procedimenti di procreazione artificiale a qualsiasi domanda di figlio, e nella ritornante mentalità eugenetica.
La seconda squalifica è più sottile e quindi più insidiosa. Essa consiste nella subordinazione della paternità-matenità alla logica del desiderio di auto-realizzazione dell’uomo e/o della donna. Il figlio è visto come ciò di cui l’uomo e la donna hanno bisogno per la loro felicità. È una sottile, spesso inconscia subordinazione della persona alle esigenze dell’altra. La cosa è tanto vera che ormai avanza l’affermazione del diritto del singolo, a prescindere dal fatto che sia sposato o non, ad avere il figlio.
La relazione parentale si radica nella relazione coniugale: anche la nuova persona è chiamata all’esistenza nella verità e nell’amore. La genealogia della persona è essenzialmente diversa dalla produzione di un individuo della stessa specie, pur avendo in comune le stesse basi biologiche. La connessione fra queste due relazioni costituisce la famiglia. Essa quindi è "più che" la relazione coniugale; è più che la relazione parentale. Essa non è la mera giustapposizione delle due .
La famiglia è la com-posizione delle due relazioni: ed è questa composizione che fa esistere quella comunità o relazione sociale piena che chiamiamo famiglia.
Ora abbiamo tutto l’insieme delle ragioni antropologiche dell’accoglienza. Eravamo partiti da una domanda: che senso veicola il gesto dell’accoglienza?
La costruzione della domanda ci ha fatto entrare nell’universo delle persone. Esso è dotato di una sua intrinseca bellezza; di un suo proprio splendore perché è dominato, è governato da una legge: la legge dell’accoglienza. Essa consiste nel fatto che nessuna persona è estranea, è straniera all’altra.
Questa legge noi l’abbiamo scoperta nell’avvenimento cristiano. Avvenimento in cui un’infinita estraneità è stata superata e vinta in un modo di cui non poteva essercene uno maggiore: il peccatore introdotto nella famiglia di Dio.
Questa legge noi l’abbiamo vista nel sociale umano realizzarsi nell’unità duale quale si ha nella comunione coniugale in cui ognuno dei due è affermato e voluto, cioè amato nella sua diversità.
Questa legge noi l’abbiamo vista nel volere che nuove persone umane entrino nell’universo delle persone volute per se stesse. Questa raggiunge il suo vertice quando una famiglia umana si apre ad una persona perché non sia più straniera od ospite, ma sia figlio-fratello-sorella: voluto per se stesso
Ciò che è accaduto dentro la Trinità si riflette dentro all’universo delle persone create: questo è l’avvenimento più grande che possa accadere, perché è un frammento in cui si riflette la bellezza della Chiesa. Bellezza dove la verità dell’uomo si rivela come amore e l’amore è non un ideale, non un sogno, non un imperativo, ma una realtà compiutasi in Cristo.
|