Intervento al convegno “Biotecnologie: vecchie o nuove normative?”
Roma, 12 marzo 1987
Cercherò di rispondere a due domande.
1) Perché la “biotecnologia” coinvolge anche le istanze religiose e in che senso le coinvolge?
2) Quali sono i criteri fondamentali alla base dei quali la Chiesa cattolica da’ un giudizio sulla bio-tecnologia?
1) Partiamo da una definizione della tecnica sulla quale penso ci sia un consenso da parte di tutti. La tecnica è l’uso delle cognizioni scientifiche in ordine al raggiungimento di determinati scopi. Essa — la tecnica — si distingue dalla scienza come tale, che mira solo al raggiungimento di una conoscenza. La distinzione è così reale che possiamo essere in possesso di conoscenze scientifiche, senza essere ancora in grado di usarne e, reciprocamente, possedere già un protocollo tecnico senza poterlo mettere in atto per le insufficienti conoscenze scientifiche.
Da questa definizione (di tecnica) e da questa distinzione (della tecnica dalla scienza) deriva subito una conseguenza importante: la tecnica si colloca nello spazio intermedio fra la persona (che mette in atto il procedimento tecnico) e lo scopo (che la persona intende raggiungere precisamente mediante il procedimento tecnico). Come tale, ogni tecnologia connota solo una mera possibilità. La conferma di ciò si ha nel fatto che il criterio per giudicarla è il criterio della efficacità e della proporzione fra costi e benefici: è un criterio, cioè, di calcolo. La ragione che giudica la tecnica è per sé solamente una ragione calcolante, una ragione che misura quantitativamente (misura tentativi fatti e risultati raggiunti: criterio della efficacità; misura quanto costa e quanto ottiene).
Ed è proprio a questo punto che si pone la prima grave domanda: è questo l’unico modo di usare la propria ragione? Esiste solo un uso calcolante-misurante della ragione? Si faccia molta attenzione al fatto che parlo di “ragione”. È chiaro che ciascuno di noi prende nella sua vita decisioni, anche molto importanti, sulla base di giudizi non “calcolati”. Tuttavia, molti pensano che quando facciamo un uso della ragione diverso da quello, in realtà non della ragione facciamo uso, ma di sentimenti, emozioni.
La risposta alla domanda posta (esiste solo un uso…) è negativa. Mi rifaccio alla esperienza della conoscenza scientifica. Lo scienziato — quello vero — non è mosso da altro nella sua ricerca che dal puro, disinteressato desiderio di conoscere la verità delle cose. Lo scienziato vero non strumentalizza a nulla la sua conoscenza scientifica. Egli sa che ha un valore in sé e per sé, anche prescindendo dall’uso che di quelle conoscenze si potrà fare. Vedete che esiste un uso non calcolante della propria ragione: un uso che è messo in atto nel momento in cui l’uomo entra in un universo di valori che valgono in sé e per sé (come per esempio la conoscenza scientifica). Soffermiamoci un momento a riflettere su questo universo di valori. Essi sono quei valori che ineriscono non al “fare” dell’uomo, ma al suo “agire”: sono, cioè, quei valori che riguardano la persona umana come tale, nell’attività della sua intelligenza e della sua libertà. Quando l’uomo dimentica questo e riduce l’uso della sua ragione alla tecnologia; quando, di conseguenza, la messa in atto di un procedimento tecnico gli pone esclusivamente o principalmente il problema della efficacità di questo procedimento, allora il tecnico rischia di smarrire nel suo fare se stesso: si espone continuamente al pericolo di ferire la dignità della sua persona. Avrà fatto bene, ma agito male.
Abbiamo così individuato la prima parte della risposta alla domanda “perché la biotecnologia coinvolge anche le istanze religiose e in che senso le coinvolge”. L’istanza religiosa riguarda l’uomo in quanto soggetto di una dignità infinita che gli deriva dal suo rapporto con Dio. Essa richiama, pertanto, l’uomo-tecnico a non perdere la sua dignità di uomo. A non ridursi ed imprigionarsi al e nel suo fare tecnico, poiché egli lo trascende.
Ma questo non è tutto. Avviene oggi sempre più che la biotecnologia abbia come suo “oggetto” di intervento l’uomo. Dal soggetto biotecnologo all’oggetto della biotecnologia.
Ogni coscienza intuisce che l’uomo è “qualcuno” e non “qualcosa” e che essere qualcuno è infinitamente superiore all’essere qualcosa. La diversità essenziale fra le persone e gli oggetti è che mentre gli oggetti — il “qualcosa” — possono e, in alcuni casi, devono essere usati, le persone non possono mai, per nessuna ragione, essere usate. Esse non sono dei mezzi; sono dei fini. Questa intangibilità, questa irriducibilità della persona a mezzo, non deve essere affermata solo se e solo quando l’uso della persona è finalizzato a fini riprovevoli, ma anche se e quando è finalizzato a fini buoni.
Abbiamo così individuato la seconda parte della risposta alla domanda. L’istanza religiosa ha il dovere di dare un giudizio sulla biotecnologia, quando essa strumentalizza la persona.
Scoperte le ragioni, possiamo facilmente capire in che senso l’istanza religiosa deve sentirsi coinvolta nelle bio-tecnologie. Essa si pone nella prospettiva rigorosamente ed esclusivamente etica. Non dà un giudizio sulle biotecnologie in base ai criteri interni e propri della tecnologia come tale. Essa si pone a un livello superiore; essa giudica la tecnologia in base al criterio etico dell’infinito rispetto che si deve a ogni persona umana. Al rispetto che il tecnico deve a se stesso e deve a ogni persona che, in qualche modo, possa essere coinvolta nella bio-tecnologia.
Per concludere questo primo punto. È la coscienza della singolare preziosità di ogni uomo che fa intervenire, col suo giudizio etico, l’istanza religiosa nel campo della bio-tecnologia.
2) Il criterio fondamentale, originario, del rispetto di ogni persona umana necessita di essere esplicitate nel suo contenuto. In che cosa consiste questo rispetto?
Noi rispettiamo una realtà, quando — in primo luogo — la trattiamo come essa merita di essere trattata, quando, più precisamente, la riconosciamo per ciò che essa è: né di più, né di meno. Non si può allora avere rispetto dell’uomo, se non si sa chi è l’uomo. Se non si è veri nei confronti dell’uomo, si finisce sempre coll’essere ingiusti. Alla base del giudizio etico, proposto dalla Chiesa cattolica, sta, pertanto, la visione che la Chiesa cattolica ha dell’uomo. Ovviamente, non posso ora esporre tutta questa visione. Mi accontento solo di richiamare alcuni punti. Il primo è che il corpo dell’uomo è l’uomo stesso. Il corpo non appartiene all’avere umano, ma all’essere della persona umana. Una biotecnologia che attinge il corpo umano, attinge la persona stessa. E questo è vero di qualsiasi momento nella vicenda storica dell’uomo singolo: dal concepimento alla morte. Già lo zigote non è da considerarsi, trattarsi e chiamarsi “materiale vivente umano”: egli è già da considerare, trattare e chiamare persona umana, anche se in un corpo microscopico. Da ciò deriva un corollario importante. Ogni ricerca e sperimentazione condotta sull’uomo non ha uno statuto etico che si diversifica a seconda dell’età dell’uomo medesimo. E una legge civile che non riconoscesse questa immutabilità minerebbe alle radici lo Stato di diritto, negandone uno dei cardini portanti, l’uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge. Il secondo elemento della visione dell’uomo, che sto in sintesi richiamando, è che — in ragione della dignità dell’uomo — non ogni modo di porre le condizioni del suo concepimento è rispettoso della dignità umana del concepito. In una parola: l’uomo deve essere concepito, ma non può e non deve essere prodotto. Sono le cose ad essere prodotte. Questo secondo elemento implica una visione della sessualità umana. Il terzo elemento di questa visione, che in un certo senso è presupposto da tutti gli altri, è che esistono dei valori la cui esistenza non dipende dal riconoscimento di essi da parte dell’uomo. Valori che esistono in dipendenza da un consenso maggioritario su di essi. Già Aristotele scrisse: “Se noi riteniamo che tu sei bianco, non per questo tu sei veramente bianco; ma, piuttosto, poiché tu sei bianco, noi, che affermiamo appunto questo, siamo nella verità” (Metafisica, lib. IX, Cap.10, 1051 b).
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