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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


«Antropologia e sessualità nel magistero di Giovanni Paolo II»
Milano, 13 marzo 1985

 


Il rapporto fra antropologia e sessualità umana costituisce uno dei nodi centrali del magistero di Giovanni Paolo II. L’obiettivo che mi propongo con questa mia riflessione è di cogliere le principali articolazioni di questo rapporto. Noto immediatamente che la mia ricerca si limita al magistero, non entra nell’opera filosofica e poetica che ha preceduto l’ascesa al pontificato di Giovanni Paolo II: anche se — per ovvie ragioni — questo precedente non potrà essere del tutto ignorato. Ancora una breve premessa. Preferisco procedere per via sintetica più che analitica, sia pure richiamando alcuni testi chiave in nota, ed anche non limitarmi ad una pura esposizione, ma cercando di dare un ordine. Il testo base, pressoché esclusivo, saranno le catechesi del mercoledì.

 

1. Premesse ad una lettura

 

Per comprendere questa lunga serie di catechesi, è assolutamente necessario avere chiari alcuni principi interpretativi o chiavi di lettura, che si trovano sparsi lungo il corso di tutto il ciclo.

La catechesi su antropologia e sessualità nasce, in primo luogo, dalla luce congiunta che viene dall’esperienza essenzialmente umana che ogni uomo ha di se stesso e dalla fede. È questa particolare “congiunzione” che è necessario comprendere, per capire questa catechesi nel suo insieme. A tale scopo è necessario premettere che l’espressione “esperienza essenzialmente umana” significa due cose. In primo luogo, essa connota l’oggetto, ciò che viene sperimentato: l’essenzialmente umano di ogni persona umana, ciò che costituisce l’umano — l’humanitas di ogni uomo — come realtà irriducibile ad ogni altra realtà, la natura della persona umana. In secondo luogo, essa connota il modo in cui l’essenzialmente umano di ogni persona umana è conosciuto: un modo caratterizzato dalla immediatezza propria di ogni esperire, ma che non si limita a quella immediatezza che è propria del “sentire” dei sensi, ma che è propria della conoscenza che ciascuno ha di se stesso. Quale sia, come debba essere definita la natura della persona umana, quale sia la verità dell’uomo, sarà precisamente compito di tutta la nostra riflessione dirlo. Non penso sia necessario spiegare cosa significhi conoscenza di fede. Dunque, le catechesi nascono nel punto e dal punto in cui le due luci — quella dell’esperienza essenzialmente umana e quella della fede — si incrociano. Ed ora dobbiamo precisamente capire questo “incrocio”.

Una constatazione, in primo luogo. Sia la rivelazione cristiana sia la ragione umana, priva della luce della fede, ci fanno conoscere la verità della persona umana: si tratta di due conoscenze fondamentalmente distinte. In che rapporto esse stanno? È questa una domanda centrale in tutto il pensiero cristiano.

Nella seconda nota che accompagna la catechesi del 26 settembre 1979, che trascrivo integralmente, data la sua importanza, si ha la risposta:

«Parlando qui del rapporto fra l’“esperienza” e la “rivelazione“, anzi di una sorprendente convergenza tra loro, vogliamo soltanto constatare che l’uomo, nel suo attuale stato dell’esistere nel corpo, sperimenta molteplici limiti, sofferenze, passioni, debolezze ed infine la morte stessa, i quali, in pari tempo, riferiscono questo suo esistere nel corpo ad un altro e diverso stato o dimensione. Quando san Paolo scrive della “redenzione del corpo“, parla con il linguaggio della rivelazione; l’esperienza infatti non è in grado di cogliere questo contenuto o piuttosto questa realtà. Contemporaneamente, nell’insieme di questo contenuto, l’autore di Rm 8, 23 riprende tutto ciò che tanto a lui quanto, in certo modo, ad ogni uomo (indipendentemente dal suo rapporto con la rivelazione) è offerto attraverso l’esperienza dell’esistenza umana, che è un’esistenza nel corpo.
Abbiamo quindi il diritto di parlare del rapporto tra l’esperienza e la rivelazione, anzi abbiamo il diritto di porre il problema della loro reciproca relazione, anche se per molti tra l’una e l’altra passa una linea di demarcazione che è una linea di totale antitesi e di radicale antinomia. Questa linea, a loro parere, deve senz’altro essere tracciata tra la fede e la scienza, tra la teologia e la filosofia. Nel formulare tale punto di vista, vengono presi in considerazione piuttosto concetti astratti che non l’uomo quale soggetto vivo». (Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò. Catechesi sull’amore umano, ed. Città Nuova, 1985, pag. 42-43).

Come appare immediatamente da una semplice analisi del testo, la Rivelazione (San Paolo, Rom. 8,23) parla di un “ciò che... ad ogni uomo (indipendentemente dal suo rapporto con la rivelazione) è offerto attraverso l’esperienza dell’esistenza umana, che è una esistenza nel corpo” e parla anche di una “realtà” che “l’esperienza non è in grado di cogliere”. Si tratta, dunque, di due ordini di conoscenza “antitetici” o “radicalmente autonomi”? Si può affrontare la soluzione di questa domanda prendendo “in considerazione piuttosto concetti astratti che non l’uomo quale soggetto vivo” oppure considerando l’uomo quale soggetto vivo (cioè: nell’esperienza essenzialmente umana). Prescindiamo dalla correttezza o non della prima considerazione, ma percorriamo la seconda. Ora l’esperienza essenzialmente umana che ogni uomo ha di sé, rimanda dal suo interno a ciò che essa non è in grado di cogliere e che la Rivelazione gli svela; riferisce se stessa /l’esistere umano/ alla Rivelazione che, pertanto, svela all’uomo l’intera verità dell’uomo: non semplicemente aggiungendo conoscenze (rivelate) a conoscenze (razionali), ma conducendo, la Rivelazione, l’esperienza essenzialmente umana nell’intima, ultima, intera verità dell’humanitas di ogni uomo.

Se ci si chiede sulla base di che si pensa in questo modo il rapporto “esperienza essenzialmente umana-fede”, si può rispondere in due modi. Alla luce della fede: perché l’uomo concretamente esistente è stato creato in vista di Cristo e Cristo è il primo pensato, predestinato, voluto dal Padre. Alla luce dell’esperienza essenzialmente umana: perché l’uomo è un enigma a se stesso, superando infinitamente se stesso (Agostino-Pascal; Tommaso: desiderium naturale videndi Deum).

Se volessimo, ora, esprimere con una categoria filosofica questo incrocio o incontro delle due luci, potremmo parlare di “integrazione” fra esse. Infatti, l’unità propria di un “integro” si caratterizza nei confronti di altre unità (a) dalla presenza in essa di una molteplicità di parti (almeno due), le parti integranti, appunto; (b) dalla sub-ordinazione di una parte all’altra, secondo una obiettiva gerarchia, fondata cioè sullo statuto ontologico delle parti stesse; (c) da una subordinazione che non solo non distrugge lo statuto ontologico proprio di ciascuna parte, ma lo salvaguardia ed, in un qualche modo, lo eleva al grado superiore. Nell’uomo quale soggetto vivo si ha l’integrazione fra l’esperienza essenzialmente umana e la fede. E, dunque; (a) si hanno due luci formalmente distinte; (b) l’esperienza essenzialmente umana è sub-ordinata alla luce del la fede; (c) in modo tale che la prima, all’interno ed in forza di questa subordinazione, giunge interamente a cogliere l’humanum, la natura della persona umana e, reciprocamente, la fede penetra al l’interno dell’esperienza essenzialmente umana.

Ed ora alcune conseguenze che, spero, aiuteranno a comprendere meglio questo fondamentale punto di partenza per capire le catechesi. La prima è che alcune domande rimangono senza risposta, poiché non sono domande pertinenti. Quale, per esempio: ma, queste catechesi, sono una esposizione filosofica oppure una catechesi propriamente detta? La domanda può essere fatto da chi non ha compreso: non siamo di fronte ad un “o è... o è“, ma ad un “è... ed è“. Ove la “et” connota quel che abbiamo chiamato integrazione. La seconda, e più importante, è che il punto di partenza non è la distinzione, né tanto meno la separazione, da cui faticosamente, poi, si giunge all’unità. Al contrario. Il punto di partenza è l’unità nel cui interno si possono fare e si devono fare le distinzioni. In una parola: non si distingue per unire, ma si unisce per poi distinguere.

Il tempo concessoci non ci consente di mostrare come questo sia il metodo proprio della grande tradizione cattolica sia teologica sia catechetica.

Dobbiamo ora fare una seconda, ed ultima, premessa alla nostra riflessione, che già ci immette nel contenuto specifico del nostro discorso.

Se non vado errato, l’inserimento profondo della riflessione sulla sessualità umana dentro la riflessione sulla persona umana come tale, avviene attraverso la riflessione sulla corporeità umana. È questa riflessione che costituisce la cerniera di congiunzione fra antropologia e sessuologia in queste catechesi.

Si tratta di affermazioni molto importanti, il cui preciso contenuto sarà compito della nostra riflessione cogliere e ripensare. Per ora è sufficiente e necessario mettere in evidenza alcuni presupposti implicati in questo punto di partenza ed alcune immediate conseguenze da esso derivanti.

I presupposti. Il primo e più importante è che si considera la corporeità non come qualcosa di estrinseco alla persona, più precisamente di accidentale nella costituzione ontologica della persona umana. La persona umana è persona corporea; il corpo umano è corpo personale. Étienne Gilson aveva giustamente parlato di una personalità del corpo e di una corporeità della persona umana. E, come più teologicamente si dice in una catechesi, dopo e con l’Incarnazione del Verbo, il corpo è divenuto tema centrale di ogni antropologia cristiana.

Ancora un altro presupposto connesso con quello precedente è che l’esperienza umana essenzialmente umana, nel duplice senso sopra detto, è sempre esperienza di sé nel e col corpo. In altre parole: giunge alla conoscenza della verità su se stesso attraverso anche e nella sua corporeità. L’integrazione della sessuologia nella dottrina antropologica è, pertanto, non solo possibile, ma doverosa: solo essa consente una sessuologia ed un’etica della sessualità corretta.

Le conseguenze. Ogni momento della riflessione sulla sessualità umana è sempre da radicarsi in un correlativo momento della riflessione antropologica. Abbiamo così il seguente svolgimento della riflessione: antropologia, sessuologia, etica della sessualità. Come momenti, i due ultimi, che esplicitano ciò che nel momento propriamente antropologico è già del tutto, sia pure in modo implicito, presente.

Ancora un’altra conseguenza, più difficile da esprimersi. Mediante questa radicazione della sessuologia nell’antropologia, l’etica della sessualità, esposta nelle catechesi, non presta più il fianco alle critiche ricorrenti contro questo capitolo di etica cristiana, quale quella di rifiuto della corporeità, di confusione fra norma morale e processi biologici. L’etica della sessualità, infatti, è la difesa della verità del corpo umano, o meglio: della corporeità della persona e della personalità del corpo.

 

2. Verità dell’uomo e verità della sessualità umana

 

Come è noto, il discorso di queste catechesi sulla sessualità umana prende il suo avvio dalla risposta di Gesù ai farisei che lo interrogavano sulla indissolubilità del matrimonio. Ed è altresì noto che questa risposta si fonda sul richiamo “al principio”.

Questo richiamo ha un duplice significato. Immediatamente, esso significa lo stato o la condizione in cui si trovava l’uomo prima della caduta originale e, soprattutto, esso significa — di conseguenza — l’humanum, la natura della persona umana nella sua verità originaria e permanente, che la durezza del cuore umano non ha più voluto riconoscere. Si deve prestare molta attenzione a questo punto.

Siamo portati, quando parliamo di natura umana, a pensare unicamente ad un universale, astratto dai singoli e concreti uomini, colla conseguenza di ritenere che la natura umana, così intesa, non esiste, propriamente parlando, pur avendo quel concetto fondamento nella realtà. Il processo di astrazione, che conduce alla definizione dell’uomo come tale — all’universale-uomo — è un processo corretto, suppositis supponendis, ed è il processo proprio della ragione umana. Ma non è mediante questo processo che le catechesi giungono ad individuare l’humanum nella sua specificità. Ciò che è l’uomo, quale sia la verità dell’uomo, è scoperto mediante il “ritorno al principio”, la riflessione sulle esperienze fondamentali vissute dall’uomo “al principio”. In una parola: l’uomo vero è l’uomo uscito dalle mani creatrici di Dio, l’uomo prima del peccato originale, l’uomo di cui parlano i primi due capitoli della Genesi.

A questa impostazione antropologica si può subito obiettare che questo uomo è definitivamente scomparso col peccato originale e che pertanto si costruisce un’antropologia “astratta”. A questa obiezione si potrebbe semplicemente rispondere ciò che la fede e la teologia hanno sempre risposto: il peccato non ha integralmente e radicalmente corrotto la natura della persona umana. Ed, in realtà, questa è la soluzione di quell’obiezione. Tuttavia, essa ha bisogno di essere pensata, altrimenti si rischia di non capirne tutta la portata antropologica, precisamente nella luce della prima premessa metodologica.

Che cosa significa precisamente: “il peccato non ha corrotto integralmente e totalmente la natura della persona umana”? Significa in primo luogo che la natura della persona umana, come essa è uscita dalle mani creatrici di Dio, permane in ogni uomo, anche dopo il peccato originale e che, in secondo luogo e di conseguenza, ogni uomo è rimandato dalla sua esperienza essenzialmente umana a quella verità originaria di se stesso, senza essere in grado di realizzarla fuori della Redenzione di Cristo (cfr. Sant’Agostino, Confessioni 7, 10, 16; NBA 1, 198-201).

Esiste una verità dell’uomo: una verità che non è creata, inventata dall’uomo, ma che crea l’uomo, lo costituisce nel suo essere stesso. Una verità immanente all’uomo: l’uomo ne è costituito, l’uomo la conosce; una verità trascendente l’uomo: l’uomo vive in una regione lontana da essa e cerca di raggiungerla. È una dialettica di immanenza-trascendenza che l’atto redentivo di Cristo risolve, riconducendo l’uomo nella sua patria, nella sua verità, senza condurlo fuori di sé, poiché questa verità già abita in lui: è la libertà dell’uomo che non la riconosce, che la tradisce. 

Possiamo ora cogliere finalmente il significato profondo del ri chiamo “al principio” su cui tutta l’antropologia e la sessuologia di queste catechesi è costruita. Esiste una verità dell’uomo e nell’uomo: è la verità che noi possiamo cogliere integralmente solo nell’uomo prima della sua caduta originale. A questa verità siamo rimandati dall’interno della nostra esperienza essenzialmente umana, senza essere in grado di raggiungerla e realizzarla interamente, L’atto redentivo di Cristo riporta l’uomo alla dignità della sua prima origine e libera la libertà della persona da tutto ciò che le impedisce di lasciare la sua regione di “dissimilitudine” dal progetto di Dio sull’uomo.

La riflessione antropologica e, connessa ad essa, la riflessione sessuologica si articola in tre tempi fondamentali: l’uomo “al principio”; l’uomo nel peccato; l’uomo redento, cui corrispondono i tre momenti fondamentali della riflessione sulla sessualità: la sessualità umana “al principio”; la sessualità umana nel peccato; la sessualità umana redenta. Ma si noti bene ancora una volta, Non si deve pensare che si stia parlando, rispettivamente, di un uomo (sessualità) che esiste va, di un uomo (sessualità) che esiste; di un uomo (sessualità) che esisterà. Si parla di un uomo che è: di ciò che è l’uomo e la scansione temporale significa non solo una cronologia, ma la dialettica fra la verità dell’uomo e la sua libertà, fra l’immanenza e la trascendenza della verità. L’uomo è chiamato a realizzare la sua verità che lo precede (passato); tradisce questa verità e Cristo lo salva (presente) e lo conduce alla pienezza della vita (futuro).

A questi tre tempi “spirituali” corrispondono i tre cicli fondamentali delle catechesi, fondati su tre testi biblici: Genesi 1-2; Mt 5, 27-28; Lc 20,27-40. Dopo di che diviene possibile la presentazione dei due modi fondamentali di realizzare la sessualità umana: la Verginità ed il Matrimonio.

Ed allora, facciamoci finalmente la domanda fondamentale: chi è l’uomo e, correlativamente, quale è la verità della sessualità umana? La profondità e la difficoltà della domanda ci costringono a procedere gradualmente nella costruzione della risposta.

 

1. Se leggiamo attentamente il secondo capitolo della Genesi, vediamo che la condizione dell’uomo è caratterizzata da tre esperienze fondamentali: la solitudine, la comunione, la nudità. Il punto di partenza è la comprensione profonda di questa triplice esperienza, la sua interpretazione, al fine di coglierne il significato ultimo, permanente nella natura della persona umana.

 

(A) La solitudine originaria. Non abbiamo il tempo di percorrere tutto il cammino interpretativo. Devo limitarmi alle conclusioni, rimandando alla lettura personale dei testi.

L’uomo scopre la sua solitudine, la esperimenta, quando si confronta, si correla con gli animali, poiché scopre la sua alterità da essi e la sua superiorità su di essi. Questa essenziale diversità-superiorità consiste nella sua soggettività, dovuta alla sua spiritualità: alla sua capacità di conoscere ed alla sua libertà. “Nel concetto di solitudine originaria è inclusa sia l’autocoscienza sia l’autodeterminazione” (Cat. del 24 ottobre 1979; ed. cit. pag. 48). La solitudine originaria dell’uomo significa così, in primo luogo, questa fondamentale verità antropologica: l’uomo in quanto soggetto auto-cosciente ed auto-determinantesi è in se stesso (subsistit) e presso di sé e nessuno può prendere il suo posto, può scambiarlo, può ridurlo o ricondurlo ad altro da sé.

La sua soggettività — il suo essere “qualcuno” e non “qualcosa” — si costituisce e si svela pienamente in quanto l’uomo è costituito partner dell’Alleanza di Dio. Egli deve consapevolmente discernere il bene dal male, la vita dalla morte (cfr. Gen. 2, 10-17). “L’uomo è solo: ciò vuol dire che egli, attraverso la propria umanità, attraverso ciò che egli è, viene nello stesso tempo costituito in un’unica, esclusiva ed irripetibile relazione con Dio” (ibid.).

Nell’esperienza — scoperta dalla propria originaria solitudine, intesa nel senso suddetto — entra anche la corporeità dell’uomo oppure il fatto che la persona umana sia anche corpo è del tutto estraneo alla formazione di questa esperienza-conoscenza? Si tratta di un problema centrale, dalla cui soluzione dipende in larga parte la successiva riflessione sulla sessualità umana.

Che in un qualche modo la corporeità non possa rimanere estranea a questa esperienza, lo si può già comprendere dal fatto che essa, la corporeità, sembra renderla completamente impossibile: il corpo sembra essere ciò che accomuna l’uomo alla natura, ciò che impedisce all’uomo di essere diverso-superiore. L’uomo scopre-esperimenta la sua solitudine originaria contro il suo essere corpo? Leggendo attentamente la pagina biblica vediamo che non è così.

La percezione della propria soggettività implica una percezione del proprio essere corpo: quella percezione è anche essenzialmente percezione, scoperta, esperienza del proprio corpo come non ostacolante il proprio essere soggetto. Il corpo è quasi permeabile, nella sua materialità, quasi trasparente, in un modo tale da rendere chiaro chi è l’uomo (e deve essere). Il corpo esprime la persona ed in questo sta il suo significato.

La solitudine originaria — l’essere l’uomo soggetto (conoscente libero) — è certamente radicata nel suo essere spirito e connessa con lo spirito. Ma la struttura del corpo umano è tale che essa entra nella costituzione di questa soggettività personale ed è in grado di manifestarla attraverso la sua attività.

 

(B) La comunione originaria. La solitudine dell’uomo impedisce all’uomo di essere pienamente se stesso fino a quando essa non si supera nella comunione interpersonale. Si tratta di un dato “originario”: di un costitutivo essenziale dell’umana persona, di un significato permanente del suo essere persona.

Per cogliere la verità intima ed intera di questo significato è necessario fare attenzione soprattutto ai seguenti punti.

La “bontà” dell’essere-persona, la sua perfezione e pienezza ontologica non è raggiunta fino a quando egli rimane nella sua solitudine (“non è bene che l’uomo sia solo“): l’essere personale realizza se stesso nella comunione con altre persone. La vocazione alla comunione inter-personale è costitutiva dell’essere personale come tale. D’altra parte, la solitudine-soggettività originaria precede (non in senso cronologico) questo secondo significato permanente dell’esistenza umana. Sia perché l’essere l’uomo soggetto personale precede la sua differenziazione sessuale, sia perché — data la natura propria della comunione interpersonale, come vedremo subito — non è possibile il dono di se stesso, se non si è in possesso di questo “se stesso”.

L’uomo scopre la sua vocazione costitutiva alla comunione inter-personale, quando ha di fronte a sé la donna. Riflettiamo profondamente sul modo di questa scoperta.

Posto di fronte al nuovo essere vivente egli non si sente più solo, come si sentiva di fronte agli animali: egli può uscire dalla sua solitudine, divenendo una “sola carne” con l’altra. Il suo scoprirsi uomo-maschio di fronte all’uomo-femmina (e reciprocamente) gli fa percepire — precisamente attraverso e nella differenziazione somatica — che egli è costituito per l’altra persona: che il suo è un essere se stesso chiamato ad essere-con-per l’altro.

Tocchiamo qui il midollo stesso della verità del corpo. Il corpo esprime la persona in quanto chiamata alla comunione; e, quindi, è di questa comunione il simbolo reale. Simbolo: esso la significa; reale: esso è in grado di realizzarla, poiché è, per sua struttura stessa, linguaggio della persona. Della persona nella sua costitutiva, ontologica soggettività che si possiede e si determina al e nel dono di sé. In questo senso, possiamo comprendere che si debba parlare di una corporalità della persona e di una personalità del corpo. Ed in questo sta il significato essenziale del corpo: nel suo essere costitutivo-manifestativo della persona.

 

(C) La nudità originaria. Questo terzo significato ed esperienza originaria è strettamente connessa con le due precedenti. La nudità espone l’uomo, la persona, all’altro: la svela totalmente. La riflessione precedente ci ha mostrato che il corpo, attraverso la propria visibilità, manifesta l’uomo e, manifestandolo, fa da intermediario, cioè fa sì che uomo e donna, fin dall’inizio, comunichino fra loro secondo quella communio personarum voluta dal Creatore per loro.

L’uomo può vedere la donna e la donna può interamente mostrarsi all’uomo (e reciprocamente), poiché essi si vedono come persone che si donano. Qualora, l’uomo non volesse più, non fosse più in grado di vedere l’altra in questo modo, l’altra deve nascondersi a quello sguardo, per non essere violata e violentata nella sua personalità.

E siamo così giunti al nucleo stesso delle verità antropologiche nella loro inscindibile connessione colle verità della sessualità umana. Ma, a questo punto, dobbiamo introdurre due elementi nuovi: quello della creazione e quello della giustizia-santità originale.

 

(D) San Tommaso dice che l’uomo è — nell’universo visibile — l’unico essere voluto per se stesso (cfr. Contra Gentiles). L’affermazione tomista indica, in primo luogo ed immediatamente, che, considerato lo statuto ontologico del soggetto personale, si deve dire che esso non può essere ordinato ad altro da sé, come si ordina un mezzo per il fine: nell’universo dell’essere, infatti, la persona è il più perfetto che si possa pensare. Non si può essere di più che persona. Ma la stessa affermazione tomista ci aiuta a capire più profondamente il significato della nudità originaria. Dio crea con un atto di conoscenza e di volontà: Egli vede e vuole la persona per se stessa. L’uomo e la donna erano nudi, poiché partecipavano alla stessa visione e volontà divina sull’uomo: essi si vedevano e si volevano come Dio li vedeva e li voleva, cioè persone, chiamate per loro costituzione stessa, alla comunione personale. La loro giustizia — il loro accordo perfetto con il Creatore — li rendeva capaci di questo “reciproco vedersi e volersi” come persone in comunione.

Ma c’è ancora qualcosa di più profondo in tutto questo, l’atto creativo è, da parte di Dio creatore, un atto di pura donazione e l’essere creato — ciò che l’essere creato è ed il suo atto di essere — è un dono. L’Amore creativo di Dio raggiunge il suo vertice — in quanto creativo — quando crea una persona, poiché essa può prendere coscienza del suo essere dono: essa è in se stessa (solitudine originaria) costituita dono (comunione originaria), consapevolmente (nudità originaria).

Come è facile vedere, la triplice esperienza originaria dell’uomo si radica nell’atto creativo in quanto esso è conosciuto e riconosciuto: si radica nella giustizia originaria.

 

Potremmo ora tentare di ridurre in sintesi questo primo momento della nostra risposta con due riflessioni riassuntive.

La prima. La persona umana, essere creato, è in se stessa dono, nella totalità della sua costituzione ontologica, fisico-spirituale. Il corpo umano, interiormente orientato dal dono che è la persona, è in possesso di un valore e di una bellezza che supera la dimensione semplicemente fisica della sessualità. Questo valore consiste nel fatto che esso è interiormente capace di esprimere l’amore in cui l’uomo diventa dono. Capacità cui corrisponde la profonda disponibilità all’affermazione della persona, cioè la capacità di vivere il fatto che l’altro — l’uomo per la donna e la donna per l’uomo — è, per mezzo del corpo, qualcuno voluto dal Creatore per se stesso. Questa intima verità del corpo è chiamata, nelle sue catechesi,“significato sponsale” del corpo umano.

La seconda. La libertà della persona umana consiste nella capacità della persona a vivere questa verità. La persona umana è libera, cioè, perché è capace di donare se stessa.

 

2. La persona umana è, nella sua verità originaria e permanente, questa realtà che si svela nella triplice esperienza originale. La sessualità umana è da comprendersi dentro questa definizione dell’uomo.

Ma la persona umana ha rifiutato, colla sua libertà, di rimanere nella sua originaria verità, coinvolgendo, in questa caduta, anche la propria sessualità. In che cosa consiste questo rifiuto? o, chi è l’uomo nel peccato e la sessualità dell’uomo peccatore?

Sinteticamente, potremmo rispondere dicendo che la persona colloca se stessa e la propria sessualità fuori della loro verità, in una “regione lontana” dalla loro identità. Per comprendere la portata di questa risposta, è necessario non dimenticare mai che il peccato è un atto di libertà mediante il quale la persona umana realizza se stessa, contraddicendo la sua verità, generando così un’esistenza falsa.

In che cosa consiste questa menzogna? Rispondiamo percorrendo il cammino inverso di quello percorso precedentemente.

Poiché il peccato nella sua radice, nel suo nucleo essenziale, è “aversio a Deo”, l’uomo perde la capacità di vivere il fatto che l’altro — l’uomo per la donna, la donna per l’uomo — è, per mezzo del corpo, qualcuno voluto dal Creatore “per se stesso”. L’altro — l’uomo per la donna e la donna per l’uomo — diviene qualcosa voluta da noi per noi stessi. Si ha una caduta dell’altro dal grado ontologico dell’essere personale al grado dell’essere impersonale, dovuta alla decisione di non vedere più l’altro come persona. Si ha una riduzione intenzionale della persona da qualcuno a qualcosa: lo sguardo sul l’altro è intimamente mutato, poiché esso non vede e non vuole più l’altro come Dio stesso lo vede e lo vuole, “per se stesso”, La corporeità non è più in grado di esprimere la persona come tale: essa esprime un possibile oggetto di cui godere e da utilizzare. Se “significato sponsale” del corpo umano connota l’interiore orientamento del corpo, nella sua sessualità, a lasciare trasparire il soggetto personale, allora la sessualità del peccatore è una sessualità che ha negato, colla sua libertà, il significato sponsale del corpo.

La riduzione cui il peccatore costringe se stesso e l’altro rende impossibile la communio personarum; rovina l’unità originaria dell’uomo. Ed, infatti, esiste una sola appartenenza possibile fra le persone: quella del dono. Due persone si appartengono degnamente, solo se si appartengono perché si donano. Ma, la reciproca donazione implica l’affermazione dell’altro “per se stesso”: diversamente non si ha più un’appartenenza, ma un possesso. Alla comunione subentra il dominio, l’uso. Se “significato sponsale” del corpo umano connota l’interiore orientamento e capacità del corpo ad affermare la persona, che esso — il corpo — lascia trasparire, allora la sessualità del peccatore è una sessualità che ha negato, colla sua libertà, il significato sponsale del corpo, poiché esso diventa ciò in cui e per cui la persona gode, usa, possiede l’altro.

Il rifiuto di una communio personarum è il segno e la conseguenza di una menzogna ancora più profonda: una menzogna riguardante la soggettività stessa della persona, la sua solitudine originaria.

Essa è vista e vissuta come affermazione di sé su e contro l’altro, anche l’Altro che è Dio. La solitudine originaria, così vissuta e così voluta, diviene veramente insuperabile. Anzi: la radice e la causa della duplice riduzione di cui ho parlato prima è precisamente questa. È questa corruzione della soggettività che da auto-possesso per il dono, diviene auto-possesso per il dominio.

La sessualità umana cessa di essere il simbolo reale della persona; diviene precisamente mezzo di cui servirsi per affermare se stesso a spese dell’altro.

Se volessimo esprimere, con una formula sintetica, la verità dell’uomo peccatore e della sua sessualità, dovremmo dire: è una persona, è una sessualità concupiscente. E la concupiscenza è la negazione del significato sponsale del corpo, perché è, prima di tutto, l’incapacità del dono.

 

3. La nostra risposta alla domanda sulla verità dell’uomo e la sua sessualità non è terminata. Chi è l’uomo? che cosa è la sessualità umana? È una persona redenta; è una sessualità redenta.

Quale è la verità della redenzione in quanto redenzione del significato sponsale del corpo? in quanto “redenzione del corpo“?

Possiamo cominciare a costruire la risposta a questa domanda richiamando un punto assai importante detto poc’anzi. Il peccato è, nel suo nucleo essenziale, un atto della libertà, è una decisione della volontà di non riconoscere, di non accettare la verità della persona umana, dunque anche la verità della mascolinità-femminilità, la verità del suo corpo. Ma questa verità non è distrutta dalla libertà dell’uomo, semplicemente perché non è stata essa, la libertà, a crearla. Essa è patrimonio ricevuto dal solo atto creativo di Dio, fin “dal principio”. Ed essa rimane nell’uomo peccatore come forza originaria. “Se vuoi conoscere ciò che sei”, scrive Evagrio Pontico, “non guardare quello che sei stato, ma l’idea che Dio aveva nel crearti”. Cominciamo così a comprendere che l’atto redentivo, l’atto di Cristo che redime la persona-corpo, è la reintegrazione dell’uomo nella originaria verità della sua mascolinità-femminilità. Ma come accade questa reintegrazione considerata ex parte hominis?

Cristo dona il suo comandamento (Mt, 5, 27-28) che ha, se così possiamo dire, una duplice funzione. L’una è di svelare all’uomo la sua concupiscenza, la concupiscenza del cuore e non solo quella di un atto esterno, nel momento stesso in cui la proibisce radicalmente. L’altra è che il comandamento svela all’uomo la sua verità profonda o, meglio, l’esigenza di quella verità che lo costituisce. Dal comandamento, l’uomo si sente chiamato a riscoprire-realizzare il significato sponsale del corpo ed a esprimerlo nella libertà del dono. Esso non risuona solo dall’esterno, ma all’interno; non è solo accusa, ma appello. Che cosa comporta, in che cosa consiste la realizzazione di questo appello e, dunque, la conversione, il ritorno all’affermazione del significato sponsale del corpo che è completa quando la persona ridiventa capace della libertà del dono?

In primo luogo, questa conversione consiste nel dominio della concupiscenza che esprime il dominio di sé, e che rende possibile l’integrazione fra la triplice dimensione della sessualità umana: quella fisica, quella psicologica, quella spirituale. Quando questa integrazione è raggiunta, la persona umana vive nella castità o “purezza del cuore” che le consente di rispondere in maniera adeguata al valore sponsale del corpo umano, nella sua mascolinità-femminilità.

Ma, come ben vide la grande tradizione etica cristiana (Sant’Agostino-San Tommaso) alla scuola di san Paolo, l’acquisizione della virtù della castità non compie interamente la conversione, il ritorno al significato sponsale del corpo. Se l’auto-dominio è struttura stessa dello spirito creato come tale, questa struttura non diviene atto della libertà creata senza il dono della carità diffuso nei nostri cuori dallo Spirito che vi abita.

La riscoperta-realizzazione del significato sponsale del corpo accade mediante questa santificazione del corpo, compiuta dallo spirito che inabita nello spirito del giustificato. Egli, infatti, muove la libertà creata a dare quel dono di sé che crea la comunione delle persone: Egli è, infatti, il Dono increato.

La realizzazione perfetta di questa riscoperta-realizzazione si avrà solo nella visione di Dio. Essa, infatti, consentirà la perfetta inter-soggettività di tutti, realizzando così l’intera verità del significato sponsale del corpo.

Ci eravamo chiesti; in che cosa consiste la conversione piena al significato sponsale del corpo, la sua ri-affermazione? Abbiamo risposto in quattro momenti, strettamente connessi.

a) Consiste nella virtù della castità, che implica la lotta contro la concupiscenza e l’autodominio;

b) consiste nella virtù della carità che rende possibile il dono dono di sé, le cui condizioni sono poste dal fatto che corpo e psiche sono riabilitati dalla castità a lasciar trasparire la persona;

c) consiste nel dono dello Spirito che muove la libertà al dono di sé;

d) consiste nella risurrezione del corpo che diviene incorruttibile e pura trasparenza della persona, in Dio.

La sessualità redenta allora consiste: a) in una sessualità casta; b) in una sessualità della persona che dona se stessa; c) in una sessualità santificata dallo Spirito; d) in una sessualità che non ha più bisogno dell’unione coniugale per esprimere il suo significato sponsale, poiché essa è in se stessa e per se stessa pura trasparenza intersoggettiva.

I segni dimostrativi della realtà della redenzione del corpo sono la verginità cristiana e la santità propria del matrimonio cristiano. Ma, a questo punto, la risposta alla nostra domanda generale sui rapporti fra antropologia e sessualità può dirsi conclusa.

 

3. Alcune conclusioni

 

Fra le molte conclusioni che potremmo dedurre da questa presentazione mi limito ad indicarne solamente due.

La prima. La nostra catechesi sulla sessualità deve radicarsi profondamente nell’antropologia: un’antropologia che deve mostrare continuamente la reciproca integrazione fra l’esperienza che ogni uomo ha di sé e la verità cristiana. Ma per questo è necessario vedere l’uomo non solo “scientificamente”: coll’occhio della scienza (psicologia, sociologia).

La seconda. Essere convinti che la verità l’uomo la porta scritta nel cuore. La nostra deve essere una pedagogia del maestro interiore, non della produzione del consenso in chi ci ascolta, “Cor ad cor loquitur” diceva Newman.