Seminario di Ars /1
La coscienza morale nella riflessione teologica contemporanea
Ars, settembre 1992
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Vorrei, in primo luogo, dichiarare quale è l’oggetto preciso di questa mia conversazione, la quale costituisce la porta d’ingresso nella nostra riflessione comune.
Non mi propongo una riflessione accurata, analitica, di autori e delle loro tesi e la rispettiva critica positiva o negativa. Sarebbe un’erudizione più che una meditazione sul nostro ministero pastorale, considerato dal punto di vista del servizio che deve rendere alla coscienza morale. Certamente, questa conoscenza analitica è presupposta e in ogni caso può anche costituire, se volete, materia di discussione nello scambio. Ciò che mi propongo sono essenzialmente due obiettivi. Il primo: mostrare come è “trattata” la coscienza morale nella riflessione teologica contemporanea. Il secondo: le conseguenze pratiche di questo “trattamento”.
Tuttavia, prima di tentare di elaborare la mia riflessione attorno ai due punti suddetti, vorrei rispondere a una domanda del tutto preliminare: che senso ha, se ne ha uno, riflettere sul nostro ministero pastorale in quanto esso deve rendere un servizio alla coscienza morale? È la domanda che pone il problema delle ragioni profonde, ultime, del nostro riflettere, del nostro vivere insieme in questi giorni.
1. Coscienza morale e ministero apostolico
Vorrei partire dalla descrizione di un fatto che è accaduto e sta ancora accadendo nella nostra comunità cristiana e poi da un’affermazione di san Paolo: fatto e Parola saranno la guida nella nostra riflessione durante questa prima parte della mia conferenza.
1, 1. Il fatto sul quale vorrei richiamare la vostra attenzione è il modo con cui nelle comunità cristiane si è risolto concretamente il problema di Humanae Vitae.
Semplificando un poco la situazione, si può dire che le soluzioni concrete, che hanno avuto maggiore accoglienza nelle nostre comunità, sono state quattro.
A) La prima afferma che la contraccezione è senz’altro un male e che, pertanto, non si può rifiutare sic et simpliciter l’insegnamento di Humanae Vitae. L’errore, tuttavia, è stato di pensare che la norma morale, che condanna la contraccezione, abbia un valore universale: valga semper et pro semper. In realtà, si tratta di una norma che ammette delle eccezioni: non sempre, non in ogni caso la contraccezione è ingiusta.
La coscienza dei coniugi ha precisamente il compito di giudicare-decidere quando, nelle situazioni concrete, la contraccezione è ingiusta o giusta. Ciò che si può, e si deve fare, è di offrire alla coscienza dei fedeli dei “punti di riferimento” in base ai quali essa può elaborare un giudizio corretto.
Tralasciamo la teoria etica generale che ha giustificato questo approccio, poiché essa non ci interessa per ora direttamente. Vorrei solo richiamare l’attenzione che si ha questo approccio anche nel problema dei divorziati risposati, a riguardo della legge dell’indissolubilità.
B) La seconda soluzione parte dalla convinzione che se nella Chiesa fosse tollerata chiaramente una diversità di opinioni teologiche, l’intero problema potrebbe essere facilmente risolto. Esso è diventato di così difficile soluzione, perché il Magistero di Paolo VI e di Giovanni Paolo II non hanno approvato questa diversità di opinioni: non hanno mai giudicato che la malizia di ogni atto contraccettivo appartenesse alle questioni liberamente discutibili nella Chiesa. Per quale ragione una tolleranza delle diverse opinioni risolverebbe il problema? Perché, precisamente, lascerebbe libera la coscienza nel suo giudizio.
La pluralità delle opinioni, legittimata nella chiesa, renderebbe al contempo ciascuna di esse discutibili, cioè non certa e quindi, alla fine, libererebbe la coscienza dei fedeli da una norma. Si noti bene che il Magistero potrebbe essere anche certo della sua convinzione. Ma esso dovrebbe astenersi dall’imporre questa certezza, impedendo il legittimo pluralismo teologico su questo punto. In questo modo, quanto meno i fedeli resterebbero in buona fede: non commetterebbero peccato, anche se oggettivamente compiono un atto ingiusto.
Ancora una volta: la coscienza giudica e la preoccupazione pastorale di primaria importanza non è che il giudizio sia vero, ma che sia sincero.
C) La terza soluzione parte dalla constatazione del fatto che esiste oggi una grande distanza fra ciò che il Magistero della Chiesa insegna e la pratica dei fedeli.
Ora la pura e semplice insistenza sulla dottrina non serve a niente per colmare questa distanza. È necessario ricuperare e diffondere, soprattutto fra i pastori, una attitudine di compassione e di accomodamento pastorale. Essa (attitudine) consiste in una pastorale che incoraggia il fedele ad accettare l’insegnamento della Chiesa come un ideale e ad avanzare gradualmente verso questo ideale. Ma agli sposi non deve essere chiesto di confessare ogni atto di contraccezione e di avere il serio proposito di emendarsi: un atto contraccettivo potrebbe non essere peccato mortale, se non distoglie dalla tensione verso l’ideale.
È in questa situazione che si colloca la coscienza: fra la tensione all’ideale e la condotta reale. Nel senso che, alla fine, essa giudica se questa (la condotta reale) contraddice quella (la tensione verso l’ideale).
D) La quarta soluzione afferma che la diffusione sempre più grande dei metodi naturali di controllo della fertilità e la vera soluzione del problema. Si sottintende: quei metodi che oggi offrono sicure garanzie, scientificamente fondate. È chiaro, infatti, che quando le coppie dovessero astenersi solo pochi giorni al mese, per evitare la gravidanza, difficilmente qualcuno sarebbe interessato a ricorrere ad altri metodi.
La scienza ha già risolto molti altri problemi dell’umanità: essa sarà in grado di risolvere anche questo.
Queste mi sembrano le quattro soluzioni principali. Vorrei ora aiutarvi a vedere come, in primo luogo, tutte e quattro hanno una radice comune che è il legalismo etico e come, in secondo luogo, la coscienza morale viene trattata nel contesto del legalismo etico.
In primo luogo, è necessario che definiamo rigorosamente che cosa è il legalismo etico e non sarà poi difficile vedere come quelle quattro soluzioni nascano da esso.
Fondamentalmente, il legalismo etico consiste nell’errore di ritenere che la legge divina sia come la legge umana. O per essere più precisi. Quando noi parliamo di leggi, consapevolmente o non, pensiamo subito alle leggi umane: e non può non essere che così. Tutte le nostre conoscenze partono dalle nostre esperienze. Nel momento, quindi, in cui parliamo di “legge divina”, ne parliamo analogicamente: e anche questo è inevitabile. Ogni nostro discorso su Dio è analogico. Ma è precisamente in questo punto che l’errore del legalismo può prendere possesso del nostro spirito. In due modi. O perdendo la coscienza dell’analogia e quindi ritenendo che si tratti di univocità oppure ritenendo che la legge umana sia l’analogatum princeps, alla luce del quale deve essere pensata la legge divina. Dunque: il legalismo etico consiste nel ritenere che la legge divina sia come la legge umana. Ma che cosa significa?
In primo luogo e soprattutto che la legge (morale) divina non ha altro fondamento ultimo che la libera volontà divina. In una visione legalistica, ciò significa che non esiste un legame necessario fra ciò che è comandato o proibito e il comando o la proibizione come tale, poiché la legge morale non esprime ultimamente che una decisione della volontà divina. Il rapporto esistente fra oggetto, atto, persona non è in se stesso principio sufficiente di regolazione della prassi umana. Il fatto che un bene convenga in sé e per sé alla persona, che un male non convenga alla persona, non è ancora una ragione sufficiente per volerlo o non volerlo effettivamente. La vera ragione è da ricercarsi nel fatto che Dio ha voluto effettivamente quest’ordine: “lex non est recta nisi quia statuta” (Duns Scoto).
Il legalismo etico è cosi condotto, coerentemente, a pensare il rapporto libertà e legge morale in termini antitetici, nel senso che libertà e legge hanno un’estensione inversamente proporzionale: si ha libertà dove non si ha legge e dove c’è una legge non si è più liberi. (Di passaggio, notiamo che il legalismo etico risulta incapace di capire veramente la libertà cristiana come libertà dalla legge: ma di questo parleremo in seguito). Se, quindi, la legge non è certa, e finché non è certa, si deve pensare di essere liberi: ciò che non è certamente proibito, è permesso.
Separando il bene dalla legge, o meglio fondando la bontà (dell’atto) sulla legge divina, il legalismo etico è coerentemente condotto a pensare la dimensione storica della vita cristiana in un modo che questa (dimensione) viene seriamente compromessa. E ciò in due modi connessi fra loro. Primo: si nega ogni rapporto necessario fra la bontà della persona (che agisce) e la giustizia dell’atto compiuto. È la ben nota teoria dell’opzione fondamentale. L’esistenza etica della persona si realizza in ciò che viene chiamata “libertà trascendentale” o “dimensione trascendentale della libertà”. L’agire concreto, intramondano della persona non ha necessariamente una rilevanza decisiva, dal punto di vista etico. Di conseguenza, ed è il secondo modo di compromettere la storicità dell’uomo, è possibile compiere atti concreti contro, per esempio, la castità senza cessare di essere casti, se la persona resta orientata all’ideale di castità. È la teoria della legge morale come legge ideale, molto connessa alla teoria della opzione fondamentale.
Mi fermo nella esposizione del legalismo etico. Questi semplici richiami sono sufficienti per vedere che quelle quattro soluzioni sono dirette emanazioni di quella visione.
A) Se la legge morale decide ciò che è il bene o il male di un atto, non è impensabile che esistono condizioni del tutto singolari nelle quali quella legge non vale. Per capire meglio questo punto assai importante, usciamo per un momento dalla visione etica legalista e pensiamo: l’atto del contraconcepire è in sé e per sé ingiusto. È chiaro che questa proposizione è vera, e allora non ammette eccezioni, o ammette eccezioni e allora è falsa. Non è così invece, se pensiamo: l’atto del contraconcepire non è in sé e per sé ingiusto, ma perché una legge lo proibisce. È chiaro che è pensabile un atto contraccettivo giusto, perché è pensabile una diversa estensione della legge.
Che questa sia non solo pensabile, ma anche probabile può essere dimostrato da vari punti di vista: la legge è sempre una “generalizzazione” e non può contemplare tutti i casi, tutte le circostanze della vita; la situazione in cui vivo è talmente straordinaria che certamente il legislatore non intendeva prenderla in esame. E siamo così alla prima soluzione al problema Humanae Vitae: la legge morale insegnata da H.V. è generalmente valida, tuttavia essa ammette delle eccezioni dovute a circostanze particolarmente gravi. È l’epikeia che va attuata.
B) Ho già parlato del rapporto legge morale-libertà nella visione legalista. Ho già detto che, in questo contesto, la certezza (lo stato soggettivo) dell’esistenza della legge è la cosa più importante. La legge dubbia non obbliga e, quindi, l’insegnamento morale della Chiesa non è obbligante all’infuori del caso in cui è fuori di ogni dubbio.
È lapalissiano che le norme contestate sono dubbie: molti fedeli dicono che essi possono non osservarle con tranquillità di coscienza e molti teologi le rigettano. Ora ciò che è messo in dubbio è discusso, ciò che è discusso finisce sempre col diventare incerto e così quelle norme non devono più essere ritenute obbliganti.
Certamente, l’autorità magisteriale continuerà ad affermarle, ad esigere la loro osservanza. Ma è chiaro a tutti che si tratta di un insegnamento che non ha più attinenza con la vita.
E siamo così alla seconda soluzione: lo stato di dubbio in cui versa la Chiesa libera i fedeli dall’obbligo e, pertanto, devono “essere lasciati in pace”.
C) La non percezione della differenza fra la legge morale divina e la legge umana, essenza della visione legalista, conduce a un’altra conseguenza, sulla quale è necessario riflettere molto attentamente.
Il legalismo porta, quasi inevitabilmente, o al rigorismo o al lassismo. L’essenza del rigorismo consiste nella presunzione a favore della legge, sempre e comunque. L’essenza del lassismo consiste, al contrario, nel ritenere che basti un qualsiasi dubbio o difficoltà per ritenerci liberi dalla legge. Queste due attitudini possono nascere e crescere solo nel contesto di una visione legalista. Da una parte, non essendoci una ragione intrinseca all’intimazione della legge, il problema primo che psicologicamente e spiritualmente viene a occupare la persona è la difficoltà o facilità di compiere ciò che la legge impone. La domanda fondamentale non è: perché mi viene chiesto questo? ma è: è difficile o facile compiere ciò che è chiesto? Posto in questi termini, il problema diventa di sapere se e come è possibile osservare la legge in questione. Dall’altra parte, non si può semplicemente negare l’obbligatorietà di una legge a causa della difficoltà della sua osservanza: in questo senso si può dimostrare la falsità del lassismo, pur rimanendo dentro al sistema legalista. Tuttavia, la difficoltà diventa criterio ermeneutico della legge stessa e della sua forza obbligante: esistono legge così difficili da osservare, così esigenti che non possono essere osservate in un senso puntuale. Esse sono “leggi-ideali (ziel-gebots)”.
Queste leggi indicano obbligatoriamente verso quale condotta tendere, ma non esigono che tu in ogni caso compia un certo atto. Esigono che tu tenda verso questo ideale: tensione che non esclude che si compiano atti che sono in se stessi considerati contrari alla legge come tale.
E siamo così alla terza soluzione: la legge di H.V. esige solo di tendere alla sua realizzazione, è una “legge-ideale”. Alla coscienza è chiesto di decidere se e quanto un atto particolare favorisce o frena questo cammino.
Una variante di questa posizione è la teoria dei conflitti di doveri o valori, sulla quale non vorrei fermarmi, per non dilungarmi troppo. Rimando, eventualmente, alla discussione.
D) La quarta soluzione al problema H.V. può essere espressione del legalismo etico. Nel senso che essa, al pari delle altre tre soluzioni precedenti non coglie che ci troviamo di fronte a un problema di verità. Ho detto “può”. Questa soluzione, in realtà, oggi spesso è il segno di una crisi spirituale più profonda: la riduzione del problema etico al problema tecnico. È la convinzione che si tratti non di un problema dell’agire umano, ma del suo fare tecnico.
Mi ero proposto di mostrare come quelle quattro soluzioni date al problema di H.V. (o almeno le prime tre) nascono da una visione legalista: sono prodotti del legalismo etico. Mi resta ora di mostrare quale sorte subisce la coscienza morale dentro il legalismo morale. Sempre sulla base di questo problema particolare, per non staccarci troppo dalla vita quotidiana della Chiesa.
È singolare la sorte che tocca alla coscienza di ogni sistema etico legalista: da una parte, essa si vede caricata di un peso superiore alle proprie forze, per così dire; dall’altra parte, paradossalmente essa non viene riconosciuta nella sua dignità propria. Vediamo brevemente questi due aspetti della sorte toccata alla coscienza.
A) Seguendo con attenzione le riflessioni precedenti, si è potuto constatare come il legalismo etico conduce, quasi inevitabilmente, a una situazione di vera schizofrenia interiore poiché il soggetto che agisce, la persona, si trova confrontata con due regole o norme di agire: quella remota che è la legge morale e quella prossima che è il giudizio della coscienza. La legge morale, infatti, è regola dell’agire solo “prima facie”, solo generalmente parlando, ma l’obbligazione è posta in essere, in ultima analisi, dal giudizio della coscienza. Esiste, o meglio in linea di principio non si esclude che possa esistere, un contrasto fra le due norme regolatrici.
Si pone così una sorta di “sospetto” nel cuore della persona. Non è a caso che proprio in questo contesto siano sorte “figure” di coscienza morale del tutto sconosciute alla grande Tradizione etica cristiana, come la coscienza scrupolosa, figlia legittima di ogni legalismo etico.
Questa condizione della coscienza morale resta sostanzialmente intatta, anche quando si ricorre ad alcuni palliativi. Come, per esempio, mostrando che la legge morale ha una certa corrispondenza colle esigenze della natura umana; affermando che il giudizio della coscienza implica anche la dimensione affettiva della persona.
B) Paradossalmente, tuttavia, a una coscienza così enfatizzata non può essere riconosciuto il suo ruolo proprio. Mi limito ad una considerazione solamente, poiché su questo punto, di importanza fondamentale, ritorneremo a lungo nella mia seconda conferenza.
La coscienza è vista come l’istanza che applica la legge universale al caso particolare o, il che è equivalente, che sussume il caso particolare dentro la legge universale: ma è proprio questo il ruolo della coscienza? quella di una specie di giudice che applica la legge al caso particolare? Si può ancora dire che il soggetto, la persona, è autore del suo giudizio pratico? Penso di no. In questo senso, dico che nonostante l’enfatizzazione della coscienza, ad essa non si riconosce poi quello che è il suo ruolo proprio. Ripeto: ritornerò su questo punto, che ha un impatto pastorale formidabile.
1, 2. Abbiamo descritto un fatto: il modo con cui la comunità cristiana ha cercato di risolvere concretamente il problema posto da H.V. Dentro questo fatto, abbiamo visto, in secondo luogo, il permanere nella comunità cristiana di una visione legalista. Dentro questa visione, abbiamo visto quale sorte tocca alla coscienza morale. Abbiamo dunque descritto un fatto. Ora per rispondere alla nostra domanda sul nostro ministero pastorale in quanto esso deve rendere un servizio alla coscienza morale, lasciamo per un momento la situazione per udire attentamente una parola di san Paolo.
Scrive dunque san Paolo nella 2 Cor. 4, 2: «Rifiutando le dissimulazioni vergognose, senza comportarci con astuzia né falsificando la parola di Dio, ma annunziando apertamente la verità, ci presentiamo davanti ad ogni coscienza (suneidesin), al cospetto di Dio».
Il testo è molto ricco. L’interlocutore del ministro nella Nuova Alleanza è la coscienza dell’uomo: il ministro si pone di fronte ad essa. Ma porre se stesso davanti alla coscienza significa porre se stesso di fronte a Dio. Poiché questo è il soggetto a cui si rivolge l’apostolo e il “luogo” in cui il dialogo apostolo-coscienza avviene, cioè il cospetto di Dio, non è possibile dissimulare per vergogna la verità o falsificare la parola di Dio.
Si afferma, pertanto, una profonda connessione fra esercizio del ministero come annuncio della verità, coscienza morale dell’uomo, presenza di Dio: alla presenza di Dio, l’apostolo parla alla coscienza morale dell’uomo.
Il testo dell’apostolo si radica in una mirabile tematica biblica, già presente nei Profeti. “Parlate al cuore di Gerusalemme”, dice Isaia (40, 2) e chi non vuole ascoltare la voce di Dio, deve allontanarsi dal cuore. Commenta san Bernardo: «Babylon, quoniam in terra est nec potest sustinere universos sermones euis, elongatur a corde et in carne magis ambulat, tamquam mortua a corde… vult enim laetari cum malefecerit et exultare in rebus pessimis, audiensque vocem Domini huiusmodi gaudia nullatenus approbantem… fugit» (De diversis, sermo V, 2). È nel cuore (cioè nella coscienza) che Dio parla all’uomo e, quindi, l’apostolo, che è servo della Parola, non può non rivolgersi al cuore, alla coscienza. Quando, da una parte l’Apostolo non intende più parlare “al cuore” e l’uomo, dall’altra, non vuole rimanere nel cuore, allora la Verità è dissimulata vergognosamente e la Parola è falsificata. Apostolo e uomo si ingannano reciprocamente, poiché sono usciti dal cospetto di Dio, dal momento che il dialogo non accade nella coscienza dell’uomo.
Possiamo ora concludere il primo punto della nostra riflessione.
La domanda era: che senso ha riflettere sul ministero pastorale in quanto esso deve rendere un servizio alla coscienza morale? Per trovare la risposta abbiamo percorso due vie: una di carattere descrittivo, l’altra di ascolto della Parola di Dio. Dal confronto di queste due vie, troviamo precisamente la risposta.
La legge di Dio è estranea alla coscienza morale: l’annuncio si rivolge certamente alla coscienza, ma è l’intimazione di un obbligo nei confronti del quale la coscienza deve prendere posizione. In sostanza, è detto alla coscienza: questo è ciò che è comandato/proibito (dalla legge di Dio), ora vedi se il tuo caso è contemplato, è sussumibile o non da questa legge.
Ministro della Nuova Alleanza e coscienza si trovano confrontati, in questo dialogo, “al cospetto di Dio” poiché è della legge di Dio che si parla. Ma, proprio per questo, è il Dio della legge che è presente.
È questo il servizio che dobbiamo rendere alla coscienza morale? In fondo, le tre soluzioni che abbiamo analizzato costituiscono tre tentativi di uscire da questa impostazione. Ma non potevano, perché accettano i presupposti fondamentali di quel sistema. Si tratta, in fondo, di una cosmesi, più che di una riflessione teoretica radicale.
Non è dunque questo il servizio che si deve rendere alla coscienza morale. Quale, dunque? Tutto il nostro Seminario è impegnato a rispondere.
Proseguendo la mia riflessione, che ha il compito solamente di porre lo status quaestionis generale, si deve dire che in realtà la riflessione teologica più attenta ha cercato di uscire da questa situazione. Come? anche attraverso una riflessione sulla coscienza.
E allora dobbiamo ora vedere come precisamente è trattata la coscienza morale nella riflessione teologica contemporanea.
2. La coscienza nella riflessione teologica contemporanea
Premetto che non intendo fare una ricerca analitica su questo punto. Non è necessario per il nostro compito e sarebbe molto lungo. È sufficiente cogliere le linee di sviluppo di una riflessione che, iniziata soprattutto attorno ad H.V. (1968), sembra ormai aver esaurito e terminato il suo percorso teoretico.
Tutta la dottrina della coscienza dipende dal modo col quale sciogliamo un “nodo teoretico” che può essere descritto nel modo seguente: la persona umana è eticamente obbligata quando e se sa di essere obbligata. In questa formulazione abita quel nodo teoretico di cui ho parlato. Vediamo.
Prima facie, cioè immediatamente, la formulazione indica due fatti: l’essere obbligati, il sapere di essere obbligati. Tutta la questione è di sapere che rapporto esiste fra questi due fatti: la soluzione che si da’ a questa questione determina la propria concezione di coscienza.
Per cogliere tutta la gravità della questione si deve notare che, trattandosi del sapere della coscienza, non si tratta di un sapere qualsiasi, per esempio il sapere che posso raggiungere studiando un libro di etica.
È un sapere che ha per oggetto se stesso: è un sapersi obbligati, è un riconoscersi obbligati. E quindi la formulazione più precisa è la seguente: la persona è eticamente obbligata quando e se si riconosce obbligata.
E dunque il problema è di sapere quale rapporto esiste fra essere obbligati e riconoscersi obbligati.
Facciamo un passo avanti. Se io pongo il problema nel contesto di una visione legalista, esso coincide colla domanda: che rapporto esiste fra la legge morale e la coscienza. Infatti, secondo ogni visione legalista, essere obbligati è lo stesso che essere sottomessi ad una legge. Orbene, si deve tener presente che la teologia morale contemporanea riceve in eredità dal suo passato prossimo questa problematica: lo abbiamo già constatato nel numero precedente. Le vie che possono essere percorse per risolvere il problema nella sua precisa formulazione ricevuta nel periodo post-tridentino, sono fondamentalmente due: o si mette in questione questa formulazione stessa e si ricostruisce la domanda alla sua radice oppure si cerca una risposta corretta al problema ma senza porre in questione radicalmente il modo in cui storicamente il problema si era posto. Ora, a me sembra che la teologia cattolica contemporanea, generalmente parlando, abbia scelto la seconda strada. Ma, a questo punto, prima di procedere, dobbiamo abbandonare per un momento il mondo della teologia morale cattolica per andare a visitare, per un qualche tempo, la riflessione filosofica moderna, anzi il centro stesso della modernità, secondo gli storici più acuti della medesima.
Quale è questo centro? è l’identificazione dell’essere colla coscienza dell’essere. Volendo semplificare un poco, si può dire che il centro della modernità è costituito dall’affermazione secondo la quale non la coscienza procede dall’essere, ma l’essere procede dalla coscienza, è presenza di coscienza. Che cosa significa questo principio fondamentale per la nostra questione? significa identificare realmente l’essere obbligati, riconoscersi obbligati e obbligare se stessi. Mi spiego. Sono obbligato perché mi riconosco obbligato, in quanto riconoscendomi obbligato mi obbligo. Cioè: l’atto con cui mi riconosco obbligato non è da considerarsi semplicemente l’atto mediante cui conosco un’obbligazione pre-esistente. Esso (atto) è precisamente il principio che costituisce l’obbligazione in me. I latini distinguevano un “principium quo” e un “principium quod”. Sapersi obbligati non è il “principium quo”, io conosco che sono obbligato, ma è il “principium quod” che mi fa essere obbligato. In questo senso, essere obbligati, riconoscersi obbligati e obbligare se stessi si identificano. Insomma, obbligazione e consapevolezza di questa sono identiche.
Ora si può cogliere il senso preciso che ha per la modernità l’autonomia della coscienza morale: un senso completamente diverso da quello che ha nella grande tradizione etica della Chiesa. Essa significa che la causa efficiente l’obbligazione è l’atto della coscienza; che obbligo me stesso quando io mi conosco obbligato; che il legislatore dell’uomo è l’uomo stesso. Quando la modernità parla di dignità della coscienza intende precisamente affermare questa autonomia. Ma su tutta questa problematica rifletterà il Prof. Grygiel. Noi ritorniamo nel territorio della teologia morale contemporanea.
Ovviamente, l’esperienza culturale della modernità e la riflessione teologica non vivono su due isole: c’è stata tutta una profonda osmosi fra le due. Osmosi che ha dato i suoi frutti anche nella dottrina sulla coscienza morale. Vediamo subito in che modo.
È chiaro che nessun teologo può accettare, nella sua interezza, il principio centrale della modernità: esso implica l’ateismo. Implicazione che la storia ha tragicamente mostrato, con le conseguenze che tutti conosciamo. Tuttavia, c’era nella teologia morale che si riproponeva il problema della coscienza una specie di abbassamento del sistema immunitario nei confronti della modernità (così intesa), di buona disponibilità, se non a un matrimonio quanto meno a una pacifica convivenza. In che cosa consiste questa “buona disponibilità”?
Certamente la teologia, come dicevo, non poteva procedere verso un’identificazione della legge morale colla coscienza, elevando il giudizio a norma suprema dell’agire, tuttavia, come si è già visto nel primo punto della nostra riflessione, questo era l’orientamento fondamentale. Delle quattro soluzioni offerte al problema di H.V., le prime tre concludevano tutte nell’affermazione della coscienza come istanza normativa ultima. Se da una parte quindi si continua ad affermare l’esistenza di una legge morale “oggettiva”, dall’altra tuttavia il fondamento ultimo dell’obbligo è collocato nel giudizio di coscienza. In questo senso, si ha una pericolosa e ambigua convivenza col principio moderno di coscienza. Perché pericolosa? perché ambigua? Rispondendo a queste due domande avremo il ritratto che della coscienza morale ha dipinto la teologia morale contemporanea.
È una convivenza pericolosa. Esistono domande così radicali da costringere il nostro pensiero a dare solo una risposta (che, ovviamente, può essere vera o falsa); da impedire al nostro pensiero di essere neutrale o di sospendere la risposta, essendo neutralità o sospensione già una risposta; da escludere un tertium fra l’aut-aut delle sole due risposte possibili. Ora, il principio moderno di coscienza è una delle due risposte possibili alla domanda metafisica essenziale sul significato dell’essere, rispetto a una coscienza non creatrice come quella umana. È la risposta che identifica l’essere con la coscienza dell’essere. Cercare un compromesso con questa soluzione nel senso di accettare in parte questa risposta e in parte respingerla, è un’impossibilità teoretica. Chi si mette sulla strada di questo “compromesso” finisce, e in questo sta il pericolo, coll’accettare completamente quella risposta. E, infatti, la malattia mortale di cui soffre la dottrina teologica contemporanea è il soggettivismo, cioè l’affermazione del giudizio della coscienza come momento costitutivo della moralità come tale.
Questa situazione teoretica in cui versa la dottrina della coscienza ha fatto entrare in essa una profonda ambiguità. È il secondo aspetto sul quale vorrei ora attirare la vostra attenzione. Col termine “ambiguità” intendo connotare quella proprietà per cui una proposizione può avere due significati contrari. Facciamo un esempio molto semplice.
Il Magistero della Chiesa ha sempre insegnato che chi agisce contro il giudizio certo della propria coscienza, pecca sempre, anche se il giudizio è falso. Ma lo stesso Magistero insegna che occorre distinguere accuratamente l’imputabilità di un atto al soggetto agente dalla qualità morale dell’atto stesso: un atto ingiusto da me compiuto non può essermi imputato, senza che per questo l’atto da ingiusto diventi giusto. L’imputabilità, infatti, è fondata sulla modalità con cui l’atto è causato dal soggetto; la qualità morale sul rapporto dell’atto colla natura della persona. Posso esprimere questa verità dicendo che, alla fine, è il giudizio di coscienza che decide della moralità dell’atto, che costituisce la mediazione decisiva per la persona che agisce? certamente queste formulazioni, e altre simili, possono esprimere quanto abbiamo appena esposto. Tuttavia, in un contesto come quello creato dal principio fondamentale della modernità, non si tratta più di distinguere moralità e imputabilità, dal momento che alla luce di quel principio questa distinzione non ha più senso.
È un esempio: ne potrei fare molti altri. Ora l’ambiguità è una grave malattia nella comunicazione umana, perché può obiettivamente ingannare l’altro. D. von Hildebrandt scrisse un libro intitolato Il cavallo di Troia nella città di Dio. È la situazione in cui oggi versa la dottrina della coscienza morale, in larga parte. È una specie di cavallo di Troia attraverso cui è penetrata una visione soggettivistica dell’esistenza cristiana.
Di fronte a questa situazione, non manca chi ritiene che si debba semplicemente ri-affermare la dottrina post-tridentina. Il problema cioè è quello di ristabilire una obbedienza alla legge morale, ridando a questa quel primato nei confronti della coscienza, che la può salvare dal deserto del soggettivismo. Ma, forse, in questo modo siamo già entrati nel terzo e ultimo punto della nostra riflessione. Credo, quindi, che sia utile fare una breve sintesi di questo secondo punto.
La domanda era la seguente: quale è la dottrina della coscienza morale nella teologia morale contemporanea, nella sua essenza? Abbiamo costruito la risposta nel seguente modo.
- La dottrina della coscienza dipende dal modo con cui si risolve il problema del problema fra essere obbligati e sapersi obbligati.
- La teologia morale riceve questo problema nella formulazione che esso riceve in una visione legalista (che è quella di fondo nella teologia morale contemporanea), cioè il rapporto fra legge morale e coscienza.
- La modernità si incentra tutta e si concentra nel principio che l’essere è la coscienza dell’essere e che l’essere obbligato coincide con il riconoscersi obbligato.
- La teologia morale convive con questo principio giungendo a elevare il giudizio di coscienza a principio costitutivo dell’essere obbligati. E in questa “elevazione” della coscienza a norma ultima dell’agire sta l’essenza della dottrina teologica contemporanea più largamente diffusa.
3. Conseguenze pratiche della dottrina
In questo ultimo punto della nostra riflessione cercherò di individuare le principali conseguenze di questa dottrina nella vita della Chiesa e dei fedeli. In questo modo ci sarà poi più facile capire quale è la nostra responsabilità di pastori nella situazione attuale.
La prima, la più grave e quella sulla quale dobbiamo meditare più profondamente è lo sradicamento del singolo dalla Chiesa. Si tratta di uno dei punti centrali di tutta la nostra riflessione di questi giorni. Vorrei, dunque, fermarmi più a lungo su questa situazione.
Leggendo i Padri della Chiesa e i grandi maestri del pensiero cristiano una delle cose che mi colpisce più profondamente è la coscienza di una certa identità fra il “singolo” e la Chiesa. Mi limito solo a due esempi.
Nelle Omelie sul Cantico dei Cantici (1, 7), Origene arriva a dire “io, la Chiesa” e tutta la pagina è basata su questa misteriosa identificazione fra il soggetto, la persona del credente e la Chiesa: la Chiesa è nel credente e il credente è nella Chiesa. E quindi nel Commento al Cantico dei Cantici (3; PG 13, 159 B) può scrivere: “la sposa, cioè la Chiesa o l’anima che tende verso la perfezione”. Si noti: “la Chiesa o l’anima”. Ed è ben noto che questa mistica identificazione ha costituito il principio ermeneutico fondamentale della Sacra Scrittura: tutta la Scrittura parla di Cristo, cioè della Chiesa, cioè di ogni credente.
Lo ritroviamo anche nel Medioevo. Basti un esempio. Tutto il Commento al Cantico di san Bernardo si regge su questa mistica identificazione. “quae est sponsa”, si chiede, “et quis est sponsus?” e risponde: “hic Deus noster est, et illa, si audeo dicere, nos sumus” (LXVIII, 1). Ma, forse, la pagina nella quale questa esperienza è espressa in modo sublime è nel Sermone 12, 11. “Quod etsi nemo nostrum sibi arrogare praesumat, ut animam suam quis audeat sponsam Domini appellare, quoniam tamen de Ecclesia sumus, quae merito hoc nomine et re nominis gloriatur, non immerito gloriae huius participium usurpamus. Quod enim simul omnes plene integreque possidemus, hoc singuli sine contradictione participamus”. E termina con questa stupenda preghiera: “Gratias tibi, Domine Jesu, qui nos carissimae Ecclesiae tuae aggregare dignatus es, non solum ut fideles essemus, sed ut etiam tibi vice sponsae in amplexos iucundos, castos, aeternosque copularemur”.
La pagina di Bernardo è assai utile per proseguire la nostra riflessione. Egli dice: “quod simul omnes plene integreque possidemus, hoc singuli sine contradictione participamus”. È così spiegata la nostra identificazione colla Chiesa. Questa è pienezza e integrità (cioè è “cattolica”), il singolo partecipa di questa pienezza e integrità: il singolo è tutta la Chiesa, anche se non totalmente. La Chiesa diviene la dimora, cioè l’ethos del credente.
Questo incontro mirabile del singolo colla Chiesa comincia a divenire problematico quando la Chiesa è conosciuta come una realtà estrinseca al singolo: l’ecclesialità non è una dimensione costitutiva del singolo, ma solo una disposizione della volontà di Dio, che non ha un fondamento nell’essere stesso della persona. Si crea una separazione ontologica che si cerca di superare volontaristicamente (l’obbedienza alla Chiesa).
La situazione della coscienza morale nella Chiesa è precisamente questa, nella sua sostanza. Né poteva essere diversamente. Infatti, se la legge morale si pone nei confronti della coscienza nel modo che abbiamo detto varie volte precedentemente, se la Chiesa insegna questa legge morale, il rapporto coscienza-Chiesa è identico al rapporto coscienza-legge morale. Non c’è una connessione ontologica fra coscienza e legge; non c’è una connessione ontologica fra coscienza e Chiesa. È compito della coscienza determinare se e quanto mi obbliga la legge morale; è compito della coscienza determinare se e quanto la Chiesa possa entrare nella coscienza.
Se confrontiamo questa situazione con quella descritta da Origene e da Bernardo, possiamo capire che cosa significa “sradicamento della coscienza del singolo dalla Chiesa”.
Si ha una prova continua di questo sradicamento in un dibattito che sembra non avere mai fine: il rapporto fra Magistero morale della Chiesa e coscienza del singolo. Questo dibattito è stato sempre impostato su base conflittuale, come se il conflitto appartenesse alla fisiologia e non alla patologia del rapporto. Ritornerò nella mia conferenza seguente sui punti dottrinali di questo problema.
La cosa più singolare è che ormai si finisce spesso il discorso sul Magistero, dicendo: “questo è ciò che insegna il Magistero, ma poi hai la tua coscienza”. Questo modo di dire è la dichiarazione aperta del fallimento di un rapporto.
Così dicendo, infatti, si dice una cosa ovvia o si trasmette un messaggio in se stesso contraddittorio. Infatti, da una parte si afferma un’autorità magisteriale, ma dall’altra si afferma che quest’autorità deve essere sottoposta al giudizio della coscienza: il che è come dire che non ha autorità. Ci sono, certo, problemi dottrinali che cercheremo di affrontare. Ma il vero problema del rapporto Magistero-coscienza è costituito dal fatto che questo rapporto si pone in una soggettività che ha perso la sua identificazione colla Chiesa, che è sradicata dalla Chiesa. Come è facile vedere, questa conseguenza di una certa dottrina della coscienza è la più grave.
Vorrei ora richiamare la vostra attenzione su una seconda conseguenza. La suddetta dottrina della coscienza ha compromesso gravemente la proposta pedagogica e l’impegno educativo della Chiesa, sul piano morale.
Molte sono le ragioni di questa compromissione. In primo luogo, l’opera educativa è tendenzialmente orientata a ridursi a istruzione morale. La visione che pone al centro dell’esperienza etica il concetto di obbligazione, costituita dalla legge, dà origine necessariamente a una proposta educativa che ha come suo principale scopo far conoscere ciò a cui si è obbligati e fare interiorizzare le norme morali nella coscienza del singolo. In questo senso, ho parlato di una tendenziale riduzione dell’educazione morale a istruzione morale.
Ma si ha un’insidia ancora più profonda all’opera educativa della Chiesa. Abbiamo già parlato lungamente sul rapporto coscienza-legge morale e più volte abbiamo detto che l’ultima parola spetta alla coscienza del singolo. In un senso molto preciso: si tratta di un giudizio sul quale non è possibile pronunciare un giudizio di verità universalmente valido. Da queste premesse di dottrina etica generale deriva il rischio di ridurre la persona a un soggetto che prende decisioni razionali di compiere azioni giuste, sulla base di regole e principi generali. Quale è, allora, la conseguenza pedagogica di questa visione? quella di ritenere che il fine dell’educazione morale sia quello di formare la persona al corretto ragionamento morale, di sviluppare in essa una competenza di ragionamento che sappia risolvere il proprio caso particolare alla luce dei principi generali. Ma per non dare l’impressione che si stia parlando di teorie che non hanno nessun aggancio colla realtà, ancora una volta esemplifichiamo col problema H.V.
Se facciamo attenzione a come viene affrontato questo problema dal punto di vista educativo, leggendo i documenti che al riguardo sono stati pubblicati, vediamo che la preoccupazione fondamentale è costituita dal “caso difficile”: esso è considerato il caso normale. Individuato così il nucleo del problema, si indicano le regole generali che devono guidare la soluzione del “caso difficile”. Le regole generali sono le regole, applicando le quali il fedele giunge al giudizio: “sono obbligato/non sono obbligato alla norma di H.V.”. Ecco, vedete: il modello pedagogico è esattamente quello appena descritto. La conferma la troviamo nel fatto che in questi documenti si conserva un silenzio pressoché totale sul tema della virtù della castità: questo tema, infatti, implica una teoria etica e pedagogica molto diversa, come vedremo.
Ritorniamo ora alla riflessione generale. Perché questo modo di concepire l’opera educativa costituisce una grave insidia alla pedagogia cristiana? Per due ragioni, almeno, molto serie. In primo luogo perché questa pedagogia, figlia legittima della dottrina etica sopra esposta, mette fra parentesi la reale soggettività cristiana: il suo radicamento nella comunità cristiana, nella tradizione, nella storia. In secondo luogo, poi, ma non dammeno, quella pedagogia rischia continuamente di cadere in una cultura relativistica come la nostra, in una prospettiva puramente formalistica. cioè: si educa all’acquisizione di “modelli di ragionamento” più che alla scoperta e assimilazione di contenuti veri. È una pedagogia che tende a essere puramente formale e procedurale.
Non procedo oltre nell’individuazione delle conseguenze della dottrina della coscienza morale che abbiamo esposta. Le due conseguenze che ho indicato, sradicamento del singolo dalla Chiesa e proposta pedagogica riduttiva, sono fra loro strettamente connesse. Esse nascono, alla fine, da una visione sostanzialmente incompleta del soggetto, della persona del credente. Ma, in questo modo, sono arrivato alla conclusione.
Riflessione conclusiva
Il profondo malessere, a dir poco, che si prova di fronte a tutto il modo con cui la teologia morale contemporanea ha affrontato il problema della coscienza morale, nasce dal fatto che in questo approccio è il concreto soggetto o persona credente che non è considerata. È questo il nodo centrale: la persona umana che vive in Cristo. È la verità su essa che deve essere integralmente affermata e difesa. E a questo punto scopriamo il significato ultimo del nostro servizio pastorale che si presenta “davanti ad ogni coscienza, al cospetto di Dio”: aiutare la persona a vedere se stessa “al cospetto di Dio”, nella luce di Dio.
La nostra sessione di studio è stata precisamente pensata per questo scopo.
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