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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


"A misura di Dio"
Intervista pubblicata sul settimanale diocesano "la Voce di Ferrara-Comacchio"
26 maggio 2001
a cura di don Massimo Manservigi

In occasione delle celebrazione della Veglia di Pentecoste, che si terrà il prossimo 2 giugno, abbiamo intervistato l’Arcivescovo Mons. Carlo Caffarra.

Il 2 giugno, alle ore 21, nella chiesa di S. Giorgio si terrà la veglia di Pentecoste, un avvenimento a cui quest’anno Lei ha voluto dare una particolare importanza.

La veglia come avvenimento diocesano, che precede la celebrazione della Pentecoste nelle singole comunità parrocchiali, è un momento di importanza fondamentale nel cammino della nostra Diocesi. Per capire il significato e l’importanza di questo momento mi sembra di poter dire che in un qualche modo noi riviviamo l’esperienza della Chiesa apostolica. Gli apostoli avevano appena vissuto l’"avvenimento Cristo". Finita per così dire sul piano visibile questa loro esperienza, cosa fanno? Prima di tutto si riuniscono nel Cenacolo con Maria a pregare lo Spirito Santo. E poi, ricevuto lo Spirito Santo, iniziano la grande missione cristiana. Noi abbiamo appena celebrato l’Anno Santo, la grande memoria del Mistero dell’Incarnazione del Verbo. Nella prima Pentecoste del dopo Anno santo, nella prima Pentecoste del Terzo Millennio, prima di tutto vogliamo fare ciò che hanno fatto gli apostoli: ritrovarci con Maria, la sera, per pregare con lei al fine di ottenere l’abbondanza dello Spirito Santo, perché ricevuto questo dono la nostra Chiesa prenda il largo, vale a dire cominci veramente a vivere in pienezza la grande grazia dell’Anno Santo. In questo senso ritengo che la veglia e la celebrazione della Pentecoste sia l’inizio solenne per la nostra Chiesa del dopo Anno Santo. Ecco perché è una celebrazione di importanza fondamentale nel nostro cammino.

Dopo lo straordinario ritorniamo all’ordinario, dentro il terzo millennio. Tra i doni dello Spirito Santo quale potrebbe essere quello di cui abbiamo più bisogno in questo momento?

Il dono del martirio, ma non il martirio del sangue. Questo è un privilegio che non possiamo chiedere, anzi Gesù ci dice di scappare di fronte a questa eventualità (se vi perseguitano in una città fuggite in un’altra), ma il dono del martirio nel senso più profondo, biblico, del termine, cioè il dono di essere davvero testimoni dentro la vita ordinaria ma di un fatto che è assolutamente straordinario, il fatto cioè che la misura di Dio è penetrata dentro la nostra vita umana e che da quel momento la vita umana ne è stata redenta e trasformata. Quando si dice vita umana si dice la nostra vita di ogni giorno, che comincia quando ci alziamo al mattino e viene sospesa quando andiamo a letto alla sera. Il dono del martirio significa essere davvero testimoni di questa misura di Dio dentro la nostra vita: in fondo il cristianesimo è tutto qui. Non a caso a conclusione del mese di maggio, il 31 alle ore 9.30 presso il salone S. Francesco, viene proposta a tutti la sacra rappresentazione "L’ultima al patibolo" di G.Von Le Fort, il cui tema è il martirio come unica misura della esistenza umana.
Come i due millenni che ci hanno preceduto sono stati i due millenni dell’azione dello Spirito Santo, il quale ha continuamente attinto, come dice Gesù nel Vangelo, da Lui cioè dal suo atto redentivo, dando all’uomo di vivere interamente la sua vita, così la nostra Chiesa nel primo anno del terzo millennio, nella prima Pentecoste del terzo millennio, chiede allo Spirito Santo di farci davvero testimoni di Cristo, dentro alla nostra vita di ogni giorno.

Il passaggio tra questi due millenni ha segnato un po’ in tutto il mondo il ritorno allo spirituale, che ha preso diverse forme e la Chiesa giustamente ha posto dei confini non riconoscendo alcune esperienze come vere esperienze dello Spirito. Come possono orientarsi i fedeli?

Questo è un problema teologico e pastorale di enorme importanza. Sabato sera mi trovavo nel bussetano a un seminario di studio su Giovanni Guareschi e mi avevano chiesto di parlare della figura del sacerdote in Giovanni Guareschi. In Don Camillo c’è una pagina che io ritengo la più bella in assoluto scritta da Guareschi, la pagina in cui il sindaco Peppone uscendo nella cupa notte padana sente nelle sue mani il tepore del bambinello che su incarico di don Camillo aveva ridipinto per il presepio parrocchiale. Lo sente nelle mani: le mani sono il lavoro, le mani sono anche la pesantezza del nostro vivere quotidiano; il tepore di Dio lo sente nelle sue mani. Neanche nello spirito, ma nelle sue mani. Cosa voglio dire? voglio dire questo: come dicevi già anche tu, la Chiesa è sempre stata molto perplessa di fronte a certe forme di spiritualismo, perché all’inizio la prima eresia non è stata la negazione della divinità di Cristo, ma della sua carnalità. Quello che è più difficile non è l’affermazione di una salvezza dello spirito; è l’affermazione di una salvezza della carne, che vuol dire corpo, che vuol dire quello che dicevo prima, la carne dei nostri rapporti quotidiani, la carne del nostro lavoro umano, la carne dell’amore fra l’uomo e la donna, la carne delle nostre malattie, della nostra morte. O noi sentiamo il tepore di Dio nelle nostre mani o altrimenti non c’era bisogno che Dio si facesse uomo. E’ difficile capire che cosa in realtà intende il fedele semplice quando noi parliamo dello Spirito. E’ una questione difficilissima; noi conosciamo il nome proprio della prima persona della Trinità "Padre", noi conosciamo il nome proprio della seconda persona della Trinità "Figlio", ma non sappiamo il nome proprio, non ci è stato rivelato il nome proprio della terza persona della Trinità. La Chiesa ha appropriato a questa persona divina normalmente il termine, la parola Spirito Santo.
Questo costituisce una difficoltà obiettiva sia sul piano Teologico che sul piano della predicazione cristiana e della pastorale, perché rischiamo, noi latini soprattutto, di mettere in secondo ordine una presenza che invece, per le ragioni che dicevo poc’anzi, è centrale nella nostra esperienza cristiana. Allora, io credo, noi dobbiamo in fondo con molta umiltà, semplicità leggere continuamente i testi biblici, in cui Gesù parla dello Spirito Santo, lo chiama il consolatore e questa è una parola che noi comprendiamo molto bene: consolatore perché ci dà la certezza, la speranza che sappiamo non delude. Lo chiama colui che ci insegna tutto. S. Paolo lo chiama colui che ci guida. Al di là di questo chi ci sta, chi è Questi? Non lo sappiamo; lo sentiamo, più che saperlo. Questo è il grande enigma della teologia cristiana.

Siamo entrati nel terzo millennio con numerose guerre, conflitti e difficoltà. Bisognerebbe riscoprire il concetto dell’amore come comunione?

Io credo che alla fine sia questo il modo più semplice e profondo di introdurre i fedeli nel mistero (della presenza) dello Spirito Santo. Non a caso la tradizione cristiana, sia orientale che occidentale, ha sempre indicato lo Spirito Santo come l’Amore, la Comunione, l’Unità, il Dono. S.Tommaso dice stupendamente che è il primo dono che ci viene fatto. Infatti il primo dono che si fa a una persona, è l’amore con cui tu la ami, gli altri doni sono una conseguenza. Questa è anche la vera sfida io ritengo, la sfida contro quell’individualismo che è il vero cancro delle nostre società; le fa morire, perché non sono più comunità umane ma sono coesistenza, come dico spesso, regolamentata di egoismi opposti. Non è un vivere-con, non è una comunio personarum, una comunione personale. L’uomo lo sente; nel momento in cui avverte profondamente il bisogno di una speranza di amore che in qualche attimo vede realizzata, in altri momenti vede delusa, in quel momento l’uomo in fondo che cosa fa anche senza saperlo? Desidera, invoca lo Spirito Santo, la presenza dello Spirito Santo. Comprendiamo allora l’importanza fondamentale che nella cura dell’uomo e per l’uomo assume il matrimonio, la famiglia come la comunità originaria; l’importanza che per la Chiesa ha l’attenzione privilegiata verso certe persone esprime in modo eminente questa cura dell’uomo. Penso ai bambini già concepiti non ancora nati, penso agli ammalati terminali, penso a chi dalla società è emarginato e non ha casa, non ha lavoro. Lì si mostra il bisogno, l’esigenza del dono dello Spirito Santo che ci faccia martiri, testimoni dell’amore di Cristo.