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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Il valore della vita umana nel magistero di Giovanni Paolo II
Bassano del Grappa, 8 ottobre 1990


Nel Magistero dei suoi Pontefici la Chiesa esprime la sua fede e la sua testimonianza alla Verità di Cristo. Per questa ragione, l’autore della lettera agli Ebrei raccomanda ai suoi destinatari di percepire nella varietà delle persone che lo rappresentano, il Cristo che rimane sempre lo stesso: ieri, oggi e sempre, non lasciandoci così sviare da insegnamenti vaghi e peregrini.

Ma è precisamente la permanenza della verità di Cristo nella Chiesa che esige dai suoi Pastori di richiamare la coscienza dell’uomo su quei valori che, a seconda delle situazioni, sono maggiormente contestati. Ed è fuori dubbio che oggi il valore della vita umana lo sia particolarmente. Noi vogliamo questa sera riflettere sul modo con cui il Magistero di Giovanni Paolo II ha difeso questo valore.

 

1. Consentitemi di iniziare da un’affermazione di sconcertante semplicità, ma di decisiva importanza. Quale è la certezza di base, la radice più profonda della difesa della vita umana da parte del Magistero della Chiesa? La certezza che l’esistenza di ogni uomo è sempre e comunque un bene. Di fronte a qualsiasi persona umana, nessuno ha il diritto di dire: è un male che tu ci sia! Ma, al contrario, di fronte a qualsiasi persona, ciascuno deve dire: è un bene che tu ci sia! È la certezza, assoluta ed incondizionata, che l’esserci è sempre bene.

Una tale certezza, che la Chiesa possiede, non è qualcosa di cieco: una sorta di istintiva reazione, priva di fondamento. Essa, al contrario, si radica nella percezione intima che dentro all’esistenza di ogni persona umana è inscritto un senso, una ragione di essere: è un bene che tu ci sia, perché c’è una ragione del tuo esserci. Certo l’affermazione della presenza di una ragione nell’esserci di ciascuno non è coerente coll’affermazione che si entra nell’esistenza per necessità o per caso. Necessità e casualità ci tolgono il diritto di affermare di fronte a ogni singola persona: è bene che tu ci sia! Se, infatti, è causa di una impersonale necessità, inscritta in quel tutto che è la natura nel suo insieme, che ciascuno di noi esiste, non è sempre e assolutamente bene che il singolo ci sia, ma è bene fino a quando lo esige il bene del tutto. Se è per caso che ciascuno di noi è venuto all’esistenza, e anche per caso che continua a rimanerci ed è per caso che si muore, la casualità del nostro esserci esclude che si possa semplicemente dire: è bene / è male che tu ci sia!, escludendo per definizione ogni sensatezza.

La certezza della Chiesa si radica sull’affermazione che al principio di ogni esistenza umana c’è un atto di intelligenza e di libertà divine: c’è un atto creativo di Dio. La Chiesa, in fondo, esclama di fronte ad ogni essere umano vivente: è un bene che tu ci sia, poiché Dio ti ha pensato e voluto (cioè creato). La difesa del valore di ogni vita umana è la confessione del primo articolo della fede cristiana: Dio Creatore e la Sua glorificazione. È questo il contesto nel quale il Magistero della Chiesa e di Giovanni Paolo II va ascoltato ed accolto. Ritorneremo più a lungo su questo punto. Per ora è sufficiente questo richiamo, al fine di mettere la nostra riflessione nel suo contesto.

 

2. La certezza del valore di ogni vita umana genera un Magistero assai ampio, che è impossibile riassumere in breve tempo. Vorrei, allora, limitare la mia esposizione ad un solo capitolo del suddetto Magistero: quello riguardante la vita umana già concepita e non ancora nata.

 

2, 1. Dio Creatore ha voluto rendere partecipi l’uomo e la donna del suo amore creativo. Il primo grande momento del Magistero di Giovanni Paolo II è costituito precisamente dalla riflessione sulla vita umana considerata nel suo inizio stesso, nell’atto stesso del suo sorgere: il momento del concepimento. La prima domanda che si pone è la seguente: quale è l’atto eticamente degno di dare origine ad una persona umana o — il che equivale — quando la persona umana è concepita in modo adeguato alla sua dignità? La seconda è coerentemente correlativa alla prima: quando il valore della vita umana è negato nel suo stesso concepimento? È, dunque, il momento della proposta positiva ed è la denuncia poi delle ferite inferte, già a questo livello originario, alla dignità della persona umana.

 

2, 1, 1. L’atto eticamente degno di dare origine a una persona umana è l’atto sessuale coniugale. Si tratta di un’affermazione centrale nel Magistero. Dignità etica significa che solo l’atto coniugale ha in sé la capacità di istituire un rapporto col possibile concepito, adeguato alla dignità di questi. Quali sono le ragioni profonde di quest’affermazione? Sono molte. Voglio limitarmi a due sole, fra loro strettamente connesse.

La prima. L’atto di porre le condizioni del concepimento di una nuova persona umana è una cooperazione con l’attività creativa di Dio. Una cooperazione che deve essere la più simile possibile all’amore creativo di Dio. La seconda ragione è che, all’infuori di questo modo di porre le condizioni del concepimento della nuova persona, non esiste che un’azione di carattere tecnico che istituisce un rapporto ingiusto col concepimento, poiché possiamo produrre le cose, non le persone.

 

2, 1, 2. Dall’affermazione dottrinale, secondo la quale l’unica culla degna del concepimento di una persona è l’atto coniugale, deriva la conseguenza che ogni procedimento tecnico che si sostituisca all’atto coniugale nel porre le condizioni del concepimento, è da ritenersi moralmente illecito, in quanto non rispettoso della persona umana. Di fronte alle nuove tecniche procreative, il Magistero si è pronunciato negativamente. Certo, può sembrare strano, e a molti è sembrato e sembra tale questo giudizio negativo: proprio in rapporto al valore della vita umana. E infatti sembra logico che la difesa, così intransigente nel Magistero, della vita umana e l’esaltazione del suo valore comporti l’accoglienza di procedimenti, i quali precisamente rendono possibile il sorgere di una nuova vita umana, altrimenti impossibile. Il punto è importante, perché ci aiuta a capire la vera, intima natura della testimonianza della Chiesa al valore della vita umana. Non si tratta, infatti, di una generica valutazione della vita, di una indistinta affermazione. È la vita della persona che è un valore etico, non la vita come tale. La vita di una pianta, di un animale non ha in sé alcuna preziosità di carattere propriamente etico, ma solo di carattere utilitaristico al servizio dell’uomo. È la persona vivente il valore etico, poiché essa è la Gloria di Dio. C’è un abisso a separare la Chiesa dai movimenti ecologisti, da questo punto di vista. Ora la condanna dei procedimenti procreativi artificiali non è altro che l’affermazione della dignità della persona; non ogni modo di dare origine alla vita è eticamente accettabile, così come non ogni modo di prolungarla comunque: è la persona vivente al centro delle preoccupazioni del Magistero, non in quanto vivente, ma in quanto persona.

 

2, 1, 3. Connesso con questo punto si trova un altro punto del Magistero di Giovanni Paolo II a difesa del valore della vita umana, quello forse più contestato: la condanna radicale, senza ambiguità, della contraccezione.

Che ci sia una connessione fra i due momenti, affermazione del valore della vita umana e condanna della contraccezione, è ovvio. Tuttavia, si tratta di approfondire questa connessione. A me sembra che due siano soprattutto i fondamenti di questa connessione.

Il primo è individuato nel Magistero di Giovanni Paolo II, attraverso una scoperta molto profonda dell’intima natura dell’amore coniugale: si tratta, cioè, di capire come difesa della dignità dell’amore coniugale, affermazione del valore della vita umana della persona e condanna della contraccezione, stiano in piedi assieme o cadano insieme. È nel contesto di questa intima connessione che si comprende il Magistero sulla contraccezione. È in sostanza lo stesso insegnamento appena detto sulla procreazione artificiale. Se da una parte, si deve dire che solo l’atto dell’amore coniugale è degno di porre le condizioni del concepimento di una nuova persona e che pertanto l’atto di procreare non deve mai essere separato dall’alto sessuale coniugale; dall’altra parte, la possibilità presente nell’atto coniugale — quando lo è — di porre le condizioni del concepimento di una persona umana, è ciò che fa dell’amore coniugale ciò che è nella sua più intima natura, partecipazione all’amore creativo di Dio, e pertanto l’atto dell’amore coniugale, quando è fertile, non deve mai essere separato dalla possibilità di concepimento.

La separazione fra sessualità (coniugale) e procreazione, sia essa surrettiziamente mascherata come vittoria sulla sterilità attraverso la tecnica o come verità di un amore finalmente scoperto nella sua pura verità, è in realtà il segno di una cultura di morte e di menzogna: di “riduzione” dell’ineliminabile unicità della persona dentro i ranghi del comune e del generico. Ma esiste anche, mi sembra, un secondo fondamento della connessione fra affermazione del valore della vita umana e condanna della contraccezione. È un fondamento sul quale il Magistero di Giovanni Paolo II ama ritornare.

La giustificazione, anzi spesso la nobilitazione della contraccezione a cui assistiamo nella cultura contemporanea, maschera un evento spirituale di una gravità inesprimibile: l’essersi l’uomo attribuito il dominio ultimo ed esclusivo sulle sorgenti stesse della vita. È la proclamazione che l’uomo fa di sé stesso come autore della propria vita, coll’espulsione dall’esperienza e dalla coscienza dell’uomo della percezione della creazione. Ora — e questo è tremendo — l’uomo ha solo un modo per poter esprimere questo supposto suo potere creatore della vita: quello di negare la vita stessa. Che l’uomo sia padrone assoluto della sua vita, egli ha solo una prova da esibire: la distruzione della vita stessa.

Da questa triplice riflessione, presente nel Magistero di Giovanni Paolo II, sulla dignità dell’amore coniugale come fonte della vita, sull’inseparabilità della procreazione dall’amore coniugale e sull’inseparabilità dell’amore coniugale dalla procreazione, dipende la difesa della vita umana, considerata nel momento stesso del suo accendersi, del suo concepimento.

Tuttavia questa difesa si continua, sempre rimanendo ai primi momenti della vita umana, a concepimento avvenuto: è il tema dell’aborto. Sarà l’oggetto del terzo punto.

 

3. È da notare subito che è stato precisamente durante questo ultimo quindicennio che è stata promulgata la legislazione permissiva dell’aborto: e proprio anche nei paesi di più lunga tradizione umanistica e cristiana. È difficile esprimere brevemente tutto il Magistero di Giovanni Paolo II su questo fatto, di incalcolabile portata. Mi limiterò all’essenziale accenno di alcuni temi che mi sembrano i più importanti.

 

3, 1. In primo luogo l’abdicazione da parte dello Stato di difendere questa persona umana, la persona umana già concepita e non ancora nata, è in realtà l’abdicazione dello Stato alla sua ragione d’essere stessa, nel piano della Provvidenza divina. In una parola: è l’abdicazione alla dignità sua propria. Rifiutando, infatti, la sua difesa a chi può semplicemente vantare la sua appartenenza all’umanità, di essere una persona umana, ritenendo che questo non sia sufficiente per meritare un rispetto assoluto e incondizionato, lo Stato si esibisce come garante dell’interesse dei più forti. Ed è in questo che ha perduto ogni sua dignità. In una parola: 0 la legge difende e promuove la dignità di ogni persona umana o essa diventa semplicemente espressione della volontà del più forte. Che egli sia uno solo o una maggioranza parlamentare è indifferente, del tutto. La difesa della vita umana contro lo Stato è, nel Magistero, non solo difesa dell’innocente, ma anche del valore etico della società politica, che non può ridursi ad essere il fragile miracolo della convergenza di interessi opposti.

 

3, 2. Ma la difesa del valore della vita umana già concepita e non ancora nata introduce il Magistero dentro un problema, che è forse il problema centrale della crisi della nostra vita associata.

In questa difesa, il Magistero di Giovanni Paolo II, come di tutti i suoi predecessori, si richiama a un tema caro alla tradizione etica della Chiesa (e non solo della Chiesa). Si richiama a una legge che non è scritta nei Codici civili e penali degli Stati, ma che è scritta nel cuore di ogni persona umana. Tradirla e non trascriverla anche nei codici scritti sulla carta significa tradire la sua propria dignità, escludersi dal consorzio umano. Tuttavia, questo costante riferimento del Magistero della Chiesa viene puntualmente contestato, rifiutato 0, oggi più frequentemente, ignorato come obsoleto: è il consenso dei più che crea le leggi e alla fine il codice dei valori morali. Noi consentiamo nel ritenere bene/male (ciò che riteniamo bene/male), non perché è bene/male, ma, al contrario, è da ritenersi bene/male perché consentiamo nel ritenerlo come tale.

La Chiesa, nel Magistero di Giovanni Paolo II, ha respinto con grande forza questa visione. Essa, in primo luogo, difende i deboli: in realtà, il consenso è creato oggi da chi possiede i mezzi di produzione della comunicazione di massa. La difesa dei deboli equivale alla difesa dell’unico vero potere di cui dispone il povero: la voce della coscienza morale; un potere che è più forte di tutti i potenti di questo mondo.

E così  la forte difesa del concepito non ancora nato acquista anche valore di un “simbolo”, nel senso più alto del termine: è il richiamo della verità e della fedeltà alla verità come superiore a ogni cambiamento culturale.

 

3, 3. Questa difesa, pertanto, si inserisce nel contesto di un richiamo forte a non tradire la propria identità, tradendo la propria coscienza morale. Mi spiego.

La negazione del valore della vita umana, quale si ha nella legittimazione dell’aborto, è la corruzione totale della sorgente stessa del sociale umano, in quanto e perché è il rifiuto dell’uomo a riconoscere la sua verità stessa.

È la corruzione totale della sorgente stessa del sociale umano. La prima, originaria forma del sociale umano, cioè la società coniugale, si “supera”, si apre, costituendo cosi tutto il sociale umano nel suo germinare, quando la donna, per prima, si rende conto di aver concepito un uomo. Dal sociale duale (un uomo-una donna) si esce, per aprirsi in un sociale che non ha limite. Se si legittima il principio secondo il quale il concepito è uomo perché la donna lo riconosce come tale e non il contrario, la donna riconosce il concepito come uomo, perché tale egli è, per ciò stesso si legittima il principio che l’accesso all’umanità, alla dignità umana è condizionato dal consenso di un altro. Si legittima il principio che il sociale umano è posto in essere dalla convergenza degli interessi e non dalla partecipazione di tutti e ciascuno alla e nella stessa umanità. Con questo si pone alla base del sociale umano il principio utilitarista e non la norma personalista, colla conseguenza che l’esistenza di chi non può, non ha la forza di difendere il proprio utile, viene inesorabilmente distrutto.

È facile ora vedere come alla radice di questa corruzione totale del sociale umano stia la negazione della verità della e nella nostra coscienza morale. Questa viene impedita di vedere in ogni persona umana qualcuno di incondizionato valore: impedita di vedere il bene morale come tale.

Il bene morale, infatti, si mostra concretamente nella persona umana.

 

4. Ma una conseguenza di questa corruzione della sorgente stessa del sociale umano merita ora una breve e particolare considerazione. Sia perché è diventata in questi anni particolarmente attuale sia perché su di essa il Magistero di Giovanni Paolo II ha richiamato sovente l’attenzione.

Avendo legittimato, colla legislazione sull’aborto, il principio secondo il quale non è sufficiente essere uomini per meritare un rispetto assoluto, non si vede perché il concepito non possa essere materiale di sperimentazione, legittimata dal fine nobile di accrescere le proprie conoscenze, per liberare l’umanità da varie malattie.

Nel suo Magistero, Giovanni Paolo II ritorna, in questo contesto, ai punti fondamentali della sua difesa del valore della vita della persona. Nessuna persona può essere usata: solo le cose possono essere usate. Ora che cosa caratterizza l’attitudine all’uso? O quale è l’essenza intima della relazione di uso? Si usa di qualcosa/qualcuno, quando la si considera come mezzo per raggiungere un fine che non è nel mezzo stesso. Ora, proprio per questo, la persona non può mai essere usata, perché essa ha sempre la dignità di fine e mai l’utilità del mezzo.

L’affermazione e radicale, perché si fonda sulla natura stessa della persona come tale: non ha importanza sapere se il fine, in vista del quale la persona è strumentalizzata, è moralmente onesto o disonesto.

Il modo con cui viene giustificato l’uso di embrioni umani ai fini della ricerca scientifica è tipico: esso ci rivela colla massima chiarezza uno dei principali idoli della cultura contemporanea, l’idolo del criterio quantitativo. È l’incapacità di elevarsi alla considerazione del “qualitativo”: se tante persone riceveranno beneficio dall’uso che si fa di una sola, come non giustificare questo uso? Certamente se il valore delle persone dipendesse dal numero di cui è fatto il gruppo cui si appartiene (passaggio dall’uso del criterio maggioritario come espediente di governo a criterio di verità); ma il fatto è che nessuna persona è parte, è numero, è momento, poiché ogni persona è un tutto in sé sussistente.

Come vedete, anche la difesa della vita umana, contro i sacerdoti dell’idolo scienza, al quale vorrebbero sacrificarla, è sempre fatta nella luce abbagliante di quella certezza, sulla quale questa difesa è condotta: l’esistenza di ogni uomo è sempre e comunque un bene, perché alla sua origine sta un atto creativo di Dio.

E qui si pone un problema ulteriore, sul quale vorrei ora riflettere.

 

5. Ci si potrebbe chiedere: questa difesa può essere efficace oggi? A quali condizioni può esserlo? Nel nostro contesto culturale, dico.

Prima di rispondere a questa domanda, consentitemi due riflessioni preliminari.

La prima riflessione è che non si deve mai dimenticare che a nessuno di noi è chiesto di far trionfare la giustizia, ma solo e sempre di agire con giustizia; non è chiesto di far trionfare la verità, ma solo e sempre di dire la verità. O, il che è lo stesso: c’è un solo modo di far trionfare la giustizia, agire con giustizia; di far trionfare la verità, dire la verità. Il resto non ci appartiene: appartiene al mistero del governo provvidenziale di Dio. Dunque, la previsione dell’efficacia o inefficacia diventa un problema non così angoscioso. Quando un uomo comincia a sbirciare troppo soventemente alle conseguenze del suo agire, significa che sta diventando immorale.

La seconda riflessione mi riporta alla memoria il fatto che ci ha profondamente sconvolti, recentemente: il suicidio di tanti giovani. Il discorso che più frequentemente ricorreva era: carenza di valori etici e cose simili. Mi si consenta di dissentire dal ritenere che questa sia la causa più profonda per cui questi giovani si tolsero la vita. E la ragione del mio dissenso costituisce la mia ultima riflessione.

Come possiamo percepire che l’esistenza di ogni uomo è sempre e comunque un bene? La domanda equivale alla difficile domanda: come può un uomo percepire (imparare) la verità morale?

Esiste un solo modo: la presenza reale di questo valore nella persona del testimone. La verità etica può essere solo insegnata solo nella luce di una testimonianza. Ed è per questo che essa, alla fine, può essere percepita solo nella presenza che è Gesù Cristo.