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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


La cultura della morte: una diagnosi spirituale
Articolo per Studi Cattolici
1995


Le pagine centrali dell’Apocalisse (capp. 12-13) ci svelano le radici ultime di ciò che accade nella nostra storia quotidiana. Esse contrappongono alla Trinità divina un’altra trinità perversa costituita dal Satana (nella figura di un drago), dall’Anti-cristo e da un Profeta dell’Anti-cristo. Non è questo il luogo per tentare anche minimamente di decifrare questa misteriosa contrapposizione. Dobbiamo solo tenere in mente la sostanza del suo significato: nella nostra storia quotidiana è presente un dramma più che umano. Senza questa certezza, senza questa percezione la medesima nostra storia quotidiana non è capita.

Il primo capitolo di Evangelium Vitae (EV) compie un’analisi, che nasce da una visione di fede, della situazione in cui versa oggi la vita umana. È questo il modo proprio alla Chiesa di guardare, interpretare la vicenda umana. La Chiesa non ha la competenza di fare della sociologia o dell’antropologia culturale, di ragionare cioè in termini di scienze umane. Essa è guidata dalla Parola di Dio. E infatti, fra le righe del primo capitolo ricompare chiaramente che nel campo della vita umana alla Trinità divina si contrappone, oggi, la trinità perversa. Al Padre che “non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi” (Sap. 1, 13; cfr. EV 7, 1), al Figlio che è venuto perché gli uomini “abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv. 10, 10) e allo Spirito Santo “che è Signore e dà la vita”, si contrappone il diavolo per la cui invidia la morte è entrata nel mondo (cfr. Sap. loc. cit.), la strumentazione potente e invadente del “mondo” (cfr. EV, 17, 2) e la seduzione suasiva e incombente di una menzogna che ha chiamato “diritto” il “delitto” (cfr. EV 11, 1). Ma con questo sono già entrato nel tema di questa riflessione sull’Enciclica. E dunque devo procedere più lentamente, per mostrare precisamente la reale situazione in cui versa oggi la vita umana.

 

1. La cultura di morte

 

Cominciando a guardare le cose dalla superficie, possiamo dire che due sono principalmente gli ambiti in cui si svolgono gli attentati alla vita: l’inizio della vita e il suo termine (cfr. 18, 3). Certo, questo non esclude, e l’Enciclica lo ricorda (cfr. 10, 3-4), che esistano altri attentati, ma questi non suscitano la preoccupazione spirituale che suscitano quelli. Perché? E quale preoccupazione spirituale?

Quei due momenti della nostra esistenza hanno un significato unico e sono portatori di una provocazione, di una sfida cui la libertà di ciascuno non può sottrarsi (EV 22, 2). Il primo ci costringe alla domanda sulla ragione ultima del nostro esserci, il secondo sul fine ultimo della nostra vita. In essi l’uomo è confrontato col Mistero stesso. Nota l’Enciclica: “di fronte alla vita che nasce e alla vita che muore, [l’uomo] non è più capace di lasciarsi interrogare sul senso più autentico della sua esistenza, assumendo con vera libertà questi momenti cruciali del proprio ‘essere’ ”. Egli si preoccupa solo del “fare” e, ricorrendo ad ogni forma di tecnologia, si affanna a programmare, controllare e dominare la nascita e la morte. Queste da esperienze originarie che chiedono di essere “vissute”, diventano cose che si pretende semplicemente di “possedere” o di “rifiutare” (loc. cit.). La nascita e la morte sono il momento in cui la libertà è richiesta di collocare la persona o nella verità della dipendenza o nella menzogna del dominio, o nel riconoscimento del dono o nell’affermazione dell’auto-possesso. La libertà dell’uomo, insegna l’Enciclica, ha optato di collocare la persona nella seconda delle suddette alternative. Questa opzione ha concepito e generato inevitabilmente una “cultura di morte”. Ma, ancora una volta, dobbiamo procedere gradualmente.

Per capire questa prospettiva dell’Enciclica, questa chiave di lettura di cui essa si serve per interpretare la nostra cultura, dobbiamo liberare subito la nostra mente da un possibile equivoco. Non si tratta semplicemente della re-esposizione della dottrina cristiana del peccato. Cioè: il peccato è nella sua essenza l’affermazione della propria autonomia contro Dio: Così, anche il peccato contro la vita umana al suo sorgere o al suo termine, è affermazione dell’autonomia dell’uomo contro Dio. La riflessione che stiamo conducendo è più profonda e più ampia, come ci costringe a fare l’Enciclica stessa (cfr. 11, 1). Non si tratta solo di un disordine nell’esercizio della propria libertà; si tratta di un accecamento dell’intelligenza. Non si tratta solo della scelta del male; si tratta della giustificazione del male. Non è un collasso morale; è un collasso mentale.

“I falsi profeti e i falsi maestri hanno conosciuto il maggior successo possibile”, disse il Santo Padre ai giovani a Denver (cit. in EV, 17, 2). Siamo in quel capovolgimento radicale di cui già parlava Nietzsche (cfr. 24). È questo “evento spirituale” che dobbiamo capire, alla luce dell’Enciclica, e vedere poi come esso generi la “cultura di morte”.

L’aspetto più facilmente verificabile, su cui l’Enciclica richiama l’attenzione (cfr. 11, 1), è che il delitto viene qualificato come diritto. Che nella storia umana ci siano stati sempre aborti, è un fatto che nessuno nega. Tuttavia, mai — neppure nel paganesimo precristiano — si era pensato che il ricorso all’aborto potesse essere un diritto, cioè una facoltà del soggetto garantita dall’ordine della giustizia e quindi, in linea di principio, inviolabile (cfr. il discorso, ritornato di attualità in Italia, che, comunque si cambi la 194, resta indiscusso il “principio della libera auto-determinazione”). Lo stesso processo sta ormai accadendo anche per la fase terminale della vita. Questa trasformazione del “delitto” in “diritto” è stata resa possibile da almeno due eventi spirituali di incalcolabile portata che già da lungo tempo si trovavano in gestazione nella cultura occidentale.

Il primo. Attraverso un’analisi molto fine, san Tommaso dimostra che la diversità essenziale fra la volontà e ogni altro dinamismo di carattere appetitivo è che la prima emana dalla, ed è radicata nella ragione. E dunque, la radice della libertà è nel giudizio della ragione o, il che è lo stesso, ciò che fa sorgere nella persona la possibilità di scelta e l’attività della ragione. Tocchiamo un punto cruciale della nostra vicenda spirituale quotidiana. Che cosa significa, in realtà, questa analisi apparentemente così asettica? Significa che non è possibile essere liberi senza un aggancio reale (o almeno ritenuto tale) coll’essere. Significa che l’esercizio della mia libertà ha un costitutivo legame colla conoscenza della verità (cfr. EV 19, 4). Se si spezza questo legame, l’uomo perde la sua libertà: non semplicemente esercita in modo falso la sua libertà. Anche ora dobbiamo riprendere una riflessione fatta sopra, sempre per evitare un equivoco che ci impedirebbe di cogliere tutta la portata di queste affermazioni.

La scelta peccaminosa è una scelta libera. Essa infatti si radica in un giudizio della ragione (ho detto, si noti bene, “si radica” non “consiste”) mediante il quale la persona giudica bene per se stessa ciò che è male. La persona nel momento in cui pecca, non spezza il suo legame colla ragione e quindi in quel momento essa è veramente libera. Dunque, quando parliamo del rifiuto del legame costitutivo della libertà colla verità, non stiamo parlando semplicemente del peccato. Stiamo parlando di qualcosa, di un evento spirituale molto più profondo. È pensare che essere liberi sia pura auto-determinazione, inizio assoluto (in senso letterale: slegato da ogni dato precedente), atto che non ha niente prima di se stesso e dunque costitutivo, creativo del soggetto spirituale, della persona stessa. San Tommaso insegna profondamente che nella complessa vita dello spirito, tutta giocata nella inabitazione reciproca di ragione e libertà, “non oportet procedere in infinitum, sed statur in intellectu sicut in primo” (I, q. 82, a. 4, ad 3um: “non si deve procedere all’infinito, ma ci si fonda sull’intelletto come su ciò che è primo”). Lo Spirito Santo, nella vita trinitaria, procede dal Padre e dal Figlio. Negata la “processione” della libertà dall’intelligenza, la libertà è persa e la persona umana agisce solo emotivamente. Il diritto si è svuotato ed è diventato facoltà inviolabile (in linea di principio) di fare ciò che piace e/o ciò che è utile (cfr. EV 19, 4): nulla di più o di diverso.

Il secondo evento spirituale è connesso col primo. Posso indicarlo, descriverlo come trasformazione, meglio deformazione del concetto e dell’esperienza di soggettività (cfr. 19, 1). È noto che il concetto di persona è stato elaborato solo all’interno del cristianesimo, dentro allo sforzo teoreticamente immane di confessare la vera fede nei due misteri principali della nostra fede, la Trinità Santa e il Verbo Incarnato. Il risultato di tale elaborazione fu, se così posso dire, una definizione bi-polare di soggettività personale: la persona è soggetto sussistente (è in sé e per sé), la persona è in relazione. Se teoreticamente questa bi-polarità è insuperabile e deve essere mantenuta (solo la persona divina è relazione sussistente), praticamente essa pone il problema di come essere liberi, cioè di come “generare noi stessi” colle nostre scelte (Gregorio di Nissa). Cioè: come affermare se stesso nella relazione con gli altri, come porsi in relazione con gli altri affermando se stesso? Esiste un atto dello spirito che sia al contempo suprema affermazione di se stesso e costituzione di relazione con l’altro? L’antropologia cristiana risponde affermativamente a questa domanda. Questo atto è l’atto dell’amore, cioè il dono di sé all’altro. Non è questo il luogo per ripercorrere tutto il percorso speculativo che ha condotto a definire la realizzazione di se stesso nel dono di se stesso. Mi limito a due considerazioni più pertinenti al nostro tema.

La definizione pratica della soggettività in termini di amore-donazione ha condotto la riflessione cristiana ad una teoresi della soggettività come “comunione inter-personale” e a riproporre il tema della libertà in termini radicalmente nuovi per quanto attiene al suo (della libertà) rapporto colla verità. L’Apostolo Paolo scrive ai Galati (5, 13-14) di non perdere la loro libertà, di non decadere dal loro stato di persone libere e quindi di diventare servi gli uni degli altri, nell’amore. Il servizio alla persona non è semplicemente possibile se non sai chi è la persona, quali sono i beni che realizzano la pienezza del suo essere. L’amore è la forza che realizza la verità della persona: che fa la verità (cfr. Ef. 4, 15).

Quando accade e in che cosa consiste la deformazione della soggettività, sia a livello teorico sia a livello pratico? Quando si spezza la tensione bi-polare che la costituisce. E ciò può accadere in due modi. O togliendo il “polo” della relazionalità come proprietà essenziale della soggettività umana: la persona è definita come individuo. O togliendo il “polo” della sussistenza o sostanzialità della persona: la persona non è che il risultato, il residuo di forze e realtà impersonali nel loro incrociarsi.

Questo è stato precisamente il secondo evento spirituale che ha dato origine alla cultura di morte: la corruzione interiore della soggettività.

L’Enciclica accenna ad ambedue le forme che ha assunto la corruzione (cfr. per esempio 19, 1; 20, 1). E ora dovremmo vedere come finalmente questi due eventi spirituali hanno generato una cultura di morte. Prima però dobbiamo ancora fermarci a considerare quei due eventi, chiedendoci — come fa l’Enciclica — quale è stato il loro costo in termini spirituali. A costo di che cosa quei due eventi sono stati possibili? I costi pagati sono stati soprattuto due.

Il primo è stato di censurare la domanda religiosa come tale e di conseguenza di decapitare il desiderio umano di beatitudine. La censura della domanda religiosa è il rifiuto di interrogarsi sull’intero dell’essere; è la decisione di limitare la propria domanda di verità a singole regioni dell’essere medesimo. Una tale censura-decisione comporta inevitabilmente l’oscurarsi di ciò che l’Enciclica chiama il senso di Dio e dell’uomo (cfr. 21 e 22, 1). Si noti bene: non si parla di “conoscenza di Dio”. Si parla di qualcosa di più profondo del risultato dell’attività razionale propriamente detta. È la percezione che nell’uomo abita un Mistero che lo trascende (cfr. 22, 1) e che fa dell’uomo una realtà degna di venerazione.

La censura della domanda religiosa genera la decapitazione del desiderio umano di beatitudine, cioè una visione utilitarista e/o edonista della vita umana. Leggiamo attentamente ancora una volta un testo di san Tommaso (I, q. 2, a. 1, ad 1um): “è per noi naturale conoscere l’esistenza di Dio, confusamente… in quanto Dio è la beatitudine dell’uomo: l’uomo infatti desidera naturalmente la beatitudine e ciò che si desidera naturalmente, è conosciuto naturalmente”. Fra il desiderio, il conoscere e l’incontro con Dio c’è un rapporto molto stretto. Censurare la domanda religiosa comporta decapitare il desiderio di beatitudine; rassegnarsi all’utile e al piacevole comporta la censura della domanda religiosa. È la chiave di volta di ciò che l’Enciclica chiama il materialismo pratico, vera sostanza della nostra cultura. Il materialismo che è ateismo pratico: che Dio esista o non esista è perfettamente lo stesso, poiché nell’un caso come nell’altro, la vita umana non cambia. Il materialismo è utilitarismo/edonismo: non esiste nessuna bontà che non sia riducibile a ciò che è utile e/o piacevole.

Il secondo costo è stato l’eclissi della coscienza morale (cfr. 24). Per capire questo punto si deve dare, credo, al termine “coscienza morale” un significato più ampio di quello che esso ha tecnicamente nei trattati di Teologia morale. Qui si intende coscienza morale nel senso in cui per esempio lo intendeva Newman. “Intendo la nostra certezza che esiste il giusto e l’ingiusto, che certe azioni devono essere compiute e altre non devono essere compiute, che noi abbiamo dei doveri la cui inosservanza genera rimorso, che alla fine Dio è buono, sapiente, onnipotente e giusto e che noi dobbiamo sforzarci di obbedirgli” (in Parochial and Plain Sermons, Ignatius Press, San Francisco 1891, pag. 138). Ci rendiamo conto quale tragedia sia l’eclissarsi della coscienza morale in una persona umana? Questa eclissi consiste nel non vedere più la distinzione fra bene-male, giusto-ingiusto confondendolo con o riducendola alla distinzione fra utile-dannoso, piacevole-spiacevole. Consiste nel confondere il “dovuto” con ciò che produce le conseguenze più utili o più piacevoli. Tutti i grandi teologi medievali paragonavano la coscienza, così intesa, alla pupilla dello spirito o la chiamavano anche scintilla divina. Se si eclissa la coscienza morale, è la persona come tale che si è accecata e viene violato l’originario spazio in cui Dio inizia la rivelazione di Se stesso: l’uomo è solo.

La sconnessione della libertà dalla verità e la deformazione della soggettività, rese possibili dalla censura della domanda religiosa e dall’oscurarsi della coscienza morale, sono state il terreno fertile da cui è nata quella cultura che EV chiama cultura di morte (12, 1). Di che cosa si tratti ora non dovrebbe essere difficile capirlo.

Quando si parla di cultura si intende la tensione a realizzare sempre più la propria umanità e nello stesso tempo i frutti di questa tensione. Tenendo presente quanto abbiamo detto finora, questa tensione è orientata alla morte dell’uomo. C’è qualcosa di disperato in tutto questo: il ritenersi degni di morire, il ritenere la morte alleata dell’uomo. L’Enciclica richiama attentamente i frutti di questa disperazione. Basta riflettere un momento sul modo con cui è considerata la fertilità umana: un pericolo da scongiurare e dominare; sulla nobilitazione della contraccezione: è la liberazione della sessualità; sull’elevazione dell’aborto, omicidio vero e proprio, a diritto fondamentale della donna (cfr. 12-13).

 

2. “Siamo imbarcati”: l’impossibile neutralità

 

La nostra riflessione che doveva limitarsi al primo capitolo di EV potrebbe ritenersi conclusa. Tuttavia, mi sembra necessario riflettere almeno brevemente sulla nostra collocazione dentro a questa cultura di morte. È la posizione di chi non può essere neutrale.

Per capire questa impossibile neutralità riflettiamo un momento sul dialogo fra Eva ed il serpente (cfr. Gen. 2, 2-3). La donna è “sedotta” perché è condotta a pensare che non sia possibile essere liberi nella verità della creazione. Dentro a questa (supposta) aporia si incunea il tema della morte: la vita non è il frutto della connessione della libertà colla verità, ma il frutto di una indipendenza totale “nella conoscenza del bene e del male”. La sconnessione della libertà dalla verità della creazione è resa possibile dal sospetto che Dio sia invidioso (“Non è vero che... ma Egli sa bene che...). Un sospetto che muta radicalmente il volto del proprio Destino: la libertà e la vita deve essere conquistata contro una Forza che ti è nemica. Niente ha espresso con tanta potenza questa situazione dell’uomo come la tragedia greca e la sconfitta dell’uomo.

Per sapere dove siamo collocati, in questo scontro fra vita e morte, ci si deve alla fine interrogare se abbiamo o non abbiamo conosciuto il Padre. Giovanni definisce il mondo come ciò che non conosce il Padre. Il Padre si è dato a conoscere nel suo Figlio unigenito. E la vita eterna altro non è se non conoscere del Padre e del Figlio. In che senso allora ho parlato di una “impossibile neutralità”? Nel senso che trovandoci già noi “imbarcati” nell’esistenza non possiamo non dare il nome al Destino che ci ha posti. Nel momento in cui lo facciamo, o ci siamo alleati colla morte o siamo passati dalla morte alla vita.

Il Vangelo annuncia che l’uomo non è degno di morire, che la morte è nemica dell’uomo perché Dio ama ogni e singola persona umana. Solo la fede in questo annuncio vince la cultura della morte.