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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Josemaria Escriva, Solco, ed. Ares, Milano 1986, pp. 256.
Recensione comparsa sulla rivista Tracce, gennaio 1987


O la santità o la dannazione eterna, disse il santo Curato d’Ars, durante una delle sue famose catechesi. Egli enunciava una delle verità centrali della fede cristiana: l’Amore di Dio che, come insegna san Tommaso, è creativo del bene della creatura, non si ferma mai a metà strada, intende donare tutto. E solo il rifiuto dell’uomo può far fallire questa divina economia. Ciascuno è chiamato alla santità e l’ultimo atto della misericordia di Dio sarà il Purgatorio.

Leggendo la seconda opera di mons. Josemaria Escriva, è stato il primo pensiero che mi è venuto: la chiamata universale alla santità, per usare il vocabolario del Vaticano II. L’opera — Solco — appartiene a un genere letterario classico nella letteratura cristiana: brevi pensieri, com’è breve la folgorazione del lampo che illumina la nostra angosciosa notte. Schegge che penetrano nelle viscere dello spirito. Appartengono a questo genere la Filocalia, certi capitoli della Imitazione di Cristo, i Pensieri di Pascal, il Diario di Kierkegaard, per citare solo alcuni esempi classici. In un’epoca che di logorrea è ammalata come di malattia mortale, anche il genere letterario ci insegna. «Non multa, sed multum loqui» (non parlare molto, ma con intensità), scrisse sant’Ignazio. E pertanto il libro non si rivolge a chi sa solo leggere, ma a chi sa meditare. A chi — per usare l’espressione di san Bernardo — sa ruminare ciò che legge. Nella loro concisione, alcuni pensieri ci consentono di penetrare nelle profondità dello spirito, sono sintesi mirabili di sublimi verità di fede. Qualche esempio. «Per convincersi che è ridicolo assumere la moda come criterio di condotta, basta guardare qualche vecchio ritratto» (n. 48). Il giudizio è tagliente. L’elevazione del consenso maggioritario a criterio di verità etica, non solo sterilizza l’intelligenza, ma rende ridicolo il “caso serio” della vita, l’esperienza etica. È la caduta a picco dallo “stadio etico” allo “stato estetico“, direbbe Kierkegaard. «Sperare non significa cominciare a vedere la luce, ma confidare a occhi chiusi che il Signore la possiede pienamente e vive in questa chiarezza. Egli è la luce» (n. 91). È raro trovare una descrizione così semplice dell’esperienza fondamentale di Abramo, l’archetipo — per la Sacra Scrittura — di ogni credente e, dunque, dell’esperienza cristiana come elevazione ad un criterio veritativo, che è la stessa Verità divina. Un’elevazione che trasporta la persona umana fuori del dubbio, dell’incertezza che genera disperazione. «Fa’ che io mi conosca: che conosca me e che conosca Te. Così non perderò mai di vista il mio nulla» (273). Risuona la preghiera agostiniana (“Noverin me, noverim te”) in questa supplica. La misura dell’uomo è Dio stesso, poiché questo è il destino dell’uomo: non poter essere felice che divenendo più che uomo, in Dio. E nello stesso momento, confrontato colla sua misura incommensurabile, l’uomo scopre la sua nullità. Fuori di questo confronto, che Mons. Escriva chiede nella preghiera, l’uomo o cade nell’orgoglio (vede solo la sua grandezza) o precipita nella disperazione (vede solo la sua miseria). E per finire, un pensiero per chi va cercando impossibili mediazioni: «Non cedere mai nella dottrina della Chiesa. Nel fare una lega, quello che ci perde è sempre il metallo migliore» (358).

Volendo penetrare più profondamente nel segreto di un’esperienza unica, per cercare di coglierne alcune linee costanti, mi sembra che alcune costanti emergano chiaramente da questo intenso documento. Vorrei cominciare da una citazione di Thomas Eliot riguardante l’evento dell’Incarnazione: «Un momento non fuori del tempo, ma nel tempo, in ciò che noi chiamiamo storia: sezionando, bisecando il mondo del tempo, un momento nel tempo ma non come un momento di tempo. Un momento nel tempo ma il tempo fu creato attraverso quel momento: poiché senza significato non c’è tempo, e quel momento di tempo diede significato». Il grande poeta inglese riscrive poeticamente la formula di Calcedonia. Ebbene, mi sembra che la spiritualità di Mons. Escriva, come appare da questo libro, sia precisamente dominata (come ogni vera spiritualità cristiana) dall’evento del “Verbo che si fa carne”: perfetto Dio-perfetto uomo. Da questo centro si dipartono i vari raggi, attorno ad esso si costruisce tutto il “campo magnetico” della sua meditazione spirituale. In primo luogo, da esso deriva la progettazione dell’esistenza cristiana in sé considerata: un’esistenza perfettamente umana, un’esistenza divinizzata dalle virtù teologali. Di qui l’insistenza sulle virtù “umane” (si veda per esempio il n. 652), l’insistenza di un esercizio umanamente il più perfetto possibile del proprio lavoro, della propria professione.

San Tommaso scrive che ogni ingiusta detrazione al valore della creatura è una detrazione fatta all’onore dovuto al Creatore e, ancora, che Dio si glorifica dando alle creature il potere di agire come vere cause della loro attività. Mons. Escriva ha capito profondamente questa verità cattolica e il suo libro è un esempio insigne di vero umanesimo. Ma, nello stesso tempo, non cede di un capello sulla dottrina della mortificazione, gestazione e generazione della verità dell’uomo, in un modo a cui le nostre accomodanti orecchie non erano più abituate. «Non mettere ostacoli a Dio, finché non abbia fatto della tua povera carne un Crocefisso» (978). «Senza mortificazione non c’è felicità sulla terra» (983). E così questa spiritualità trova nella Santa Croce il suo centro: vista come l’atto redentivo, la regola prima e ultima dell’agire del discepolo. Perfetto uomo-perfetto Dio: l’uomo ritrova l’originaria verità e l’intera bellezza della sua dignità e vocazione ponendo l’occhio interiore sul Verbo fatto carne. In secondo luogo, da quel centro viene progettata la missione del cristiano nel mondo. La sintesi mirabile del Concilio di Calcedonia — diciamo: il centro della fede della Chiesa — comanda interamente questa costruzione, in un equilibrio che solo il santo sa raggiungere. Il cristiano non deve temere di entrare pienamente nel mondo: lo deve amare appassionatamente (si veda il pensiero 290). Per «contribuire a far sì che l’amore e la libertà di Cristo presiedano tutte le manifestazioni della vita moderna» (302). Nel mondo, ma non di questo mondo. Ed è precisamente questo che i “nemici della croce di Cristo” non sopportano. Sopportano dei cristiani, anzi li lodano, che si ritirino nell’ascolto della Parola, e in quest’ascolto si fermino; sopportano dei cristiani, anzi li lodano, che si impegnino nella promozione dei valori umani, sulla linea di un minimo comune denominatore, fissato di comune accordo nella luce del comune patrimonio culturale; sopportano dei cristiani, anzi li lodano, che si impegnino per gli ultimi, purché non lavorino per costruire una società, come cristiani, per far sì che gli “ultimi” non esistano. Ciò che non sopportano è che si entri nel mondo perché e come cristiani: testimoni di una Presenza che ha investito tutta la propria esistenza. Le ricorrenti campagne diffamatorie contro l’Opera voluta da mons. Escriva, se da una parte addolorano profondamente, dall’altra non meravigliano. Il progetto da lui tracciato della missione del cristiano non può essere sopportato perché l’Incarnazione è lo scandalo supremo, da quando quell’Evento è accaduto. Ci sono pensieri taglienti come lame d’acciaio al riguardo (cfr. i nn. 239, 241, 246, 247, 252).

Ma è possibile realizzare questo progetto? Tutto dipende dal “punto di partenza”. La prima serie dei pensieri (1-33) è, da un certo punto di vista, la più importante. Essa individua, precisamente, la sorgente: il consenso (mariano-ecclesiale: cfr, n. 33) a Dio, quel consenso (“il dono della mia libertà” - n. 11; come non ricordare la preghiera ignaziana: ricevi, Signore, tutta la mia libertà…?) che è come il seno che genera tutta la Chiesa; in tutta la varietà dei suoi carismi. In una parola: essere pienamente a disposizione di Dio. La suprema grandezza l’uomo non l’ha forse raggiunta là dove un corpo ed un’anima umani sono stati impersonificati dal Verbo? Solco è la via tracciata perché si verifichi in ciascuno di noi il paradosso di una libertà che si genera nell’obbedienza, perché l’universo dell’essere ritrovi in Cristo la sua originaria bellezza.