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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


SCUOLA E FAMIGLIA: QUALI RISPOSTE EDUCATIVE?
Mesola, 14 ottobre 1997

0,1. La ragione ultima dei nostro incontro sono i giovani. Più precisamente: il loro “disagio”, la diagnosi del loro disagio e le indicazioni per uscirne. Ma i nostri interlocutori questa sera non sono i giovani: non stiamo parlando a loro, ma di loro. Siamo noi adulti che questa sera ci dobbiamo mettere in questione di fronte al disagio giovanile. Metterci in questione: verificare se ed in che misura anche noi adulti siamo responsabili di questo disagio. E’ difficile “metterci in questione”, convertirci direbbe il Vangelo: scattano automaticamente meccanismi di difesa, di auto-difesa. Oppure, ci comportiamo come quel tale di cui parla la S. Scrittura, “un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio; appena s’è osservato, se ne va, e subito dimentica com’era” (Gc
1,23b - 24). Cioè: facciamo riflessioni pertinenti, e domattina stessa tutto riprende come prima, esattamente. Ma il fatto che l’Amm. Comunale di Mesola in collaborazione colla parrocchia abbia voluto programmare questi momenti di riflessine seria, sta ad indicare una serietà di impegno educativo e da parte dell’istituzione civile e da parte della comunità cristiana, che merita ogni sostegno.

0,2. In occasione del C.E.N. recentemente celebrato a Bologna, è stata fatta una ricerca sulla condizione giovanile. Alla fine di essa, ecco come viene descritta la “collocazione” del giovane dentro ai due ambiti educativi sui quali questa sera stiamo riflettendo. In primo luogo, la famiglia:

“La famiglia è diventata più isolata dalla parentela e al contesto sociale, spesso si frammenta ed implode. Il rischio delle rotture familiari è sempre in agguato, e i giovani lo percepiscono in maniera quanto mai vivida e sensibile. La conversazione familiare è meno «generazionale», sia nel senso che le generazioni si confrontano fra loro in famiglia più sulla base delle uguaglianze e dell’affetto che delle diversità e dell’esigersi a vicenda, sia nel senso che la trasmissione socioculturale da una generazione all’altra diventa più implicita, è lasciata più al caso.”

 E della scuola, la citata ricerca dice:

“I giovani la vivono come il luogo specializzato per le competenze cognitive che può dare, in breve come itinerario formale che è necessario percorrere per ottenere quei titoli senza i quali ci si troverebbe poi esclusi da certe possibilità di lavoro. Ma non molto di più. Di sicuro, la gran parte dei giovani non si attendono e non vedono la scuola come ambiente socializzativo, e neanche come comunità di amicizia, capace di generare una generazione, anche se valutano la scuola come un ambito in cui è necessario fare scelte «funzionali», cioè dettate dall’iter degli studi, alle quali annettono una certa importanza come stimoli alla propria competenza cognitiva.”

Nelle riflessioni che seguono, non parlerò della scuola. Mi limiterò a riflettere tenendo conto soprattutto della famiglia. Il tempo che abbiamo a disposizione non è tanto. Sono costretto a procedere in un modo ... un po’ apodittico. Ma trattarsi solo di una necessità dovuta al tempo e alla volontà di essere il più chiaro possibile in una problematica tanto complessa.

1. Comincio col formulare la mia ipotesi esplicativa-interpretativa del “disagio giovanile”; a rispondere cioè alla seguente domanda: quale è la radice ultima del disagio giovanile? La mia risposta è: perché i giovani non sanno più se e perché “vale la pena” di essere liberi. Non sanno più quale è il senso del loro essere liberi. si vedono come condannati al supplizio di una libertà insensata.
Vorrei fermarmi un momento per chiarire un poco il significato di ciò che ho detto, così che prima di dichiararvi d’accordo o contrari con questa ipotesi esplicativa del disagio giovanile, vi risulti chiaro ciò di cui parliamo e discutiamo. La libertà è una cosa ... strana. Lo vediamo quando tutti noi ci troviamo a vivere quei momenti in cui ... “non sappiamo che cosa fare”. Siamo liberi (cioè possiamo scegliere di fare A o il contrario di A), ma non sappiamo per che cosa, cioè in vista di che cosa siamo liberi. La libertà stessa chiede di essere orientata. Cioè: la libertà non è solo “libertà da ...” ma è in primo luogo “libertà per ...”. Nel momento in cui non so più orientare la mia libertà, nel momento in cui non so più perché, “in vista di che cosa” sono libero (non so che cosa fare), la libertà diventa insopportabile, poiché è la porta principale attraverso la quale entra nella vita la peggiore malattia spirituale: la noia, la noia di vivere (i Padri della Chiesa la chiamavano la tristezza). Ciò che dico è precisamente che oggi il disagio giovanile è il disagio di chi ha smarrito il significato della libertà: è un’immensa “tristitia cordis” che è penetrata nel loro cuore. Anche la già citata ricerca concorda sostanzialmente con questa ipotesi esplicativa (cfr. op. cit. pag. 280). Si potrebbero indicare molti segni per mostrare che questo è il nodo centrale del disagio giovanile. Non lo faccio poiché sono sicuro che nelle due serate precedenti a questa, questo è già stato fatto. Devo procedere con una certa sveltezza.

2. Se l’ipotesi esplicativa suddetta è vera, da essa deriva una conseguenza di enorme importanza riguardante le cause di questo disagio giovanile. La causa principale del disagio giovanile è stata una carenza, anzi un vuoto educativo. Spiego con una immagine. Immaginiamo una catena fatta di tanti anelli: l’uno tiene l’altro dal principio alla fine. Se se ne spezza uno, è l’intera catena che si divide in due tronchi separati. Si è spezzato l’anello che è costitutivo della proposta educativa, anzi dall’atto dell’educare. L’intreccio (ho parlato di anelli della catena) mirabile costituito fra chi educa e chi è educato è venuto meno. Ma perché il disagio giovanile trova la sua spiegazione ultima in una carenza, in un vuoto educativo?
La persona umana non decide di venire al mondo: essa è posta nel mondo. Lo stupore di fronte alla realtà genera nel cuore di ogni uomo neo-arrivato nel mondo, due domande fondamentali: dove sono arrivato? Il mondo in cui sono arrivato è buono o ostile? Cioè: la domanda sulla verità dell’essere è la domanda sulla bontà dell’essere. Vorrei che rifletteste profondamente su questa condizione umana. Se io mi trovo buttato in un paese, in un territorio che mi è completamente sconosciuto e ritengo di non poterlo conoscere, come posso muovermi in esso? dove vado? come ci vivo? Se io mi trovo buttato in un paese, in un territorio che mi è completamente sconosciuto e ritengo di non poter conoscere ciò che mi consente di vivere bene in esso e ciò che mi può danneggiare, come posso passare la mia vita in esso? vedete: la libertà (il potermi muovere nel mondo) diventa una condanna, se non conosco la verità ultima della realtà; se non so che cosa è bene, che cosa è male. Cioè: una libertà incapace di orientarsi, disorientata, è insopportabile.
 Venuto a vivere in un territorio che non conosco, devo essere introdotto in essa da chi già ci vive. L’introduzione della persona umana dentro la realtà si chiama educazione: educare una persona significa introdurla nella realtà, cioè renderla libera. La si rende capace di giudicare ciò che è vero e ciò che è falso, di giudicare ciò che è bene e ciò che è male; la si rende capace di amare il bene conosciuto. E questa è la libertà.
Che cosa è successo? E’ successo che si è prodotta una società fondata sul presupposto che ogni opinione ed il contrario di ogni opinione ha lo stesso valore; che l’uomo è mosso ad agire solo dal proprio tornaconto o utile individuale; che tutte le norme che regolano la convivenza associata sono pure convenzioni; che i criteri che regolano le scelte individuali di ciascuno sono dettate esclusivamente dai propri gusti. Si è prodotta una società relativista, utilitarista, convenzionalista, individualista. Cioè: un mondo nel quale il giovane non trova più risposta alle sue domande di fondo, da parte di chi le risposte doveva darle. E’ emersa una condizione giovanile carica di incertezze, incapace di prendere decisioni definitive, stracolma di informazioni, ma incapace di essere libera. Ecco: ho spiegato in che senso alla radice del disagio sta un vuoto educativo.

3. In questo terzo ed ultimo punto della mia riflessione cercherò di rispondere alla nostra domanda di questa sera: quale risposta educativa può offrire la famiglia?
Vorrei cominciare a rispondere, dicendo che non solo la famiglia può rispondere a questa situazione, ma che senza la risposta della famiglia ogni altra risposta è vana. Perché, in che cosa consiste la risposta propria della famiglia a questa condizione di disagio giovanile e perché senza la risposta della famiglia, le altre risposte sono in larga misura vanificate?
Quell’incontro con la realtà di cui parlavo precedentemente accade normalmente dentro alla famiglia: non parlo solo dal punto di vista biologico. Trattasi di un incontro profondamente spirituale (non so trovare un termine meno inadeguato): di una vera e propria generazione nel senso intero del termine. Ora se una persona non è generata, non esiste: ogni altra esperienza, è un vestito ... messo ad uno che non esiste. Ma nel processo generativo c’è chi genera: occorre una capacità generazionale; e c’è chi è generato: occorre una capacità di essere generato. E’ questo “intreccio generazionale” che costituisce la persona.
Una ricerca statistica ha dimostrato recentemente che i 2/3 delle famiglie hanno una sufficiente capacità di assicurare un corretto intreccio generazionale; in un 1/3 è decisamente compromessa (e sono pur sempre sei milioni di famiglie) (cfr. op. cit. pag. 319). Tuttavia... non possiamo affatto dormire sonni tranquilli: questa capacità sembra diminuire ogni giorno di più. Perché? perché la famiglia è costretta a vivere in quella società di cui parlavo prima: in una società che nei suoi confronti è eticamente indifferente. Ma non voglio addentrarmi in questo problema di rapporto famiglia e società.
 E’ dunque necessario un certo “distacco” della famiglia dalla società, nel senso che non può accettare l’ipotesi tutta da verificare (anzi sempre più contestata dai fatti) che uno è tanto più libero quanto più è ampia la possibilità di scelta senza criteri oggettivi. E in questo momento, la famiglia può ricuperare la sua capacità educativa propria.
 Ma questo distacco non è sufficiente. Anzi rischia, come i fatti stanno dimostrando, di fare della famiglia un luogo sicuro, un “nido” che evitando di criticare questa società, impedisce di fatto alla famiglia di educare il giovane ad una vera capacità critica.

Conclusione

Il “disagio giovanile” ci disturba, ci deve disturbare profondamente, perché sta dimostrando coi fatti la falsità di una definizione di libertà e di una concezione dell’uomo sulle quali noi adulti abbiamo costruito il nostro vivere associato. Una libertà che si afferma tanto più ampia quanto più sono le possibilità di scelte, senza che nessuna possa essere intesa come avente valore in sé e per sé e quindi non contrattabile. Una concezione dell’uomo secondo la quale questi non è persona che si realizza nella reciprocità, ma individuo che di realizza nell’affermazione di sé.
 Il “disagio giovanile ci sta costringendo ad un ripensamento radicale: sono dei ricercatori in un deserto. Nel migliore dei casi hanno l’oasi affettiva della famiglia. Come aiutarli ad uscire da questo deserto? Ma il problema posto così è mal posto: non si tratta di uscire dal deserto, ma di farlo rifiorire. Cioè: ridare il gusto di una libertà sensata, cioè orientata. Ricca di gioia perché abitata da un significato che è più forte della morte.
 “Quante strade esistono” ha chiesto un giovane al S. Padre a Bologna. “Una sola: Gesù Cristo” gli è stato risposto.