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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


RITIRO AI SACERDOTI
Galeazza Pepoli, 12 marzo 2009


Cari sacerdoti, ho ritenuto opportuno, in questo ritiro di Quaresima, che meditiamo sulla coscienza che Paolo aveva della sua missione apostolica. La sua scoperta ci aiuta nel cammino di conversione che mira a porre la nostra vita nella verità del ministero apostolico e la verità del ministero dentro alla nostra vita quotidiana.

Ho pensato di percorrere una via molto semplice: meditare brevemente su alcuni testi iniziali delle Lettere paoline, dove l’apostolo parla di se stesso e presenta se stesso. E questo sarà il primo punto della mia riflessione; nel secondo cercherò di fare alcune considerazioni "attualizzanti".

1. Seguo l’ordine canonico nel presentare il testo biblico.

→ [Rom 1,1.5]. Paolo ci presenta in primo luogo come caratteristica principale della sua persona la sua esclusiva appartenenza a Cristo, l’essere proprietà e possesso di Cristo. Ha legato la sua vita a un dominus e non appartiene a nessun altro.

Il secondo titolo è quello di "apostolo-chiamato". Se la prima qualifica poteva essere la conseguenza di una decisione di Paolo, questa dipende esclusivamente da un insindacabile e gratuito atto della volontà di Dio.

Il contenuto di questo titolo personale è subito specificato nel modo seguente: "prescelto per annunciare il Vangelo di Dio". È l’eco di altri testi biblici: cfr. Ger 1,5c; Is 49,1.3.6. In ogni caso qui tocchiamo forse il fondo dell’auto-coscienza dell’Apostolo, che rimanda ad un’elezione pretemporale.

L’elezione è in vista di un compito: annunciare il Vangelo. Il Vangelo che è "di Dio". Non è un genitivo oggettivo, ma soggettivo: Dio ne è l’autore e l’attore, precisamente mediante l’apostolo. La parola del Vangelo ha la sua origine e la sua potenza da Dio stesso.

A sua volta questa predicazione ha uno scopo: ottenere l’obbedienza della fede; cioè: ottenere l’accettazione umile e docile alla via della salvezza proposta da Dio in Cristo.

In sintesi. Paolo ha la coscienza di essere un eletto in vista di una missione: annunciare il Vangelo della grazia. Questa elezione l’ha consegnato interamente ad una persona, a Cristo. È diventato lo schiavo di Cristo.

→ [1Cor 1,1]. Ritroviamo gli stessi contenuti dell’autocoscienza di Paolo, ma con delle precisazioni importanti.

L’apostolato è visto come rappresentanza di Cristo, stabilita da una decisione del Padre. Ma in questa lettera è importante tutta la pericope 3,4-23. In essa infatti viene chiarita l’autocoscienza che Paolo ha nei confronti dei fedeli. Come definisce se stesso in rapporto ai fedeli?

L’apostolo è "proprietà" dei fedeli: è possesso loro. Capovolgere questo rapporto ["io sono di Paolo"…] significa non avere una fede matura, poiché alla fine tutto e tutti siamo proprietà di Cristo. È grave se un apostolo pensa che i fedeli siano suoi.

In sintesi. La "rappresentanza di Cristo" penetra così profondamente nell’autocoscienza di Paolo, che egli è coinvolto pienamente nella dedizione di Cristo ai fedeli.

→ La seconda lettera ai Corinzi deve esserci particolarmente cara poiché essa contiene la magna charta del ministero apostolico: 2,14-7,4. Fedeli al proposito iniziale, non ci fermeremo ad analizzare la lunga pericope. Tuttavia c’è una definizione particolarmente suggestiva dell’apostolo: "noi siamo … dinanzi a Dio il profumo di Cristo".

Partendo da una concezione abbastanza diffusa nell’antichità – l’odore come energia – l’Apostolo definisce se stesso come "il profumo di Cristo". Egli cioè diffondendo la conoscenza di Cristo, comunica in tal modo la vita divina. Data però l’obbligazione che la predicazione del Vangelo crea nell’uomo, l’Apostolo diventa anche occasione di condanna ["odore di morte, per la morte"].

Tutto questo viene detto nel contesto della concezione della diffusione evangelica intesa come il trionfo di Dio per mezzo di Cristo: a questo trionfo partecipa anche l’Apostolo.

→ [Gal 1,1]. La persona prende coscienza di se stesso anche contrapponendosi all’altro; definisce se stesso anche negando di essere altro.

La manifestazione che l’Apostolo fa della sua autocoscienza, è espressa in modo singolare. Dopo l’autopresentazione della sua qualità di apostolo aggiunge subito un "ma" avversativo. Paolo sente subito il bisogno di dire ciò che non è: apostolo "da parte di uomini né per mezzo di uomo". Il suo ministero ha una origine divina: origine immediata. Tutta la prima parte dell’epistola [1,11-2,21] si proporrà di dimostrare proprio questo.

Volendo sintetizzare tutto quanto ho detto finora, potrei dire così. L’auto-coscienza dell’Apostolo è come generata da tre grandi forze: il suo essere apostolo ha origine divina; il suo essere apostolo lo costituisce proprietà dei fedeli in ordine all’annuncio del Vangelo; il suo essere apostolo gli dona una forte identità ed indipendenza nei confronti di chiunque.

È assai educativo vedere ora, sia pure assai brevemente, in quale contesto esistenziale quest’autocoscienza è vissuta.

È un contesto che è attraversato da gioie e da dolori, e da prove molto gravi. Mi limito a ricordarvi le prove interiori di cui l’Apostolo parla anche in maniera palese. Paolo ci confida che vive momenti di depressione, di stanchezza, di noia del ministero, di fatica. Come è vissuto tutto questo?

→ Non viene mai meno la certezza della sua vocazione-missione. Al contrario, le difficoltà lo radicano più profondamente nell’assoluta certezza che Dio lo ha chiamato. Dalla coscienza di Paolo è totalmente alieno un pensiero del tipo: "ma forse non sono nella strada giusta; ma forse non è questa la mia vocazione".

→ Egli vede tutte le sue prove alla luce della sua comunione con Cristo: sono le sofferenze di Cristo in lui. È questa un’esperienza molto profonda che non abbandonerà più la Chiesa.

→ Tutto è vissuto in un amore indistruttibile per le comunità, per i suoi fedeli. Questa dimensione dell’esperienza paolina è commovente.

2. Vorrei ora offrirvi alcuni aiuti all’ "attualizzazione" di questa Parola di Dio. Lo faccio con tre considerazioni.

La prima considerazione è che pensare ad un ministero da cui la prova sia assente, è un’illusione molto pericolosa. E la prova è di duplice ordine: oggettivo e soggettivo. Oggettivo: è la condizione storica in cui oggi dobbiamo annunciare il Vangelo; soggettivo: la stanchezza, il dubbio, la tentazione, il "tedium vitae", come dicevano i Padri.

È ridicolo pensare: "ho problemi, dunque vado dallo psicologo". Siamo attori di un dramma divino-umano dove la psicologia ha ben poco a che vedere.

La seconda considerazione è che dobbiamo tenere sempre viva la consapevolezza della verità del nostro ministero. Paolo è al riguardo il più grande maestro [assieme al profeta Geremia].

Veniamo da una stagione teologica e di dibattito ecclesiale che non raramente sono stati devastanti per l’autocoscienza sacerdotale. Forse ne siamo usciti con qualche ferita. L’anno paolino è un grande dono di grazia per guarirle completamente.

La terza considerazione è molto semplice, ma è la più importante: non esiste che una felicità, quella di amare; non esiste che un’infelicità, quella di non amare. La logica della nostra esistenza è una sola: il dono di sé "usque ad effusionem sanguinis". Il resto è assolutamente secondario, e passa.