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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


La condizione giovanile
Rotary Club Bologna, 26 novembre 2013


Rispondendo all’invito del vostro Presidente, ho proposto di trattare il tema della condizione giovanile. Dico subito che non lo farò dal punto di vista della condizione economica [disoccupazione, precarietà…]. Come pastore mi interessa maggiormente la loro condizione spirituale.. E’ di essa che parlerò.

Per condizione spirituale intendo l’insieme dei fattori che costruiscono la coscienza che oggi il giovane ha di sé stesso. Parlerò, ripeto, di questo.

1. Il primo fattore lo denoto con una metafora: sradicamento. Quando un albero viene sradicato dal suo terreno, è destinato a morire perché è privato di nutrimento.

Nella vita della persona, di ogni persona, il terreno in cui essa si radica è la tradizione. Il giovane, oggi, vive sradicato dalla tradizione. Mi fermo a spiegare un poco questo punto.

Il termine "tradizione" denota due realtà. Denota in primo luogo il modo con cui un popolo si è collocato nella realtà della vita rispondendo alle grandi domande, dando così origine alla sua cultura propria. Il b. Giovanni Paolo II, ancora Arcivescovo, ha scritto: "il termine "cultura" è uno di quelli che sono legati più da vicino all’uomo, che definiscono la sua esistenza terrena e in certo qual modo denotano la sua stessa essenza" [cit. in St. Grygiel, Dialogando con Giovanni Paolo II, ed. Cantagalli, Siena 2013, pag. 19, n. 6].

Ma il termine "tradizione" denota però in secondo luogo anche il fatto della trasmissione di generazione in generazione della cultura. Vedremo fra poco dove avviene questa trasmissione, quali sono gli organi della tradizione.

La mia ipotesi interpretativa della condizione giovanile è che ad un certo momento la [trasmissione della] tradizione si è interrotta. Penso che l’evento della rottura sia avvenuto nel 1968.

Qualcuno potrebbe dire: "che male c’è in tutto questo? Si ricomincia tutto da capo". Il ricominciare tutto da capo è sempre stato l’utopia di ogni rivoluzione. Ed il secolo XX ha dimostrato quali sono gli effetti tragici di questa palingenesi: il lager nazista e il gulag comunista. Ma non è di questo che voglio parlarvi.

L’interruzione della tradizione è un vero e proprio tsunami nelle nuove generazioni. Sradicate dalla tradizione, esse si trovano a vivere come in un deserto privo di ogni indicazione stradale. Le nuove generazioni vengono private del loro passato, e quindi non hanno più un futuro. Chi non ha memoria, non ha speranza.

Voglio approfondire un poco questo punto. Quanto più la persona cresce, tanto più sente urgere dentro al suo cuore l’esigenza di rispondere alle grandi domande della vita. Radicata in una tradizione, la persona in formazione si trova in possesso di una proposta, che dovrà fare propria o rifiutarla. Ma se si trova in un universo privo di senso, quale termine di confronto possiede? Nessuno. Ora, per quanto il mare della vita sia spesso molto burrascoso, comunque la bussola indica il Nord. Se, però, la bussola stessa è "impazzita", non sai più dove vai.

"L’uomo sradicato, o peggio, privo di radici, non ha più letteralmente un ubi consistam, un fondamento, una base morale. Dentro di sé il vuoto di senso, fuori il deserto". [M. Stolfi in F. Kafka, La meta e la via, BUR, Milano 200, pag. 5].

2. Dove e come si trasmette una tradizione? quali sono cioè gli organi della tradizione?

Da un rav ebreo mi è stata raccontata la seguente parabola. Quando Dio sul monte Sinai stava per dare a Mosè la sua Legge, si fermò per un istante, e chiese: "quale sicurezza mi dai che la mia Legge sia osservata?" Mosè rispose: "i nostri santi Patriarchi"; "non mi basta" rispose il Signore. "I nostri profeti assicureranno che la tua Legge sarà osservata" continuò Mosè; "non è un’assicurazione bastante", rispose il Signore. Alla fine Mosè disse: "la metterò nella mani dei nostri bambini" e Dio concluse: "ora sono sicuro". E donò la Legge ad Israele.

La parabola è di grande significato. Essa dice che il primo e fondamentale organo della tradizione è la famiglia.

La progressiva de-costruzione dell’istituto famigliare ha coinciso col progressivo sradicamento dei giovani. Una de-costruzione che ha intaccato ed oscurato perfino l’evidenza originaria del rapporto uomo-donna.

Perché la famiglia è il primo organo della tradizione? Perché in essa la tradizione è vita. E’ questo un punto fondamentale. Non è attraverso un insegnamento che la tradizione viene trasmessa di generazione in generazione, ma nella comunione di una vita condivisa. Mi si perdoni l’esempio un po’ banale: una cosa è la teoria della guida; una cosa ben diversa è la scuola-guida, salire su un’auto e cominciare a guidare.

Per trasmettere certe conoscenze non è necessario vivere insieme: finita l’ora di scuola, ciascuno ritorna a casa sua. Ma per trasmettere le verità della vita è necessario vivere assieme. E. Stein scrisse: "quando le realtà spirituali aventi per oggetto la salvezza sono penetrate sin dalla più tenera infanzia od in forma appropriata dentro un’anima, le basi di una futura vita santa si possono dire bell’e gettate" [Scientia Crucis, Roma 1982, pag. 25].

Se dunque vogliamo che la condizione giovanile esca dallo sradicamento che la caratterizza, dobbiamo custodire, difendere, sostenere l’istituto famigliare fondato sul legittimo matrimonio fra un uomo e una donna.

Il secondo fondamentale organo della trasmissione della tradizione è la scuola. Non rifletteremo mai abbastanza sulla connessione molto stretta fra la scuola e la condizione giovanile.

Il problema oggi è che non vi è un modo univoco di pensare ed attuare questa connessione, perché non c’è risposta univoca alla seguente domanda: che rapporto esiste fra scuola ed educazione?

Molti oggi pensano – è la prima risposta – che non esista alcun rapporto fra la scuola e l’educazione della persona. La scuola non deve educare, deve formare. Deve cioè dotare la persona umana di quelle abilità o capacità che le danno il possesso degli strumenti necessari per compiere la sua funzione nella società. Si esprime questa tesi anche dicendo che il compito della scuola è il "come fare", e non "come vivere". E qui si vede come l’ideologia marxista, sconfitta sul piano economico e politico, ha vinto sul piano dello spirito del tempo, poiché l’Occidente ha ridotto l’agire della persona al fare.

Questa tesi può essere contestata sul piano teorico, sul piano della pura ragione. Non lo faccio, per non appesantire troppo il nostro incontro. Mi limito a mostrarne la non praticabilità. La proposta cioè di separare scuola ed educazione della persona non è praticamente possibile.

La scuola istituisce un rapporto fra la persona e l’insegnante molto particolare. E’ un rapporto di lunga durata: molto spesso di anni; è un rapporto di fiducia. Si presume che l’insegnante sia competente nella materia che insegna, certo. Ma come può una persona convivere per anni con un’altra persona, passando semplicemente del tempo "accanto" al giovane?

E’ inumano pensare che questo rapporto possa essere solo informativo; possa essere un rapporto che non presupponga nell’insegnante una profonda passione per il bene dell’altro. Un insegnante che mostrasse un disinteresse a questo livello della persona, renderebbe alla lunga la scuola un supplizio, un "ticket" che devo pagare per entrare colle carte in regola nella società.

Molti oggi vedono l’impensabilità e l’impraticabilità di una tale posizione. Ritenendo tuttavia che ogni progetto educativo avente dei contenuti precisi sarebbe lesivo della libertà dell’individuo, chiedono alla scuola l’educazione così detta neutrale. La scuola deve essere neutrale.

Oggi questa posizione è molto condivisa, e deve essere presa molto sul serio. Ci sono in essa due problemi molto importanti. Il primo è il rapporto fra libertà ed educazione. Il secondo è la questione della neutralità della proposta scolastica. Su questa seconda questione ora vorrei fermarmi.

Il termine "neutralità" ha in questo contesto il seguente significato: la scuola, nel suo impegno educativo, non deve educare a porsi quelle domande che possono condurre a risposte profondamente diverse; non deve proporre una precisa visione del mondo, della vita, dei grandi vissuti umani [matrimonio, lavoro, male, amore], a preferenza di altre. Neutralità significa non trasmettere nessuna risposta alle grandi domande della vita; oppure trasmettere semplici opinioni, affermando comunque che l’una vale l’altra. Ma "la ragione che costruisce opinioni ed ipotesi relega la primordiale parola sull’uomo ai margini della sua vita personale, non vuole ricevere il dono che è la verità" [St. Grygiel, op. cit., pag. 11]. Ed infatti stiamo costruendo una cultura che intende dispensare il giovane dal porsi la domanda sul senso della vita.

Dunque, non educare? No; ma – ritiene chi parla di "neutralità della scuola" - trasmettere solo valori formali, privi di contenuto [per es. rispetto, tolleranza…], ed il rispetto delle regole fondamentali di ogni convivenza.

Non ho il tempo di farvelo vedere, ma questa risposta al problema del rapporto scuola-educazione è la conseguenza dei due dogmi della modernità, esasperati nella post modernità, "che tutta la realtà sia costruita socialmente ed infinitamente manipolabile, e che la verità sia una nozione inutile perché la solidarietà è più importante della oggettività" [M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Bari 2012, pag. XI].

Partendo da questi presupposti, è inevitabile, perché logicamente coerente, che in un ambiente quale è la scuola, uno degli attori – l’insegnante – venga considerato prevaricante, se propone una visione del mondo a preferenza di altre. L’atto educativo se propone un progetto di vita diventa una prevaricazione. Deve quindi limitarsi a proporre un modello di convivenza in cui semplicemente ciascuno possa vivere il proprio individuale progetto di vita.

E qui la posizione che stiamo esaminando scopre una sua radice: l’individualismo, la concezione del sociale umano come coesistenza di soggetti naturalmente estranei. La globalizzazione dell’estraneità, parafrasando un detto di papa Francesco, è alla base di questo progetto della scuola neutrale.

Se vogliamo che il giovane esca dalla sua condizione di sradicamento, è necessario che la scuola esca dalla sua incertezza a riguardo della propria identità.

Il terzo organo della trasmissione della tradizione è la Chiesa in quanto soggetto pubblico di una precisa proposta educativa. Ma di questo non voglio parlare.

3. Alla mia riflessione possono essere mosse almeno due obbiezioni, l’una meno consistente, l’altra dona molto a riflettere.

La prima: "una tale posizione circa la condizione giovanile, quale è stata esposta sopra, è di carattere "conservatore"". A me personalmente sembra che le categorie "conservatore" – "progressista" abbiano scarso significato; e nessuno quando affrontiamo i grandi problemi dello spirito. Comunque teniamo pure questo vocabolario, se così vi piace.

La tradizione di cui ho parlato è la cosa più viva nella vicenda di un popolo, poiché – se le cose funzionano - essa è ri-presa, ripensata, e rivissuta ad ogni generazione. E la vita non è fatta di salti, ma è sviluppo nella identità.

La seconda: "una tale posizione circa la condizione giovanile sembra ignorare la libertà, dal momento che il malessere spirituale dei giovani è fatto dipendere dallo sradicamento dalla tradizione". L’obiezione è molto seria, ed è una delle radici della teoria della neutralità della scuola.

L’obiezione presuppone un’idea ed un’esperienza di libertà che sono astratte; non corrispondono alla realtà. La libertà non è mai un inizio assoluto, slegato da ogni appartenenza. L’uomo non è libero nella misura in cui non appartiene a niente e a nessuno.

Le tre grandi esperienze che hanno insegnato all’Occidente la grammatica della libertà sono state la liberazione del popolo ebreo dall’Egitto, la polis greca, l’ordinamento giuridico romano. Ora tutte e tre pensano la libertà come un bene che si condivide con gli altri. La libertà è sempre libertà dell’appartenenza ad un popolo; è sempre edificazione della polis attraverso il dia-logo; è un prendersi cura della res publica. Facendo proprio tutto questo, il Cristianesimo giunge a dire: la libertà è il servizio reciproco della caritas: è la porta d’ingresso nell’amore laborioso degli altri, per edificare insieme la città di Dio, la civitas Dei, e la città dell’uomo, civitas hominis. "L’amore è la liberazione della libertà, perché una libertà solo per sé sarebbe orribile" [K. Wojtyla, Raggi di paternità, in Tutte le opere letterarie, Bompiani, Milano 2003, 931].

Inoltre l’obiezione presuppone che ogni proposta educativa avente un contenuto sia una prevaricazione contro la libertà. Niente di più falso. L’esercizio della libertà implica sempre un confronto ragionevole con la proposta educativa: per acconsentirvi o per rifiutarla. Ma se il giovane non ha alcun punto o progetto con cui confrontarsi? Sarà inevitabilmente un Ulisse senza Itaca, un navigatore senza approdo. L’attrito dell’aria non impedisce all’uccello di volare, ma è la condizione del volo.

Concludo. La condizione giovanile non può lasciarci indifferenti. Non solo per l’ovvia ragione che in essa la posta in gioco è il futuro del nostro popolo. Ma anche e soprattutto per un’altra ragione. La condizione giovanile costringe noi adulti a porci di fronte alle nostre gravi responsabilità spirituali.