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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


XIX Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei
17 gennaio 2008, Istituto "Veritatis Splendor"


La riflessione sul divino comandamento enunciato in Es 20,7 "non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio" è condotta da noi cristiani in stretta correlazione colla prima domanda della preghiera del Signore: "sia santificato il tuo Nome". Ciò che cercherò di fare anch’io nelle seguenti riflessioni. Ma prima vorrei partire dalla descrizione di un’esperienza che sicuramente tutti noi abbiamo fatto, almeno qualche volta.

1. Quando incontriamo una persona, se desideriamo istituire una relazione non superficiale e provvisoria, le chiediamo quasi subito: "come ti chiami?". La conoscenza del nome dell’altro è la condizione fondamentale per entrare in un rapporto inter-personale, e il desiderio di "sapere il nome" nasce dal desiderio di superare l’estraneità dell’altro da me e di me dall’altro. È diventata una consuetudine quella di dire il proprio nome quando ci si incontra e ci si stringe la mano.

Non solo. La conoscenza del nome proprio dell’altro consente di chiamarlo, anche in mezzo alla folla: per far vedere che ci siamo, perché abbiamo bisogno, perché semplicemente vogliamo parlare con la persona chiamata. La conoscenza del nome rende possibile la "vocazione" e la "in-vocazione": chiamare ed invocare l’altro.

Ne deriva anche che se uno non vuole dare "confidenza" ad un altro, non gli dice il suo nome. Entrando in uno scompartimento del treno o sedendoci in aereo presso un altro passeggero, ci si limita al saluto e non ci si "presenta". È infatti una vicinanza totalmente casuale che non crea comunione fra le persone. "Ci si presenta", ho detto. È mediante la dizione del proprio nome che si diventa presente all’altro; che si apre lo spazio in cui due o più persone diventano presenti le une alle altre.

In alcuni ospedali ormai i singoli ammalati sono indicati e chiamati da medici ed infermieri con un numero. La spersonalizzazione è così totale: ciascuno deve rimanere nella sua solitudine. La si chiama privacy.

2. Vorrei ora cercare di penetrare un poco nel comandamento in connessione colla prima domanda del Pater noster, precisamente partendo dall’esperienza umana appena narrata.

Dobbiamo tener conto che non è semplicemente un muoversi nel senso del "come … così": diciamo dell’ et-et. Infatti la realtà stessa di Dio, non intesa solo in senso statico ma anche nelle sue esigenze e nella sua legge, ci spinge ad una decisione e ad una invocazione che riconosce il Deus sempre maior.

"Dimmi come ti chiami, quale è il tuo nome?": l’uomo può rivolgere una simile domanda al suo Creatore? S.Tommaso ha insegnato che esiste nell’uomo un desiderio naturale di vedere Dio [cfr. 1,12,1; 1.2,3,8], cioè – mi sembra di poter tradurre – di poterlo chiamare per Nome. Lo chiama "naturale". L’uomo è così costituito, così fatto che non può non rivolgere al suo Creatore la domanda: "come ti chiami? Quale è il tuo nome?". Ma nello stesso tempo in nessuna maniera può esigere che gli si risponda, semplicemente perché Dio è Dio e l’uomo è l’uomo. G. Bernanos ha espresso bene questa condizione dell’uomo: "Gira attorno ad un immutabile destino, come un pianeta attorno al sole. Ma come il pianeta stesso, è rapito col suo sole verso un astro invisibile. Non per il suo destino esso è misterioso, ma per la sua vocazione" [I grandi cimiteri sotto la luna].

H. De Lubac commenta: "raggiungerà mai questo "astro invisibile"? è realmente chiamato a raggiungerlo? Ha anche coscienza che è questo l’altro che attira? … vi è qualcosa nell’uomo, un certo infinito di capacità, che non permette di confonderlo con gli esseri, la cui intera natura ed il cui intero destino si iscrivono dentro il cosmo" [Il Mistero del soprannaturale, Jaca Book, Milano 1978, 170; ivi la cit. di G. Bernanos].

Il Creatore ha accolto questa domanda, ha risposto a questo desiderio, per una decisione assolutamente gratuita, rivelando ad Israele il suo Nome " perché sia proclamato su tutta la terra" [cfr. Es 9,16].

Decisione assolutamente gratuita perché il Creatore non deve nulla alla creatura. Ma anche e più profondamente perché dire all’uomo – ad Israele - il proprio nome, significa la volontà di Dio di allearsi con lui, di istituire con lui un patto di amicizia che può giungere ad una tale intimità da poter essere configurato come sposalizio. La rivelazione del Nome è assolutamente gratuita perché non l’uomo può superare l’infinita distanza che lo separa dal suo Creatore, ma Questi può decidere di chinarsi sull’uomo – su Israele: "Chi è pari al Signore nostro Dio che siede nell’alto e si china a guardare nei cieli e sulla terra?" [Sal 113 (112) 5-6]. La conoscenza del Nome comporta la comunione col Dio vivente ed in un certo senso coincide con essa. La presenza di Dio si realizza nella rivelazione del Nome e reciprocamente la rivelazione del Nome avviene dentro alla vicenda storica dell’alleanza con Israele. Nel fatto che Dio agisce, Egli rivela il suo Nome.

Se questa è la "logica" della rivelazione del Nome, cioè la assoluta gratuità, ne deriva che l’uomo non ne diventa mai il padrone. Il Nome non è a sua disposizione. Che cosa significa esattamente questa indisponibilità?

Penso che nessuno abbia pensato questa indisponibilità meglio di Gregorio di Nissa, nella tradizione cristiana. Soprattutto nelle pagine in cui medita sulla terza teofania dell’Esodo, quella della fenditura della roccia [cfr. Es 34,5-9].

Il Padre della Chiesa "precisa che Dio concede a Mosè la soddisfazione del desiderio di vederlo, nello stesso tempo in cui gliela nega, o meglio, gliela concede negandogliela. Perché Dio non avrebbe accordato a Mosè la soddisfazione del suo desiderio se gliela avesse data, dal momento che vedere Dio ha come conseguenza il fatto che chi lo vede "non desiste mai dal desiderio". Per questa ragione Mosè ha ancora sete di ciò di cui è stato saziato e supplica Dio che gli si riveli di nuovo, non nella forma in cui egli è capace di vederlo, ma quale Egli è (Vit. Moys., II, GNO VII/1, 114-115). Si tratta di una richiesta paradossale" [L. F. Mateo-Soco, Epektasis, in Gregorio di Nissa dizionario, Città Nuova, Roma 2007, 246].

Provo a dire le stesse cose più semplicemente, richiamandomi all’esperienza della indisponibilità della persona amata da parte della persona amante. L’amante desidera essere-con l’amata, per sempre; ha paura di perderla. Ma nello stesso tempo sente che se l’amata rimanesse con lui perché è "obbligata" a farlo, l’avrebbe già perduta. Dio rivela il suo Nome senza che l’uomo non ne possa mai disporre. Non nel senso che in realtà l’uomo, Israele, ignori il Nome: il dono è fatto per sempre poiché la fedeltà del Signore dura per sempre. Ma nel senso che la rivelazione del Nome non cessa mai di essere un dono, non perde mai la sua natura gratuita; e non ti consente mai di desistere dall’invocarlo.

3. "Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo" [Gv 17,6].

Nella preghiera sacerdotale alla fine della sua vita terrena Gesù sintetizza con quelle parole la sua missione. Gesù, nella parola e nell’azione, in tutta la sua persona, rende manifesto il Nome di Dio: porta a compimento la rivelazione che Dio fa del suo Nome all’uomo.

Tenendo presente tutto ciò che ho detto, ciò significa che Gesù porta a compimento la rivelazione dell’intimo mistero di Dio, la sua giustizia ed il suo amore: ha fatto conoscere il Nome perché ha dischiuso il mistero stesso di Dio.

Comprendiamo allora la preoccupazione fondamentale di Gesù nei confronti della sua futura comunità: "custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato" [11]. È l’apertura della stessa realtà divina che è fatta all’uomo nella conoscenza del Nome; è l’introduzione dell’uomo nella vita stessa divina che è offerta all’uomo nella conoscenza del Nome. Custodire nel Nome significa custodire dentro alla comunione col Padre, nello spazio santo della vita di Dio. E pertanto la preghiera termina: "e io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi ami sia in essi ed io in loro" [26].

Gesù continua la sua opera nella comunità dei suoi discepoli, far conoscere il Nome. Questa conoscenza viene calata nei credenti così che l’amore divino – l’amore cioè con cui Dio stesso ama – viene partecipato ad essi, dimora in essi e opera in essi.

Teresa d’Avila ha espresso stupendamente questa "dimora del Nome dell’uomo" quando scrive: "come se entri d’improvviso in una stanza tutta impregnata di profumi, non di una specie sola, ma di molte e diverse: non si sa quali siano, né donde vengono, ma se ne rimane del tutto compenetrati. Altrettanto mi sembra di questo nome dolcissimo del nostro Dio. Penetra nell’anima con tanta soavità che essa ne rimane pienamente soddisfatta senza tuttavia comprendere come, né da che parte le sia entrato un tal bene" [Pensieri sull’Amore di Dio 4,2].

È da questa esperienza che nasce la preghiera "sia santificato il tuo nome" e il comandamento "non pronuncerai invano il Nome del Signore tuo Dio".

Israele e la Chiesa sono entrati nel sacramento del Nome e si sono lasciati possedere da Esso. Ma il singolo può anche rifiutarsi di vivere "nel Nome": di lasciarsi possedere, di lasciarsi introdurre nell’Alleanza osservandone le esigenze. Il Nome che ci è stato detto viene santificato in noi se viviamo nell’Alleanza; se non viviamo nell’Alleanza che il Nome ci ha dischiuso, il Nome in noi è profanato.

È per questo che noi preghiamo che Dio stesso si prenda cura in noi del suo Nome; impedisca che la sua vera identità sia oscurata dalla nostra capacità di deformarlo; ci doni di rimanere sempre nella vicinanza da Lui voluta rivelandoci il Nome, con timore e tremore.

Alla fine, questa richiesta e questo divieto sono le due dimensioni complementari della esperienza del credente: "sia santificato il tuo nome", è Dio che rivela il suo Nome e santifica l’uomo; "non nominare il Nome invano", non è il Nome, il Mistero di Dio a ricevere vita e realtà dall’uomo. Il comandamento custodisce l’infinita trascendenza del Nome; la preghiera esprime l’esigenza più profonda dell’uomo: poter dire il Nome. Il comandamento sancisce l’inviolabile realtà del Nome; la preghiera balbetta l’infinito vuoto dell’uomo.

4. Israele e la Chiesa vivono in un mondo nel quale è praticamente scomparsa la capacità di percepire il significato della rivelazione del Nome: che cioè esista, possa esistere un Mistero che dica all’uomo il suo Nome senza che l’uomo possa disporne, ma nel quale egli possa trovare il senso ultimo di tutto ciò che esiste. La storia del progressivo indebolimento di questa capacità è molto complessa. Sarebbe ridicolo pensare di narrarla in poche parole. Il s. Padre Benedetto XVI ha più volte richiamato l’attenzione su due fatti che vanno congiuntamente considerati: la riduzione del pensare al pensare calcolante e la progressiva figura che il mondo è andato acquisendo, di essere un mondo fatto dall’uomo.

Custodire la santità del Nome di Dio è forse il più grande servizio che Israele e la Chiesa possono fare all’umanità di oggi in Occidente, perché non smarrisca se stesso nel deserto del nulla. Se perde il Nome, perde tutto e l’uomo entra in una solitudine senza rimedio, eterna.