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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


La fede salva la ragione
Udine, 5 aprile 2013


Mi sia consentito iniziare dalla citazione di un testo di Platone:

"trattandosi di questi argomenti [cioè: gli argomenti concernenti il senso della vita e della morte], non è possibile se non fare una di queste cose: o apprendere dagli altri quale sia la verità; oppure scoprirla da se medesimi; ovvero, se ciò è impossibile, accettare fra i ragionamenti umani, quello migliore e meno facile da confutare, e su quello, come su una zattera, affrontare il rischio della traversata del mare della vita; a meno che si possa fare il viaggio in modo più sicuro e con minor rischio su più solida nave, ossia affidandosi ad una divina rivelazione". [Fedone, 85 C-D]

È un testo mirabile. L’uomo che non voglia rinunciare alla sua nobiltà, non può non cercare la verità circa le questioni fondamentali della vita e della morte. Quale strumento ha di ricerca? La ragione; non ne possiede altri. L’uomo può usarla personalmente oppure apprendere da altri, ritenuti più sapienti, ciò che colla loro ragione hanno scoperto.

Ma non sempre l’uomo raggiunge, usando questo strumento, la verità; al massimo può arrivare a farsi un’opinione più o meno probabile; a formulare ipotesi più o meno fondate. Ed allora, che fare? Poiché siamo comunque costretti a fare la traversata del mare della vita, saliamo con timore e tremore su questa, la nostra ragione, che è una ben fragile imbarcazione: una zattera.

In realtà, ci potrebbe essere un’altra possibilità, che però rimane tale: che Dio stesso risponda alle nostre domande. La ragione non può andare oltre: lanciare un grido di aiuto alla divina Rivelazione. È di questa condizione della ragione umana che noi parleremo questa sera.

1. Prima di iniziare a trattare questo argomento, è necessario liberarci da un grave pregiudizio, il quale è talmente presente nella cultura in cui viviamo che siamo portati a condividerlo, senza alcun sospetto che si tratti al contrario di un grave errore.

Potrei formulare questo pregiudizio nel modo seguente: esiste una sola conoscenza che possa qualificarsi vera o falsa, la conoscenza scientifica. Chi dice qualcosa di non-scientificamente dimostrabile esprime solo opinioni non in grado di sostenere un confronto razionale, e dunque non sottoponibili ad un dialogo vero fra soggetti ragionevoli.

Spiego alcuni termini di questa formulazione. Se uno dice: "ho tot globuli rossi", fa un’affermazione verificabile o falsificabile attraverso una strumentazione tecnica, fondata e collaudata. Se uno dice: "è meglio subire un’ingiustizia piuttosto che compierla", fa un’affermazione che non è verificabile o falsificabile allo stesso modo. E fino a questo punto, tutti siamo d’accordo. Chi però ha fatto proprio quel pregiudizio continua dicendo: "poiché non è possibile dimostrare la seconda proposizione allo stesso modo, cioè collo stesso metodo con cui dimostro la prima, essa non può essere qualificata come vera o falsa".

Fatto proprio questo pregiudizio, non ha più senso parlare di religione vera o falsa, poiché le proposizioni che hanno un contenuto religioso non sono scientifiche.

Il pregiudizio scientista ha conseguenze devastanti sulla persona, e sull’esercizio della nostra ragione. Esso preclude la conoscenza di intere regioni del vivere umano che sono le più affascinanti; finisce coll’estinguere nella ragione il desiderio di conoscere la verità circa le questioni più importanti della vita. Se infatti sono convinto che ogni risposta alle medesime ha lo stesso valore oggettivo del suo contrario, perché dovrei andare alla ricerca? Se un uomo è perdutamente innamorato di una donna, fa di tutto perché ella corrisponda, solo se ha qualche speranza che ciò avvenga. Se non c’è alcuna speranza, alla fine vi rinuncia. Così è la nostra ragione. Essa è naturalmente innamorata delle verità supreme; ma se si convince che non ci arriverà mai; che esse sono indiscernibili dall’errore, o prima o poi l’amore si estingue e la ricerca finisce.

Che cosa produca nella vita dell’uomo il pregiudizio scientista, è stato espresso da Benedetto XVI nel suo discorso al Reichstag di Berlino il 22 settembre 2011: "La ragione positivista, che si presenta in modo esclusivista e non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio". Non si poteva esprimere meglio la chiusura, la limitazione che opera nella vita dello spirito il pregiudizio scientista.

Qualcuno, a questo punto, potrebbe chiedermi: perché è così importante in ordine alla fede cristiana non lasciarsi contaminare dal pregiudizio scientista? Per evitare di ridurre la fede ad emozione, sentimento, mera soddisfazione dei bisogni della natura umana; in una parola: a qualcosa che non ha nulla a che fare colla ragione, colla quaestio de veritate.

Mi spiego, ripetendo forse ciò che ho già detto, ma è molto importante. Se uno è "contaminato" da quel pregiudizio vi dirà: "le religioni non sono né vere né false, perché appartengono ad una dimensione dell’umano che non ha a che fare colla ragione. E’ questione soggettiva: ciascuno si tenga la propria nel privato della sua coscienza. Non è che non abbiate diritto ad averne una, secondo la tradizione in cui siete nati e l’educazione ricevuta; in modo analogo a come ciascuno ha fiducia in un medico piuttosto che in un altro, in una banca piuttosto che in un’altra".

Ora un tale modo di pensare è la morte della fede cristiana. Essa infatti si è sempre proposta ad ogni uomo e donna adducendo il fatto che ciò che dice, è vero. Cioè: è realmente accaduto che Dio ha parlato all’uomo; che Gesù di Nazareth è risorto; che la persona umana è eterna. Quando il cristianesimo dice: "Gesù è risorto da morte", non intende semplicemente dire che ci sono stati uomini [Pietro, Paolo …] e donne [Maria Maddalena ed altre] che hanno ritenuto che Gesù fosse risorto. Non intende esprimere attraverso un simbolo, un mito, un desiderio del cuore umano, che la morte non abbia la parola definitiva. Più semplicemente dice: "vi narro un fatto realmente accaduto…".

San Tommaso esprime stupendamente tutto questo, quando scrive: "l’atto del credente non termina alla proposizione [mediante la quale esprimo ciò che credo], ma alla realtà. Infatti non formuliamo delle proposizioni con nessun altro scopo se non per avere conoscenza per mezzo di esse della realtà. Così avviene nella scienza, così avviene nella fede" [2,2, q.1, a.2, ad 2um].

È dunque necessario guarire dal dogma scientista, se si vuole semplicemente ascoltare la proposta cristiana.

In che cosa consiste l’errore e l’anti-umanesimo di questo dogma? Esso è in se stesso irrazionale perché contraddittorio. La proposizione "solo la proposizione verificabile/falsificabile col metodo scientifico può essere qualificata o vera o falsa", non è dimostrabile scientificamente. Dunque secondo il presupposto scientista è una proposizione priva di senso.

È una posizione anti-umana: chi la fa propria si preclude un contatto conoscitivo con le regioni più sublimi della vita umana. La differenza tra libertà e licenza, fra mente e cervello, fra legge morale ed inibizione psicologica, non si può conoscere allo stesso modo con cui si conosce il numero dei globuli rossi o le cause di una sterilità. A chi non è convinto di questo sfugge gran parte della realtà, e non certo la meno importante.

Soprattutto a chi ha responsabilità educative mi sia consentito di dire che devono fare ogni sforzo per radere al suolo nella mente dei giovani l’idolo di una scienza elevata ad unica conoscenza della realtà, per riaprire la loro mente alle supreme bellezze dell’essere.

Esiste però una difficoltà profonda per guarire da questa malattia dello spirito, una difficoltà connessa colla struttura stessa della nostra persona. Le verità di cui parlava Platone, non sono scoperte dalla nostra ragione dentro segni o fatti così forti, così "sperimentabili empiricamente" come le verità scientifiche.

"La natura fisica si trova davanti a noi, manifesta alla vista … appellandosi ai sensi in un modo così inequivocabile che per noi la scienza che si fonda su di essa è tanto reale quanto il fatto della nostra personale esistenza. Ma i fenomeni che sono alla base "delle verità etiche" non hanno niente di questa luminosa evidenza."
[J.H. Newman, Il cristianesimo e la scienza medica, in Scritti sull’Università, Bompiani, Milano 2008, 955].

R. Guardini ha scritto:

"La verità costituisce il fondamento dell’esistenza e il pane dello spirito … Le verità di ordine inferiore hanno ancora efficacia in quanto l’istinto e la necessità le confermano; pensiamo per esempio a quelle che concernono gli immediati bisogni della nostra esistenza. Quanto più elevato è il grado a cui la verità appartiene, tanto più debole diventa la sua immediata forza costrittiva, tanto più lo spirito deve schiudersi ad essa in libertà" [cit. da M. Schmaus, Le ultime realtà, Ed. Paoline, Alba 1960, p. 243].

E la libertà può rifiutarsi.

Posso esprimere la stessa osservazione in un altro modo. Il termine "esperienza", base di ogni sapere umano non tautologico, denota due contatti assai diversi con un oggetto conosciuto. Può trattarsi di esperienza empirica. Essa è costituita dalla percezione sensibile di fatti esistenti, la quale per sé da origine alla conoscenza solamente del fatto osservato, ma accostata ad esperienze analoghe, attraverso l’induzione, ci conduce a conoscenze di carattere generale.

Ma esiste anche un contatto diretto con un oggetto conosciuto di natura diversa, contatto che chiamiamo esperienza intellettuale. Essa è costituita dalla percezione intellettuale dentro ad un fatto o fatti particolari di verità necessarie ed universalmente valide. Per esempio: l’ordinamento giuridico implica che la persona sia libera. Dentro un fatto – esistono gli ordinamenti giuridici – colgo una verità necessaria: poiché A [l’ordinamento giuridico], dunque B [la libertà umana].

Ora, l’esperienza sensibile è indubbiamente un approccio alla realtà più facilmente percorribile che l’esperienza intellettuale; ma le verità più importanti sono frutto di questa non di quella.

Quando dunque parliamo di ragione non la intendiamo nel senso inaccettabilmente ristretto che il pregiudizio scientista vuole imporci. La intendiamo come capacità di apprendere la realtà in tutta la sua ampiezza.

Che cosa dunque la fede ha a che fare colla ragione intesa nel suo senso più ampio? Nel titolo di questa riflessione abbiamo espresso questo "avere a che fare" con la parola "salvezza": la fede ha a che fare colla ragione perché salva la ragione. In che senso? In che modo? E’ ciò che ora cercherò di spiegare.

2. Parto da un fatto incontestato: la nostra ragione ha la capacità di porre domande alle quali è incapace di rispondere. È questa la grandezza [pone domande] e la miseria [è incapace di rispondere] della nostra ragione.

Volendo molto semplificare, mi sembra che queste domande, che una ragione vigile non può non porre, siano almeno cinque: l’inquietudine radicale dell’uomo; l’esperienza del male morale come negazione colla scelta libera della verità riconosciuta colla ragione; il destino finale della persona dopo la morte; il valore assoluto di ogni singola persona umana; il senso ultimo della storia.

Non verificherò la naturale condizione della nostra ragione riflettendo su tutte e cinque quelle grandi domande, ma mi limito a due esperienze o domande che ci è dato di vivere, e porci quotidianamente.

La prima: il senso ultimo della storia. La più seria difficoltà ad ammettere l’esistenza di un dio che si prende cura delle vicende umane, è la presenza nella storia umana di una tale misura di ingiustizia, di oppressione dei più deboli, di cinismo di chi esercita il potere, da farci seriamente dubitare che esista una provvidenza divina; che non sia il caso o la fortuna a guidare le vicende umane. Ma dall’altra parte nessuna retta ragione può pensare che l’ingiustizia abbia lo stesso diritto ad esistere che la giustizia; che la vittima sia da equiparare all’oppressore. In una parola: il bene deve esistere; il male non deve esistere. Ma la realtà smentisce quotidianamente questa esigenza.

All’interno della modernità si è cercato di dare una risposta a questa condizione sul piano pratico, vista l’impossibilità di risolverla sul piano del pensiero. Poiché non esiste un dio che fa giustizia, è l’uomo che è chiamato a farla. Non voglio ora richiamare la vostra attenzione su quali smisurate tragedie ha causato questa decisione non solo di agire con giustizia, ma anche di far trionfare la giustizia in questo mondo. Richiamo la vostra attenzione su un altro aspetto, che voglio esprimere con un’immagine.

La giustizia è fatta se… la torta è divisa in parti uguali, senza discriminazione alcuna. E chi è stato ingiustamente trattato perché si potesse produrre la torta, e non vive più? Non basta restaurare, o ipotizzare il trionfo della giustizia in un certo momento della storia, ma è necessario riparare anche ciò che è irrevocabilmente passato. Giustamente è stato detto che tutti i successi scientifici non potranno non farci sentire il gemito anche di un solo bambino trattato ingiustamente. Ma questo esigerebbe che i morti tutti potessero risorgere; che ci fosse come un giudizio universale nel quale la vittima è risarcita e l’oppressore punito; che ci fosse un bilancio integrale alla fine della storia; che Madre Teresa non finisse come Hitler: un pugno di polvere. La morte definitiva di tutto e di tutti sarebbe il segno inequivocabile dell’assurdità del reale.

Ma chi ci assicura che non sia così? Niente e nessuno sul piano razionale. Uno dei maestri dell’Illuminismo, I. Kant, non esclude, pensa che non possa escludersi "sotto l’aspetto morale, la fine perversa di tutte le cose" [cit. in Lett. Enc. Spe Salvi 19].

L’enigma della storia diventa indecifrabile per la ragione, la quale però non può non porre quelle domande; l’enigma cioè della fine e del fine della storia.

La seconda: l’inquietudine radicale dell’uomo. Agostino, parlando del desiderio più profondo che alberga nel cuore umano, il desiderio di una vita felice, di una buona vita, di una vita vera; di una vita tale da farci esclamare: "come è bello vivere", ha scritto un testo mirabile e molto profondo. Lo trascrivo.

"Quando… una cosa non riusciamo a immaginarla come è in realtà, certamente non la conosciamo; tutto ciò che s’affaccia al pensiero lo rigettiamo, lo rifiutiamo, lo disapproviamo, sappiamo che non è quello che cerchiamo, quantunque non sappiamo ancora che cosa sia specificamente… Se lo si ignorasse del tutto, non sarebbe oggetto di desiderio; e se d’altro canto lo si vedesse, non sarebbe desiderato né domandato con gemiti". [Lettera 130,14,27-15.28; NBA XXII, 105].

Ciascuno di noi vive spesso questa esperienza. La ricerca di una felicità vera fa sì che prima o poi sentiamo che ogni bene limitato non risponde pienamente al nostro bisogno: dunque abbiamo in noi come il presentimento di un bene possedendo il quale, il nostro desiderio sarebbe soddisfatto. Se così non fosse, non proveremmo mai quel senso di insoddisfazione. Ma nello stesso tempo, noi sperimentiamo solo l’illimitatezza del nostro desiderio, e non ancora il possesso di quel bene, ed ancora meno sappiamo chi/che cosa sia quel bene.

Questa seconda esperienza ci conduce alla stessa conclusione, espressa da Pascal nel modo seguente: "l’uomo supera infinitamente l’uomo". Cioè: la ragione umana pone inevitabilmente delle domande alle quali non è capace di rispondere; il cuore chiede inevitabilmente il possesso di un bene che non è in grado di procurarsi; la persona invoca una risposta che non è in grado di darsi da sola.

"L’uomo, a differenza di tutte le altre creature attinte dall’esperienza, è quell’essere che può e deve andare oltre se stesso. Il trascendimento della propria natura appartiene essenzialmente all’uomo" [M. Schmaus, Le realtà ultime, Edizioni Paoline, Alba 1960, 16].

La proposta cristiana si è offerta all’uomo, fin dal suo principio, come narrazione di un fatto accaduto in un luogo preciso in un determinato tempo: Gesù di Nazareth è Dio fattosi uomo, morto per noi e risorto.

Non mi è chiesto questa sera di spiegare questa sintetica narrazione del fatto cristiano; avrete sicuramente altre occasioni. Mi limito a proseguire il filo del mio discorso.

L’accettazione di quel fatto come fatto realmente accaduto e del senso che esso ha per l’uomo è ciò che noi chiamiamo fede.

Quel fatto se accettato risponde alle due grandi domande della ragione: è possibile una vera felicità? Tutta la vicenda umana, la storia ha in sé un senso che troverà definitivo compimento? È possibile una vera felicità, perché è possibile incontrare e lasciarsi possedere da Dio stesso che in Gesù è venuto per donarci, precisamente, la vita eterna.

La storia è opera della libertà dell’uomo e per questo ciascuno sarà giudicato da Cristo come meriterà; ma è anche al contempo opera di Dio, che fa cooperare tutto al bene di coloro che lo amano [su questo Kierkegaard ha scritto una pagina molto profonda: Diario, 1854, XI2 A98, trad. it. t.II , 656 ss].

La fede mi svela che l’umanità come comunità umana; che la storia come totalità stanno sotto il dominio salvifico di Dio in Cristo. Esso consiste nella chiamata di tutti gli uomini, della storia, del mondo a partecipare alla gloria del Risorto. È questa direzione, è questa destinazione che dà un senso unitario alla Storia. Essa non è "molto rumore per nulla"; non è una "commedia recitata da idioti" priva di senso. È un drammatico incontro fra la potenza trasfiguratrice del Risorto e la libertà dell’uomo.

Questa destinazione, questa finalizzazione è prodotta dal dono dello Spirito Santo, dalla sua presenza nel credente.

Perché dunque la fede salva la ragione? Perché non le chiede di estinguere il suo slancio verso una verità totale; di rinchiudersi dentro alle percezioni sensibili. Ma anche perché le chiede di non elevarsi a misura ultima della verità; di non ritenersi in grado di giungere ad una verità totale e totalizzante [la casa di cemento senza finestre, di cui parlava Benedetto XVI].

Che cosa accade alla ragione quando rifiuta la salvezza che le viene dalla fede? Quando ritiene di non aver bisogno di nessuna salvezza, ma di bastare a se stessa? Lo abbiamo sotto i nostri occhi, poiché nella vicenda della modernità la ragione e la fede hanno divorziato, con danno grave reciproco. La fede senza ragione è cieca, poiché il Signore non ha dato altra facoltà di conoscere la verità che la ragione, e rischia di corrompersi in superstizione. La ragione senza la fede rischia di elevarsi a misura suprema della realtà, o di rifiutarsi a porre le domande che sole meritano un interesse supremo, lasciando l’uomo in balia del potere e della fortuna, del caso e di un destino senza senso. Leopardi dice "l’oscuro poter che a comun danno impera" [A se stesso]

3. Vorrei ora mostrare un altro aspetto della salvezza della ragione compiuta dalla fede, di più immediata rilevanza nella nostra vita quotidiana. La fede salva la ragione nel senso che aiuta questa a scoprire realtà che sono de jure alla sua portata, ma de facto la ragione da sola non le ha raggiunte. Il tema è molto ampio e suggestivo.

Sono "verità razionali, arrivate dentro la storia in questo modo, sono come stelle spente uscite da un Fuoco che non diminuisce mai, come scintille spente sfuggite da un roveto sempre ardente. Non si tratta dunque in alcun modo d’immaginare dei pezzi interi di verità rivelate che cadono direttamente dal dominio della fede in quello della ragione (…), secondo lo schema volgarizzato da Lessing, ma al contrario di vedere in certe verità razionali dei residui provenienti dalla Verità della fede, che perdono in questo passaggio la loro qualità religiosa" [H. de Lubac, Redence dans la foi, Beachesne, Paris 1979, 152].

Mi limito a due verità di questo genere.

3,1. Uno dei fatti culturali più importanti accaduti in Occidente è stata la scoperta della categoria concettuale di persona. L’Occidente prima della proposta cristiana non aveva avuto la percezione di questa realtà; fuori dall’ambito dell’influenza cristiana non esiste neppure.

È molto significativa l’affermazione di Platone: "L’universo non esiste per te, ma tu per l’universo" [Le Leggi X 903 C]. Ed Aristotele: "Vi sono altre cose più divine dell’uomo per natura, come, per restare alle più visibili, gli astri di cui si compone l’universo" [Etica a Nicomaco VI 7; 1141a 34 seg.].

In che cosa consiste esattamente questa scoperta? Nel vedere colla propria intelligenza che "essere qualcuno" è essenzialmente diverso ed infinitamente superiore che "essere qualcosa". È la scoperta che sul piano dell’essere la persona non è equiparabile a nessun altra realtà esistente.

Da ciò è derivata la consapevolezza che nessuna persona può mai essere semplicemente usata, cioè trattata unicamente come un mezzo per raggiungere uno scopo diverso dalla sua propria perfezione.

È derivata la consapevolezza che sul piano dell’essere ogni persona è uguale all’altra. Nessuna persona è più persona che un’altra, e quindi nessuna persona ha un valore maggiore di un’altra.

Tutto questo che ho detto finora nel linguaggio comune è detto in modo sintetico: la dignità della persona. Tutto ha un prezzo; solo la persona ha una dignità.

Perché il cristianesimo è giunto a questa conclusione? Dalla considerazione di quell’evento che è il contenuto centrale della fede cristiana: Dio in Gesù rivela un amore infinito per ogni uomo. La conseguenza era immediata: se Dio si interessa tanto dell’uomo, vuol dire che ogni uomo ha una preziosità incomparabile.

Una volta che il cristianesimo ha detto all’uomo tutto questo, e lo ha detto soprattutto colla carità, la ragione umana si è ritrovata pienamente in questo discorso. Ha detto: "è vero: è esattamente così". Non si è trovata di fronte ad affermazioni che superavano le sue forze conoscitive.

3,2. C’è un altro ambito nel quale la fede salva la ragione nel senso che stiamo dicendo: l’ambito della conoscenza morale.

La conoscenza morale è la conoscenza della verità circa il bene/il male della persona umana come tale. "Come tale", ho detto. Posso infatti considerare la persona umana come un organismo vivente psico-fisico, ed allora il suo bene è la salute e la conoscenza di esso è la medicina. Posso considerare la persona umana come cittadino di uno Stato, ed allora lo conoscenza di essa è la scienza politica. La conoscenza morale invece riguarda la persona umana come tale. Se tu sei intemperante nel cibo fai male alla tua salute: questo te lo dice la medicina. La conoscenza morale ti dice: è un comportamento contro la dignità della tua persona, perché è un comportamento irragionevole. Fai male a te stesso.

Ora anche alla luce di una conoscenza superficiale della storia umana, vediamo quanta difficoltà incontra l’uomo nella ricerca della verità morale, in quanti errori incorre. Così che non raramente non riuscendo a vivere come pensa, finisce col pensare come vive, e a giustificare anche vere e proprie aberrazioni.

Pascal ha scritto pensieri straordinari al riguardo. Ve ne leggo alcuni.

"Giustizia. Come la moda determina il piacevole, così determina la giustizia."
[ed. Brunschvicg, 226]

"Ridicola giustizia, delimitata da un fiume! Verità al di qua dei Pirenei, errore al di là"
[237]

Si pensi alla giustificazione della tortura, dell’infanticidio, della schiavitù, ed altro ancora.

La fede ci aiuta a comprendere qual è il vero bene dell’uomo; ci libera da molti errori morali.

Concludo. Nel momento decisivo del suo cammino verso la Chiesa Cattolica, il beato J. H. Newman scrive: "L’unica questione era: che cosa dovevo fare? Dovevo decidere da solo; gli altri non potevano aiutarmi. Decisi di lasciarmi guidare non dall’immaginazione, ma dalla ragione". [Apologia pro vita sua, Edizioni Paoline, Milano 2001, 259].

Il testo è mirabile: le scelte più intimamente religiose non possono essere fondate principalmente sulle emozioni di qualche momento, su bisogni psicologici confusi con esigenze spirituali. Debbono essere fondate sulla incondizionata esigenza della, e obbedienza alla verità.

"L’uomo infatti che si sente fatto per la felicità, a cui lo destina con l’infinita apertura dell’essere l’insaziata brama di vita e di amore, si sente sbarrare la via da ogni parte di fuori ed insieme angustiare di dentro dai contrasti dell’io, dalle sue passioni, oscurità e segreti timori" [Cornelio Fabro, L’uomo e il rischio di Dio, Ed. Studium, Roma 1967, 485].

A questo uomo la Divina rivelazione offre la possibilità di incontrare il Tu Assoluto, e passare dalla zattera ad una nave ben più sicura per la traversata della vita.