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LA PERSONA UMANA: ASPETTI TEOLOGICI
15 dicembre 1996

[Aldo Mazzoni (ed.) A sua immagine e somiglianza?, Città Nuova Editrice, Roma 1997, pagg. 76-90]

 Il riferimento alla persona nel dibattito bio-etico è andato sempre più crescendo fino a divenire il riferimento giustificante centrale. Ciò che si afferma o si nega come soluzione giusta di un problema è affermato o negato in quanto fondato sulla, esigito dalla (dignità della) persona.
 Il fatto di questo consenso argomentativo in realtà spesso non va oltre ad un mero consenso nominalistico, come è dimostrato dal fatto che il riferimento alla persona giustifica spesso nei dibattiti della bioetica soluzioni contrarie allo stesso problema. Dunque assistiamo ad un’enfatizzazione retorico-argomentativa della persona cui s’accompagna un vuoto pressoché totale di contenuti pacificamente consentiti. Al punto che non manca chi pensa che il concetto di persona sia “convenzionale”, nel senso che il suo contenuto deve essere prima deciso da una convenzione statuita fra chi entra nella discussione bioetica.
 Mi chiedo come il teologo possa entrare in un tale “areopago teoretico”: è la domanda alla quale cercherò di rispondere nel presente contributo.

1. La costruzione cristiana del concetto di persona

 E’ fuori discussione che si debba alla teologia cristiana la nascita e la compiuta elaborazione del concetto di persona. La teologia nell’attuale confusione nominalistica che regna in bioetica, può e deve richiamare in primo luogo a riflettere sulla nascita e sulla costruzione del concetto di persona. Non è qui il luogo per percorre, né è necessario farlo, l’intera vicenda teoretica. E’ sufficiente ricordarne i nodi essenziali.
 Come è noto, l’elaborazione del concetto di persona si impone all’interno di una intelligenza del mistero della Incarnazione del Verbo e del mistero della Trinità. Intelligenza che, come sempre accade nella riflessione teologica, risponde a due preoccupazioni fondamentali. L’una consiste nell’avere una “degna intelligenza dell’Amore” (S. Gregorio Magno) che si rivela: capirne sempre più profondamente l’intima natura escludendo ogni impurità (eresia) dalla sua visione. L’altra consiste nel mostrare a chi non crede l’intima ragionevolezza della fede. L’elaborazione poi del concetto di persona all’interno della intelligenza del mistero dell’Incarnazione non risponde precisamente alla stessa difficoltà che pone l’intelligenza del mistero della Trinità.
 Per quanto riguarda il primo, il credente si trova di fronte ad un duplice ordine di affermazioni o descrizioni di fatti, irriducibili l’uno all’altro, ma che in un qualche modo “riguardano” lo stesso Gesù di Nazareth. L’uno connota una “condizione” divina, e l’altro una “condizione” umana. Il nodo teoretico da risolvere, o meglio prima che questo, la confessione ortodossa della fede esigeva di precisare con estremo rigore il senso ed il modo in cui quel duplice ordine di affermazioni si riferiva allo stesso Gesù di Nazareth.
 Per quanto riguarda il mistero della Trinità Santa, il problema teoretico e l’ortodossa confessione della fede esigeva un impegno ancora maggiore. Era necessario salvaguardare sia l’assoluta “individualità” delle Tre Tersone divine sia il loro possesso della stessa identica natura divina: passare fra la Scilla del modalismo (tre “modi” diversi di rivelarsi dell’unico Dio) e la Cariddi dell’abbandono del monoteismo.
Percorriamo sinteticamente questa affascinante (la più affascinante nella storia del pensiero!) vicenda teoretica nei suoi momenti essenziali.
Il primo momento è costituito dall’intelligenza della distinzione (non chiara fino ai Padri cappadoci) fra ousia, essenza o natura e ypòstasis, letteralmente sostrato o “qualcosa che sta sotto”. Col primo si connota tutto ciò che può essere posseduto, meglio partecipato da più individui; col secondo si connota la realizzazione unica del possesso, della partecipazione di ciò che è comune. Per misurare lo sviluppo che l’intelligenza compie quando vede questa distinzione, si pensi che il concetto di persona in latino, prosopon in greco, aveva un contenuto esattamente opposto. Fino ad allora esso connotava “le diverse identità che possono essere attribuite ad un essere umano, nei diversi contesti e nelle diverse situazioni, a seconda del ruolo che è chiamato a svolgere in queste situazioni” . Da ora in poi, nel vocabolario cristiano significa l’irriducibile identità ed unicità di un individuo. Ma non è tanto su questo “salto” che voglio richiamare l’attenzione, quanto sul significato che quella distinzione ha per una comprensione dell’idea di persona. Questa connota quel centro unico di attribuzione, al quale devono essere riferite tutte le operazioni compiute dall’individuo che le unifica in senso sincronico, permanendo diacronicamente “al di sotto” (sostrato) di esse. Si usa ancora per il momento un linguaggio metaforico che dovrà essere poi via via rigorizzato dal punto di vista concettuale. Moravia mostra in L’enigma dell’esistenza che attraverso un percorso spesso tortuoso, il ricupero del concetto di persona (o di un concetto assai affine) nella riflessione contemporanea avviene precisamente in questa direzione. Avviene cioè come recupero di un “referente” o “titolare” delle varie esperienze vissute dall’uomo . E’ un fatto singolare nella vicenda teoretica del concetto di persona. Dopo lo smarrimento che di esso si è avuto, si ricomincia esattamente dal punto in cui cominciò coi Padri cappadoci la costruzione stessa del concetto di persona.
Il secondo momento  è costituito dalla riflessione agostiniana, sia quella condotta sul mistero trinitario (cfr. soprattutto De Trinitate, 7,4,7-9; NBA IV, pagg. 306-312) sia quella condotta sul mistero dell’Incarnazione. La speculazione agostiniana mostra al riguardo una notevole incertezza: ignorava i risultati della riflessione dei Cappadoci. Incertezza dovuta certamente ad un vocabolario ancora fluttuante. Tuttavia l’apporto agostiniano è decisivo, mi sembra, da un duplice punto di vista. La scoperta dell’interiorità, o meglio la complessa costruzione di una metafisica dell’interiorità fa definitivamente guadagnare al pensiero cristiano la certezza della persona come io, centro di decisioni libere. Inoltre di conseguenza è dovuto ad Agostino il passaggio analogico dalla concezione di persona in Dio all’idea di persona attribuito all’uomo.
Il terzo momento porta a compimento la riflessione dei Padri ed è costituito dalla riflessione di Tommaso d’Aquino sul concetto di persona, elaborato attraverso una progressiva rigorizzazione della classica definizione boeziana. Le vie di questa rigorizzazione mi sembrano le seguenti.
La prima è l’affermazione della perfetta “sussistenza” della persona. Perfetta ha qui un significato assai preciso: il modo di essere connotato dalla sussistenza raggiunge colla persona il suo grado massimo. La modalità del sussistere esclude in primo luogo l’appartenenza nell’essere ad altro, come avviene al modo di essere proprio di una qualità accidentale di una qualsiasi realtà. Il colore bianco è sempre il colore bianco di qualcosa: della pagina su cui sto scrivendo o della parete che mi sta di fronte. La persona esistendo in se stessa è di se stessa (persona est sui juris).
La seconda via percorsa da Tommaso nel suo processo di rigorizzazione del concetto di persona è il seguito della prima. La sussistenza della persona è intensivamente di grado superiore a quella di qualsiasi altro individuo non personale, dal momento che le persone “habent dominium sui actus et non solum aguntur sicut alia, sed per se agunt” (1, 29, 1c). La libertà - è di questa che Tommaso parla - rivela (non costituisce) il modo di sussistere proprio della persona: il suo essere in se stessa e per se stessa in modo tale da non poter mai appartenere ad altro. La libertà svela un grado di essere assolutamente singolare (la persona “significat singulare in rationalibus substantiis”, ibid.): tutto questo non è retorica personalista, ma è pura metafisica dell’essere-persona. In sintesi: “il modo di essere della persona è il più degno di tutti perché essa è ciò che è, per se stessa” (Qq. Disp. De potentia IX, ad 4um), come è svelato dalla sua libertà. La persona non esiste solo in se stessa come ogni individuo. E’ importante richiamare quali “appartenenze” ontologiche escluda, secondo Tommaso, il modo di essere proprio della persona. La prima esclusione è l’appartenenza della “parte” al “tutto”: la persona non “comunica” col tutto come fosse una parte . Essa stessa ha ragione di tutto in forza della sua stessa sussistenza. Una conseguenza immediata di questa prima incomunicabilità della persona è che fine ultimo della persona non può essere il bene dell’universo, poiché la persona (il bene  della persona ed il bene che è la persona) trascende l’universo intero (cfr. 1,2, 2, ad 2um). In questo senso, guadagnare tutto e poi perdere se stesso, è somma stoltezza.
La seconda esclusione è l’appartenenza dell’individuo alla specie: la persona non “comunica” come il “particolare” (l’individuo) con l’universale. L’affermazione (in senso metafisico, non ancora etico) della sussistenza della persona coimplica l’affermazione della superiorità sul singolo sul “genere”. Non a torto Kierkegaard vede in questo la presenza o meno in una visione dell’uomo, del primato della persona. Anzi il carattere cristiano o pagano di un pensiero.
La terza esclusione è l’appartenenza della persona ad una altra persona, nel modo di chi ne diventa “oggetto di appropriazione”: la persona non “comunica” con le altre persone nella modalità propria con cui la cosa appartiene alla persona. Il testo tomista è di rara finezza, poiché pone il problema (metafisicamente difficile) del rapporto della “comunicazione inter-personale” nella preoccupazione fondamentale del rispetto della persona nel suo essere proprio (sussistere). Non è cioè la comunicazione che pone problema, è che la comunicazione accade fra le persone. Che essa sia ricchezza dell’essere personale. Ritorneremo più aventi su questo tema.
Dunque: Tommaso chiarisce, rigorizza il concetto di persona attraverso una definizione metafisica di questa, cioè attraverso una rigorosa definizione del suo modo proprio di essere. Positivamente è il modo proprio di essere in sé e per sé quale ci è svelato pienamente dall’atto libero. Negativamente è l’esclusione della persona di un modo di “comunicare” con l’altro da sé che coimplichi la negazione di questa appartenenza della persona a se stessa, del suo essere cioè in sé e per sé. Usando un vocabolario forse più vicino ai nostri gusti linguistici, ma forse più equivocabile, si potrebbe dire così. la persona è l’unico essere dotato di assoluta singolarità, unicità, irripetibilità ed irriducibilità.  Ma l’approfondimento tomista non si limita a questo.
La terza via percorsa da Tommaso nella sua rigorizzazione del concetto di persona risponde alla domanda su ciò che costituisce la persona nella sua singolarità, unicità, irripetibilità ed irriducibilità. Abbiamo già visto come Tommaso ponga il modo particolare di sussistere proprio della persona in rapporto col dominio che essa ha dei suoi atti, colla sua libertà. Se agisce per sé, non solo spinta da altri, ciò significa che la persona non solo è in sé come ogni individuo, ma anche per se stessa: la modalità dell’agire esige la stessa modalità dell’essere.
Da ciò si deve concludere che la persona deve il suo essere in sé e per sé, il suo sussistere, al suo essere spirito. Solo lo spirito può essere persona. Solo lo spirito infatti è in sé e per sé, e non nella e per le parti che lo com-pongono, essendo l’essere spirituale semplice. Da ciò si deve pure concludere che la persona umana è puramente e semplicemente il suo spirito? Si deve concludere che il corpo non è la persona, non entra nella costituzione della persona? L’affermazione della singolare unicità, individualità della persona si incrocia con due tesi fondamentali nell’antropologia di S. Tommaso: la tesi secondo la quale il principio di individualizzazione all’interno della stessa natura o essenza in cui entri come costitutivo la materia, è la materia; la tesi secondo la quale ciò che distingue uno spirito umano da qualsiasi altro, è il suo essere ordinato ad unirsi a questo corpo e non ad un altro. In conclusione, “persona ... nella natura umana significa questa carne, queste ossa, quest’anima che sono principio d’individuazione per l’uomo” (1,29,4c; cfr. anche ib., 2, ad 3um). La persona umana è dunque questo soggetto umano nella sua concretezza fisica, psichica e spirituale. Trattasi di una realtà unita al suo interno pur essendo composta di materia e spirito. L’atto di essere che appartiene allo spirito viene comunicato al corpo, così che “l’essere per sé dell’anima spirituale diviene l’essere per sé della persona stessa nella sua totalità psico-fisica e nella sua individualità”  . La persona umana è precisamente questa totalità che esiste in sé e per sé a causa del suo essere spirito. Di conseguenza questo stesso spirito separato dal corpo a causa della morte è sempre un soggetto, un io, che però non può più essere qualificato come persona umana: dice infatti ordine ad un corpo, al suo corpo.
In questo modo Tommaso spiega la singolarità, la unicità, l’irripetibilità ed irriducibilità della persona come soggetto psico-fisico.
La quarta via percorsa da Tommaso nella sua rigorizzazione del concetto di persona risponde alla domanda ultima, radicale che possiamo porci a riguardo della persona: donde viene alla persona umana il suo essere ciò che è?
Poiché l’essere persona è dovuto all’essere spirito, dal momento che solo lo spirito esiste per sé, solo Dio può far essere (=creare) una persona. E’ essenziale che si colga chiaramente che la relazione di “appartenenza” della persona a Dio è qualitativamente diversa da quella propria di qualsiasi altra creatura non personale. E ciò a causa del fatto che ogni e singola persona è creata immediatamente da Dio.
Lo spirito infatti non può venire all’essere da una materia preesistente, essendo esso nel suo agire indipendente dalla materia stessa: l’atto creativo è  unico per ciascuna persona umana. L’intero universo fisico, materiale è stato creato nella sua totalità (non è qui in questione la discussione sull’evoluzione  che, come tale, non è un problema metafisico ma scientifico), così che nessun singolo ente o realtà che lo compone è voluto in sé e per sé, ma in quanto parte dell’insieme. Tutto ciò non è vero della persona. Ad essa non è attribuibile la nozione di “parte di un insieme” in nessun senso: essa non è pensata-voluta (cioè creata) da Dio all’interno di, e per un tutto. Essa è voluta per se stessa. Dio pone ogni persona di fronte a Sé. Questo è la radice ultima dell’assoluta singolarità, unicità ed irripetibilità della persona umana: ogni persona è un unicum perché voluta da Dio per se stessa. La metafisica dell’essere, nata in Tommaso dalla metafisica della creazione, ha condotto ad una metafisica della persona.
La conseguenza immediata di questa ultima rigorizzazione del concetto di persona è che può finalizzarsi solo a Dio direttamente: niente è degno di essere fine ultimo di una persona se non Dio stesso. Pertanto ogni persona ha una inviolabile dignità: è lo stesso diritto sussistente. E ciò in forza e della sua costituzione metafisica e della sua conseguente finalizzazione a Dio stesso. Le persone
“trascendono (praecellunt) infatti le altre creature e per la perfezione della loro natura e per la dignità del loro fine. Nella perfezione della loro natura, poiché solo la creatura ragionevole possiede il dominio del proprio agire, liberamente muovendo se stessa all’atto; tutte le altre creature invece sono piuttosto spinte ad agire piuttosto che agire ... Nella dignità del fine, poiché solo la creatura intelligente giunge fino all’ultimo fine dell’universo, amando cioè e conoscendo Dio” (Contra Gentes III, CXI, 2855; tutto il capitolo dimostra l’intrinseco rapporto fra essere per sé esclusivo della persona, relazione a Dio esclusivamente  propria della persona, e dignità della persona).

L’apporto dunque di Tommaso alla nozione di persona è stato teoricamente decisivo, da un duplice punto di vista. Dal punto di vista della definizione stessa del concetto: la persona umana è il soggetto che esiste per sé nella sua unicità singolare ed irriducibile. Dal punto di vista della fondazione metafisica di un tale concetto, individuata nella partecipazione all’Essere divino sussistente propria della persona.
Lo sviluppo successivo della riflessione mostrerà per contrarium che l’allontanarsi da questi due momenti speculativi comporta sempre una negazione della persona: ma di questo parlerò in seguito  . Ora ci si può chiedere se dopo la speculazione tomista sulla persona, ci sono stati nel pensiero cristiano consistenti sviluppi teoretici. A me sembra che ci siano stati. Ne individuo almeno due, poiché questi hanno un particolare interesse teologico.
Il primo è consistito nella rigorosa determinazione e del concetto e del fondamento della persona umana alla luce dell’evento cristologico. Questa determinazione parte da un presupposto che può essere enunciato nel modo seguente. Esiste fra la creazione di ogni persona umana e l’incarnazione del Verbo un nesso intrinseco e, nell’attuale situazione della creazione (l’unica presa in considerazione dalla S. Scrittura), inscindibile. Questo nesso significa che il Padre non progetta la creazione di ogni persona indipendentemente dalla sua libera volontà di comunicarsi nel Figlio: la creazione della persona umana è in vista del Figlio incarnato. L’idea  creatrice dell’uomo è Gesù Cristo.
Presupposta l’affermazione dell’unità del progetto di Dio e la centralità in esso di Cristo, si vede che la determinazione cristologica del concetto di persona non si aggiunge ad una definizione di persona già completa, ma entra come componente intrinseca della stessa originaria costituzione della persona umana. Come insegna il Vaticano II (Gaudium et Spes 22), è Cristo che svela all’uomo la sua intera verità: che non può essere se non la intera verità del suo essere-persona, dal momento che non esiste uomo che non sia persona.
Ugualmente, in questa luce si scopre finalmente la ragione ultima per cui la persona umana esiste, la sua ragione d’essere: è il suo entrare con e nel Cristo nello stesso rapporto che Questi ha con il Padre. Il suo (della persona) essere per sé che la fa agire liberamente, è orientato intrinsecamente alla realizzazione di se stessa come figlio nel Figlio. E’ libertà filiale. E’ questo il fondamento ultimo della dignità di ogni persona umana che annulla ogni discriminazione, come ha continuamente insegnato Paolo.
Il secondo consistente sviluppo teoretico ha avuto il merito di aver portato l’attenzione su una dimensione della persona, alla quale il pensiero classico e medioevale non aveva dato un’adeguata attenzione: la dimensione relazionale. Trattasi della relazione della persona con le altre persone umane. Certamente, si è estesa questa considerazione fino a mettere in pericolo la sostanzialità della persona. E ciò è accaduto attraverso un uso scorretto dell’analogia con la Persona divina che è relazione sussistente. Esiste una retorica della relazione interpersonale.
Tuttavia, respingere ogni antropologia che riduca l’essere della persona alla sua relazione con le altre persone non può essere fatto al punto da negare che la persona realizza il suo essere nella relazione con l’altro. Una visione adeguata della persona non può non implicare l’affermazione che la persona è ordinata essenzialmente alla comunione con le altre persone. Solo nella comunione con le altre persone, la persona raggiunge la pienezza del suo essere-personale. Senza una tale visione della dimensione comunionale della persona alcune fondamentali esperienze umane non possono essere comprese nella loro intima verità; si pensi al significato della vita coniugale, per esempio.
Questo approfondimento ha condotto ad una scoperta antropologica di grande portata etica. La comunione-comunicazione delle persone umane fra loro deve avvenire senza che si distrugga la natura propria dell’essere-personale: il suo essere un io sussistente. Anzi, come ho già detto, la comunione lo realizza in pienezza. La questione metafisica-etica posta dalla comunio personarum è dunque la seguente: quale atto della persona possiede la capacità di realizzare, di affermare pienamente la persona e nello stesso tempo di porla nel massimo della comunione con le altre? Questo atto è l’amore che si compie nel dono di se stessi. E così una visione adeguata della persona umana si conclude, cioè trova il suo vertice teoretico nella metafisica dell’amore e del dono.
La perfetta ed intera intelligenza di questa dimensione della persona la si ha ancora una volta alla luce dell’evento cristologico. La persona di Cristo, come si rivela al credente nelle pagine evangeliche, si mostra definita e come circoscritta da una relazione di amore che non è costituito “da un autotrascendimento che partendo dall’Io (del Cristo) si apre verso l’Altro (il Padre), ma come una relazione di amore, generata dall’amore del Padre. E’ partendo da questo amore primordiale che la persona stessa del Figlio si accoglie come costituita «aperta al dono di sé». Gesù è la persona filiale che tutto riceve «dal Padre» e perciò tutto si dona a Lui ed agli uomini. Così la rivelazione di Cristo ci mostra che la persona è essenzialmente relazionata all’altro in un rapporto di amicizia-dono di sé che trova nell’amore del Padre il principio del suo essere stesso relazione”  . L’Incarnazione traduce in esperienza umana l’essere filiale del Verbo eterno, in quanto nel momento stesso in cui è umanamente concepito da Maria. Egli accoglie attivamente il dono della grazia ipostatica e vi conforma pienamente l’esercizio della sua umana libertà (cfr. Eb 10,5-10).
Ma l’Incarnazione del Verbo è missione: la sua origine e la sua missine sono inscindibilmente unite e svelano così interamente il significato dell’essere-persona per l’uomo. Il suo (della persona umana) riceversi dal Padre in Cristo implica il suo essere “inviato” agli altri: eticamente nella loro gerarchia i due comandamenti sono connessi.
Finalmente, in questa luce tutto ciò che si è detto finora sulla persona svela pienamente il suo significato: in Cristo per il dono dello Spirito Santo, la persona umana raggiunge la pienezza del suo essere-persona.
Questa, per sommi capi, mi sembra la costruzione cristiana del concetto di persona.

2. Falso e vero personalismo

Questo punto della nostra riflessione costituisce il passaggio da un discorso puramente teologico, come quello precedente, al discorso bioetico propriamente. In questo punto cercherò di elaborare una specie di “criteriologia” del personalismo, oggi particolarmente necessaria a causa della situazione in cui versa il “referente-persona” nel dibattito bio-etico contemporaneo, come dissi all’inizio.
Per “criteriologia” intendo un’insieme di criteri in base ai quali si possa discernere un vero da un falso personalismo. Per “personalismo” intendo ogni dottrina che fonda sulla (dignità della) persona il fondamento e la giustificazione di ogni soluzione ai problemi della bioetica. Nella retorica personalista attuale, una tale criteriologia è di primaria necessità, poiché esistono pseudo-personalismi che in realtà sono anti-personalismi. L’insieme dei criteri qui proposti sono una diretta conseguenza della costruzione cristiana del concetto di persona, sopra schizzata.
Il primo criterio è costituito dall’affermazione (vero personalismo) o dalla negazione (falso personalismo) della sostanzialità dello spirito umano e quindi dell’io-soggetto umano. E’ il punto di partenza per ogni successiva scriminante, e l’anti-personalismo che di fatto attraversa tutta la modernità trova in questa negazione la sua origine, di cui è responsabile Cartesio. Riducendo l’essere alla coscienza dell’essere, si rende teoreticamente indefendibile, indimostrabile cioè, la sostanzialità individuale soggiacente a questa coscienza, poiché in realtà la coscienza pone solo se stessa. Resa indimostrabile la sostanzialità individuale della persona, si perde la visione della irriducibile unicità e singolarità della persona e quindi della sua dignità prima e sopra ogni “generico universale” (Stato, nazione ...). Non è stato per caso che la costruzione cristiana del concetto di persona ha preso avvio (Cappadoci) da questa affermazione della sostanzialità della persona.
Il secondo criterio è un approfondimento del primo. Esso è costituito dall’affermazione (vero personalismo) o dalla negazione (falso personalismo) che essere-persona (essere qualcuno) è essenzialmente diverso da ed infinitamente più che non-essere persona (essere qualcosa), a causa della spiritualità della sostanza personale. Qualsiasi visione dell’uomo che in qualche modo faccia derivare interamente la persona dalla natura materiale, è una visione anti-personalista. A questa categoria appartengono oggi dottrine ecologiste e società animaliste nelle cui ideologie, la distinzione fra “essere-persona” e “non-essere-persona” non è una distinzione essenziale ma solo di grado, non è una distinzione insuperabile ma valicabile per via evolutiva.
Alla luce di quanto abbiamo detto esponendo la dottrina tomista sulla persona, uno dei tests fondamentali per controllare questo criterio è l’affermazione-negazione della libertà vera della persona e quindi della sua radice, cioè la capacità di conoscenze universali essenzialmente diverse dalla conoscenza sensibile.
Il terzo criterio consiste nell’affermazione (vero personalismo) o nella negazione (falso personalismo) della capacità della (ragione della) persona di conoscere una verità riguardante il  bene/male dell’uomo, indipendentemente dai suoi interessi, utilità, gusti, preferenze individuali. Nonostante l’apparente scintillio di una retorica personalista, chi definisce la libertà e quindi la persona in termini di capacità costitutiva dei valori morali, distrugge in realtà la persona, rendendola parte di un universo di norme creato dal consenso dei più forti socialmente ed economicamente. E toglie ogni vera serietà all’essere liberi, cioè all’essere persona. Il relativismo etico è sempre anti-personalista.
Il quarto criterio consiste nell’affermazione (vero personalismo) o nella negazione (falso personalismo) che la persona è in se stessa e per se stessa un tutto che non può mai essere solamente usata come un mezzo per un fine ritenuto superiore: “ratio partis contrariatur rationi personae” (S. Tommaso). Il segno inequivocabile della presenza o assenza di questo criterio in una dottrina personalista, è costituito dall’affermazione o negazione che esistano norme morali negative aventi valore ineccepibile, nel senso insegnato da Veritatis splendor. Esse infatti affermano che esiste uno “spazio” della persona, che nessuno può violare. Ogni dottrina etica che rifiuti l’esistenza di atti intrinsecamente ingiusti, toglie al personalismo vero il suo stesso fondamento.
Il quinto criterio consiste nell’affermazione (vero personalismo) o nella negazione (falso personalismo) che la persona è orientata per sua stessa natura alla “comunione” con le altre persone, che si realizza nel dono di sé, cioè nell’amore. Ogni dottrina utilitarista è sempre fortemente anti-personalista. Per dottrina utilitarista intendo ogni visione dell’uomo secondo la quale questi non si muove ad agire (cfr. il secondo criterio), ma è unicamente mosso ad agire dai propri interessi individuale e la ragione serve solo a programmare il soddisfacimento dei propri interessi: è strumentale all’utilità individuale. In questa visione una vera  “comunio personarum” è impossibile, poiché la stessa inclinazione alla società si flette in senso egoistico: e la persona (più debole) è asservita alla persona (più forte). L’attuale utilitarismo diffuso è forse la minaccia più grave alla persona, poiché esso non nega solo questo criterio, ma è la negazione di tutti i criteri per un vero personalismo.
Il sesto criterio consiste nell’affermazione (vero personalismo) o nella negazione (falso personalismo) dell’esclusiva appartenenza della persona a Dio. Di tutti i criteri, come ben vide Kierkegaard, questo è il più profondo: il decisivo. La misura della dignità della persona è determinata dalla risposta alla domanda “di fronte a chi” sei persona; cioè soggetto libero in senso pieno. Essere persone di fronte a Dio costituisce la persona in una dignità infinita. La persona è posta di fronte a Dio dallo stesso atto creativo che la pone in  essere; ma la persona pone anche se stessa di fronte a Dio, si auto-pone di fronte a Dio: in questo essere posta cui corrisponde il porsi sta tutto il fondamento della dignità della persona. “Mettendosi in rapporto con se stesso volendo essere se stesso, l’io si fonda in trasparenza nella potenza che l’ha posto”
Molti sono i tests di cui possiamo fare uso per verificare in una dottrina personalista la presenza o non di questo criterio. Il primo è l’ammissione o non della drammaticità reale, non solo retorica, dell’esercizio della libertà dell’uomo. La persona può scegliere veramente fra bene e male e non solo sbagliare nella scelta dei mezzi adeguati al raggiungimento di un fine prestabilito dalla natura. Scegliendo fra bene e male, sceglie di fatto di essere fondata su Dio o fuori di Lui. E’ questo un test cruciale.
Altro test decisivo per verificare questo criterio è l’affermazione o negazione della nostra totale libertà di fronte a Dio, che il nostro essere liberi di fronte a Dio non è esattamente come il nostro essere liberi di fronte ad una creatura. Ogni forma di determinismo religioso è fortemente anti-personalista. Neppure Dio può trattare una persona come una cosa, la può volere non per se stessa.
Questi due criteri alla fine, possono essere espressi sinteticamente nel modo seguente: si può misurare la verità di una visione personalista dal posto occupato in essa dalla dottrina dell’amore verso Dio e verso le altre persone.
Il settimo criterio è costituito dall’affermazione (vero personalismo) o dalla  negazione (falso personalismo) della ragionevolezza della scelta di fede in Cristo, Dio fattosi uomo. La negazione infatti non rende giustizia interamente alla verità della persona umana, non riconoscendone le aspirazioni più profonde. La libertà di fronte a Dio (sesto criterio) raggiunge qui il suo vertice e dunque la possibilità di essere persona raggiunge il suo punto più drammatico. La determinazione cristologica dell’essere persona non è un optional in una visione personalista sia per l’obiettiva ed originaria relazione di ogni persona a Cristo sia, perchè la neutralità dell’uomo al riguardo è di fatto impossibile.
In che senso il rifiuto pregiudiziale della “determinazione cristocentrica” della persona discerne il vero dal falso personalismo? Nel senso che questo rifiuto implica un rifiuto delle radicali esigenze della ragionevolezza. Attribuire alla ragione la competenza di essere misura della realtà anziché misurata dalla realtà, nonostante le apparenze, non esalta la dignità dell’uomo: la deprime. Questa attribuzione riduce il rapporto della persona colla realtà al dominio del fare, escludendola dalla contemplazione di ciò che sta oltre.
Nel senso ancora che questo rifiuto implica una estenuazione del desiderio umano: insomma la persona è rinchiusa dentro all’immanenza del puro divenire storico.
Questi mi sembrano i criteri fondamentali per misurare la potenza personalista e anti-personalista di una dottrina dell’uomo.

Conclusione

Il passo successivo alla criteriologia suddetta dovrebbe essere l’ingresso vero e proprio nel dibattito bioetico contemporaneo, al fine di verificare puntualmente se il riferimento alla (dignità della) persona implichi un vero o falso personalismo. E ciò ad un duplice livello. Ad un livello fondamentale che è quello affrontato dal filosofo morale e dal filosofo del diritto ed al livello della singola problematica riguardante la vita della persona, di competenza della bioetica in senso stretto. Sono i contributi che precedono e seguono il presente studio.
Mi sono limitato a schizzare nei suoi momenti fondamentali la costruzione cristiana del concetto di persona, che funge da criterio fondamentale per discernere vero e falso personalismo, nell’attuale retorica personalistica. Questa riflessione ha cercato cioè di individuare gli elementi costitutivi di una vera ed adeguata visione della persona umana, alla luce congiunta della ragione e della fede. In questa prospettiva ci si è mossi verso una riscoperta dell’originalità nell’universo dell’essere che è propria della persona: della sua essenza e dignità. In questo modo si pone il principio fondamentale di ogni discorso etico e quindi il criterio supremo di giudizio per la soluzione dei problemi della bioetica.