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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


XVIII DOMENICA PER ANNUM (C)
S. Bianca, 6 settembre 1998


“… non può essere mio discepolo”. Questa affermazione ritorna per ben tre volte nella breve pagina che è stata ora proclamata. Essa costituisce l’insegnamento fondamentale che Gesù oggi vuole donarci: le condizioni fondamentali per essere suo discepolo.
Fate subito attenzione a ciò che ha dato occasione al Signore di darci questo insegnamento: “siccome molta gente andava con Lui, Gesù si voltò e disse”. Cioè: molta gente va con Lui, ma questo non è sufficiente per “andare dietro a Lui”, essere suo discepolo. Quanti uomini lungo i secoli, quante persone anche oggi possono essere presi da ammirazione per Lui! Non per questo essi sono suoi discepoli. Che cosa allora è richiesto per diventarlo? Precisamente la pagine del Vangelo risponde a questa domanda. E Gesù pone tre condizioni.
 La prima è enunciata in questi termini: “se uno viene a me …”. Eliminiamo subito un equivoco: Gesù non insegna a nutrire sentimenti di odio verso i propri familiari. Come sarebbe possibile? Egli ci ha detto di amare perfino chi ci fa del male! Nel linguaggio di Gesù l’enunciazione della prima condizione ha il seguente significato: Gesù chiede di essere scelto come “valore” assoluto e determinante della vita del discepolo. Questa supremazia della persona di Cristo, questa dedizione totale a Lui è tale per cui, qualora sorgesse un conflitto tra il seguire Cristo e gli affetti ispirati dal vincolo di parentela, è necessario porre la “causa di Cristo” anche al di sopra di essi. La formulazione di questa condizione, come ci è stata tramandata dal Vangelo sec. Matteo, è più chiara: “chi ama suo Padre e sua madre più di me, non è degno di me” (10,37).
 La seconda condizione è enunciata nei seguenti termini: “chi non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo”. Negli ascoltatori di Gesù, queste parole avevano un significato terribile, perché risvegliavano in essi un’immagine precisa. Quando uno era condannato a morte, era costretto a portare sulle sue spalle il tronco di legno  su cui sarebbe stato crocifisso, fino al luogo del supplizio. Non puoi diventare discepolo di Cristo, se non ti metti nella disposizione di chi è disposto ad affrontare tutti i sacrifici, la morte stessa, per rimanere fedele al Vangelo. Nei primi secoli del cristianesimo, molti di coloro che si facevano discepoli di Cristo perdevano ogni diritto sociale, ogni avere, subivano spesso una vera e propria “morte civile”. La situazione si sta ripetendo per chi vuole oggi essere discepolo di Cristo: senza nessun apparente violenza fisica, in nome di una supposta libertà religiosa e male intesa laicità dello Stato, chi vuole oggi tradurre visibilmente concretamente socialmente il suo essere discepolo di Cristo, viene subito tacciato di integralista, di violentatore della libertà altrui. In una parola: emarginato. A causa di leggi sempre più invasive della libertà dell’iniziativa privata, di controlli continui anche se formalmente corretti, alle comunità cristiane diventa sempre più difficile svolgere la loro missione educativa. Il non rispetto del “principio di sussidiarietà” ci porta alla situazione in cui al discepolo di Cristo viene sempre più chiesto di portare la croce, reietto come Cristo dai potenti di questo mondo.
 La terza condizione è enunciata nei seguenti termini: “chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. Quest’ultima condizione è un po’ la conclusione delle altre due. La decisione del discepolo ed il suo coraggio, il distacco radicale da se stesso e la serietà dell’impegno restano, o rischiano di restare parole vuote fino a quando non si comincia a perdere i propri averi, intesi nell’accezione più vasta. Solo così si dà veramente spessore concreto al progetto di libertà nella sequela di Cristo.
 Fratelli e sorelle: non so, se mi avete seguito, quali pensieri sono sorti nel vostro cuore, ascoltando questo S. Vangelo. Uno sicuramente: essere cristiani, cioè discepoli del Signore, è qualcosa di estremamente serio. E’ una decisione che deve nascere da una profondità spirituale vera, con una attenta riflessione. Le due parabole del testo vogliono precisamente illustrare questa verità. Esse non significano che bisogna calcolare le nostre forze prima di cominciare a seguire Gesù: come se la sequela di Gesù fosse un optional, oppure come se ci fosse una persona con forze sufficienti per farlo. No: esse vogliono dirci che non è possibile tirarsi indietro una volta che ci siamo impegnati a seguire Gesù; che è necessario andare fino in fondo. Tanto che si tratti del proprietario che costruisce la torre che del re che comunque ha la pace, ogni volontà vera realizza ciò che intende. Così accade per ogni vero discepolo di Gesù.
 “Chi ha conosciuto il tuo pensiero…” (cfr. prima lettura). Seguire Cristo è impossibile, non difficile, all’uomo lasciato alle sole sue forze. Ma noi celebriamo l’Eucarestia perché, nutrendoci del corpo e del sangue di Cristo, riceviamo in dono la pienezza dello Spirito Santo, vera forza motrice che dal di dentro ci spinge dietro a Cristo.