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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Relazione «La fecondazione in vitro (FIV): considerazioni antropologiche ed etiche»
Facoltà di Medicina dell’Università di Madrid, 27 ottobre 1984

 

 

1. Vorrei cominciare la mia riflessione, cercando di indicare la vera portata storica — ciò che ha significato — della scienza, sul nostro modo di pensare e, quindi, anche di agire.

Comincerò con una pagina famosa di Galileo: «Il tentar [di conoscere] l’essenza l’ho per impresa non meno impossibile e per fatica non meno vana nelle sostanze elementari che nelle remotissime e celesti [...]; né veggo che nell’intender queste sostanze vicine abbiamo altro vantaggio che la copia dei particolari, ma tutti ugualmente ignoti, per i quali andiamo vagando con pochissimo o nessun acquisto dall’uno all’altro. E se, domandando io quale sia la sostanza delle nuvole, mi sarà detto che è un vapore umido, io di nuovo desidererò sapere che cosa sia il vapore; mi sarà per avventura insegnato, esser acqua, per virtù del caldo attenuata ed in quello resoluta; ma io, egualmente dubbioso di ciò che sia l’acqua, ricercandolo, intenderò finalmente, esser quel corpo fluido che scorre per i fiumi e che noi continuamente maneggiamo e trattiamo; ma questa notizia dell’acqua è solamente più vicina e dipendente da più sensi, ma non più intrinseca di quella che io avevo più avanti delle nuvole» (Galileo, Opere, ed. Naz. V, p. 187).

Il testo è lungo, ma di estrema importanza, poiché in esso il padre della scienza moderna traccia di questa il modello metodologico. Sapere scientificamente una cosa non consisterà più nel conoscerne ciò che fino ad allora — da Aristotile in poi — era chiamata la “forma sostanziale“ della cosa medesima. Ma la scienza consisterà in un sapere che si limita ad afferrare le qualità misurabili dei corpi, per poter applicare a queste qualità il discorso matematico. Credo di non errare nel dire che in questo sta il passaggio essenziale: la conoscenza “matematica” è la vera conoscenza scientifica, che comporta un prescindere dalla categoria della qualità, per limitarsi solo alla categoria della quantità.

Se ora, prendiamo come oggetto possibile di conoscenza scientifica, così intesa, la persona umana, per rendere possibile questa conoscenza è assolutamente necessario che noi “prescindiamo” da ciò che costituisce la persona umana nella sua specifica originalità. Infatti, una “quantificazione” della persona umana — se così posso dire — è possibile solo a condizione che:

a) non consideri ciò che per definizione sfugge ad ogni nesso necessitante fra causa ed effetto, cioè l’atto libero;

b) non consideri ciò che per definizione si pone oltre a quel sapere misurabile e cioè lo spirito;

c) non consideri ciò che per definizione si oppone ad essere “numerato”, cioè l’individualità personale.

Donde, due possibilità: o si nega che il sapere scientifico sia universalizzabile ed allora si salva la possibilità di una conoscenza dell’uomo in quanto uomo o si afferma che il sapere scientifico è — deve essere — universalizzabile ed allora è negata la possibilità stessa di conoscere l’uomo in quanto uomo.

Ma che cosa precisamente intendo per “conoscere l’uomo in quanto uomo”? Ciascuno di noi sa, per esperienza diretta ed immediata, che l’uomo — se stesso — è diverso e superiore a tutta la realtà infraumana: è diverso perché superiore; è superiore perché diverso. Ed ancora intuisce che questa diversità-superiorità consiste semplicemente nell’essere l’uomo qualcuno non qualcosa: nell’essere egli una persona. Conoscere l’uomo in quanto uomo equivale, dunque, a conoscere la verità del suo essere-persona, del suo essere qualcuno e non qualcosa. Chiamiamo questa conoscenza antropologia. Ed allora, l’antropologia diviene possibile solo se il sapere scientifico non assurge — di diritto o di fatto — ad unico sapere valido. Posso concludere questo primo punto della mia riflessione, dicendo sinteticamente che o la persona è vista come non appartenente o non riducibile alla categoria della quantità o essa non è vista per niente, come persona.

 

2. Che cosa costituisce il “novum” della genetica umana contemporanea, dal punto di vista della riflessione precedente? Il fatto, mi sembra, che per la prima volta nella sua storia, l’uomo è riuscito a porre le mani sulle origini della vita umana e, pertanto, almeno in linea di principio, si veda aperta la possibilità di mutare il patrimonio genetico delle future generazioni umane. Un potere mai prima avuto.

Ma vediamo le cose più da vicino e con maggiore precisione, partendo precisamente dalla fecondazione in vitro (FIV).

La FIV può, in teoria almeno, svolgersi in due modi fondamentali o secondo due sequenze diverse. Un primo modo è di prelevare un solo ovulo umano, secondo il ciclo naturale; di fecondarlo, di impiantarlo, a fecondazione avvenuta. Un secondo modo è di indurre artificialmente l’ovulazione, ottenendo così due-tre, quattro ovuli; di fecondarli tutti; di ottenere non un solo embrione umano; di non impiantare tutti gli embrioni così ottenuti; di congelare quelli non impiantati, in previsione di un non efficace impianto, oppure, a gravidanza avvenuta, di mantenerli in vita al fine della sperimentazione.

Non voglio, per il momento, studiare le due metodiche separatamente, ma fermarmi per riflettere sul significato antropologico del fatto essenziale in ambedue: il fatto che si ottenga una nuova vita umana in laboratorio.

La prima constatazione, per cogliere questo significato, è che per la prima volta, nella storia dell’umanità, si è ottenuta la separazione fra la congiunzione sessuale dell’uomo con la donna e il sorgere della vita umana. Questa separazione è di incalcolabile portata antropologica. Infatti, essa costituisce l’offerta all’uomo e alla donna di un cambiamento sostanziale della stessa definizione della sessualità umana: ora non è solo possibile una sessualità senza procreazione, ma è anche possibile una procreazione senza sessualità. Inoltre, e su questo ritornerò più avanti, l’unico luogo in cui può avere origine la vita umana non è più una persona umana — quella della donna — ma anche la provetta, il laboratorio. Ed ancora, l’origine della vita umana è connessa ad una serie di atti posti da varie persone, dalla libertà di varie persone, e quindi da queste stesse dipendente non solo nel porre le condizioni perché sorga, ma il suo sorgere stesso.

La seconda constatazione per cogliere il significato antropologico di ciò che costituisce, nella sua sostanza, la FIV, è meno facile da spiegare. Occorre che partiamo, prima, da una premessa. La realizzazione dei nostri dinamismi operativi può avvenire in due modi fondamentali, essenzialmente diversi fra loro: chiamiamo il primo modo “fare”; il secondo, lo chiameremo “agire”. Quando l’uomo “fa”, produce qualcosa di esterno, di diverso da lui: esercita la sua attività — direbbero i filosofi — transeunte. La persona umana, infatti, “facendo”, passa — per così dire — da se stessa all’effetto prodotto. Quando l’uomo “agisce”, non produce nulla di esterno a sé; la sua attività in-mane nel soggetto agente. L’agire è la perfezione della persona; vale per se stesso. Costruire una casa è diverso che compiere un atto di intelligenza: il primo appartiene al “fare” il secondo appartiene allo “agire”. Fatta questa premessa, possiamo ora vedere che colla FIV, per la prima volta, l’uomo è effetto di un “fare” umano e non di un “atto” della persona. La vita umana può essere prodotta dall’uomo: la procreazione è entrata anche nel dominio del fare. Riflettiamo profondamente su questo ingresso, poiché si tratta di un avvenimento d’importanza senza precedenti. Il “fare” possiede una sua razionalità specifica, che è la razionalità propria della tecnica. Infatti, un fare è “ragionevole” alle seguenti condizioni: esso è efficace — produce, cioè, realmente ciò che intende ottenere — nella sua realizzazione; esso è utile — l’effetto prodotto cioè, vale in quanto serve al raggiungimento di uno scopo prefisso — ed utilizzabile. L’efficacità e l’utilità sono i parametri della razionalità tecnica. Per questo, di conseguenza, è sempre calcolabile in termini quantitativi: tanti tentativi, tanti risultati ottenuti e dal confronto fra i due “tanti” nasce il giudizio sul valore del fare. Essenzialmente diversa è la razionalità dell’agire. I suoi parametri non sono necessariamente quelli dell’efficacia e dell’utilità: sono solo quelli della moralità. Per questo, l’agire non è mai giudicabile in termini quantitativi.

Sopra ho parlato di due possibili modelli per realizzare la FIV. Proprio nei giorni scorsi, ho chiesto ad un grande scienziato — che ha già compiuto 30 FIV — se egli segue il primo o il secondo. Mi ha risposto che mette in atto sempre il secondo, poiché il primo non è efficace. E così avviene sempre. Dunque, con la FIV la persona umana può essere “fatta”, nel senso stretto del termine “fare”.

La terza ed ultima, ma non di importanza minore, constatazione per cogliere il significato antropologico di ciò che costituisce, nella sua sostanza, la FIV è la seguente; non facile anch’essa da essere spiegata chiaramente. Per millenni, l’origine della vita umana è accaduta nel buio. Ora, essa può accadere nella luce, sotto gli occhi dell’uomo. Non voglio porre il problema genetico, ma anche etico, su ciò che può significare questa primigenia esposizione alla luce. Il fatto mi serve solo per introdurci in una riflessione antropologica che mi sembra importante: la perdita del senso del mistero che accade, quando una persona umana viene all’esistenza.

Per capire ciò che questo significa, possiamo partire dalla distinzione cara a Gabriel Marcel, tra “problema” e “mistero”. Il “problema” implica una distanza fra l’uomo che interroga e l’oggetto conosciuto, il “mistero” implica un coinvolgimento dell’uomo: dell’uomo non astrattamente preso ma nella sua irripetibile unicità. La conoscenza, nel primo caso, è impersonale nei suoi contenuti e i soggetti conoscenti sono fra loro interscambiabili. Nel secondo caso, nei confronti del mistero, l’uomo non è chiamato a domandare ma a rispondere: nessuno può essere scambiato. Troviamo, in un altro registro, nel primo caso, le caratteristiche fondamentali della scienza di cui ho parlato all’inizio: l’interscambiabilità dei soggetti e l’impersonalità dei contenuti sono infatti gli ideali della scienza moderna.

Se ora ritorniamo alla metodica messa in atto dalla FIV possiamo constatare quanto segue: è indifferente chi pone le condizioni del sorgere di una nuova vita umana (il tecnico); è indifferente chi impianta l’embrione così ottenuto; si propone anche che sia interscambiabile chi dà l’ovulo, chi dà il seme, chi porta avanti la gravidanza. Precisamente: il sorgere di una nuova vita umana non è un “mistero” da accogliere, è un “problema“ da risolvere.

Separazione della procreazione dalla congiunzione sessuale fra l’uomo e la donna, l’atto procreativo attraverso un “fare” tecnico, la nascita dell’uomo non mistero da accogliere ma problema da risolvere; mi sembra che queste tre constatazioni siano già per sé sole capaci di farci cogliere il significato antropologico di ciò che sta accadendo, colla FIV, nella genetica umana contemporanea.

Prima di passare alla riflessione seguente, vorrei farvi notare un fatto di grande importanza. Credo sia facile rendersi conto che si dà una profonda sintonia fra il modello di sapere scientifico, di cui ho parlato all’inizio, e ciò che ho detto sulla FIV. In altre parole: la FIV è un procedimento pienamente coerente con la logica interna, colla “razionalità” intrinseca al sapere scientifico, come da Galileo in poi è stato elaborato.

Tuttavia, qui sorge una domanda inevitabile: ma questo modello è applicabile, quando si tratta di dare origine ad una persona umana? È la domanda etica, propriamente detta.

Prima, tuttavia, di tentare la risposta ad essa, devo fare alcune riflessioni generali. Sono costretto, ancora una volta, a partire da un concetto epistemologico oggi inconsueto, ma che esercitò per secoli la sua influenza nella cultura europea, il concetto di subalternanza delle scienze. È questo un punto fondamentale della mia riflessione. In senso tecnico, per “subalternanza“ si intende un rapporto che si istituisce fra due scienze, in forza del quale la scienza subalternata riceve dalla scienza subalternante principi che la rendono possibile. Si noti: la scienza subalternata conserva una sua autonomia; dall’altra parte: la scienza subalternante opera un influsso reale, guida il sapere subalternato. Ora, la nostra convinzione è che debba esistere una subalternanza della scienza, più precisamente, della genetica umana, all’etica. Per quale ragione? In sostanza, poiché è dell’uomo che si tratta in ambedue i casi. Ed è il sapere etico che conosce l’intima verità della persona umana in quanto persona umana. Come è ovvio, l’etica non è competente nel giudicare la verità di una proposizione scientifica, così come la scienza non è competente nel giudicare la verità di una proposizione etica. I criteri veritativi di ciascuna di esse sono diversi. Ma quando la verità scientifica, e nel momento della sua applicazione e nel momento della sua investigazione, entra nel campo della persona umana, tocca la persona umana come tale, in quel momento e per questa ragione, la scienza deve subalternarsi all’etica.

Fatta questa premessa, sulla quale ritorneremo più diffusamente più avanti, cercheremo di rispondere ora alla domanda sulla liceità della FIV. E sarà questo l’oggetto del terzo momento della nostra riflessione.

 

3. La mia riflessione etica si articolerà in tre momenti fondamentali, in corrispondenza alle tre riflessioni fatte precedentemente sul significato antropologico della FIV.

Nella sua sostanza, il problema etico si può formulare in questi termini: ogni modo di dare origine ad una persona umana è eticamente degno di essa? Il fatto che, senza alcuna discussione, si risponda negativamente a questa domanda (“non ogni modo...”) pensando ad un concepimento frutto di violenza carnale, non deve farci ritenere che la risposta sia già data. Infatti, se — per rimanere nel caso della violenza carnale — osserviamo gli argomenti addotti al riguardo, essi sono sempre costruiti alla luce dell’ingiustizia commessa a chi subisce violenza, non si prende in considerazione la dignità del concepito. Il problema che noi poniamo, dunque, è un altro: è il problema se deve esserci una “corrispondenza adeguata” fra la persona umana che si vuole chiamare all’esistenza e l’atto con cui si pongono le condizioni perché la persona sia concepita.

Voglio spiegare brevemente questo concetto di “corrispondenza adeguata”, in generale.

Si ha una “corrispondenza adeguata” quando l’uomo risponde ai valori che lo interessano, nel modo dovuto alla preziosità del valore stesso. O per essere più precisi: alla preziosità dell’essere di cui si è percepito il valore. Se uno si pone in una piazza durante l’ora di maggior traffico ed esclama: che bellissima musica questo rumore!; se poi ritornato a casa, ascolta la Nona Sinfonia di Beethoven ed esclama: che insopportabile confusione!, questi non risponde nel modo dovuto alla preziosità — in questo caso estetica — dell’essere con cui si è incontrato. Precisamente: la “corrispondenza” non è stata adeguata. Come è facile vedere, l’adeguatezza o inadeguatezza della risposta è misurata dal valore obiettivo dell’essere, dalla sua bontà ontologica, direbbero i filosofi.

Se ora noi ci chiediamo: quando noi incontriamo una persona, quale è la risposta adeguata, l’atteggiamento dovuto alla preziosità propria dell’essere-persona? È ovvio che per poter risolvere questa questione è necessario che noi sappiamo quale è la preziosità propria dell’essere personale. La nostra riflessione a questo punto dovrebbe molto prolungarsi. Mi limito all’essenziale. Ciò che caratterizza la persona in quanto tale è che essa esiste in sé e per sé. Esiste in sé: essa, cioè, si possiede (sui juris: dicevano già i giuristi romani), poiché il suo atto di essere, è l’atto di essere dello spirito. Essa, allora, non appartiene a nessuno. Esiste per sé: non può essere mezzo per un altro fine; essa stessa è fine. Se questa è la preziosità propria dell’essere personale, allora la persona deve essere voluta in se stessa e per se stessa: questo è l’unico modo di “corrispondere adeguatamente” ad essa. Ma che cosa significa “volere la persona in sé e per sé”? Significa esclamare davanti alla persona: come è bello che tu esista! Non: come è utile, come è piacevole che tu esista! È, in altre parole, l’atto con cui si vuole che la persona sia, perché il suo esserci è un bene, prescindendo da qualsiasi altra considerazione utilitaristica o edonistica: il suo puro e semplice esserci è voluto. Ora, se noi analizziamo la nostra stessa esperienza, ci rendiamo conto che questo è l’atto dell’amore. Solo l’amore è l’adeguata corrispondenza alla persona: adeguata alla sua specifica preziosità.

Ritorniamo ora alla domanda iniziale: quale atto è degno di dare origine ad una nuova persona umana? Quale atto è adeguatamente corrispondente alla sua dignità? A me sembra che tutto il problema etico della FIV sia sostanzialmente questo.

Prima riflessione. Come ho detto nel punto precedente della mia riflessione, ciò che caratterizza la FIV è che l’atto che pone le condizioni per il sorgere di una nuova vita umana è separato dall’atto di congiunzione sessuale fra gli sposi. Dobbiamo riflettere su questa separazione.

Si deve subito premettere che quando in etica si parla di “congiunzione sessuale coniugale”, questa espressione ha un significato preciso. Essa non significa solo la congiunzione biologico-genitale: ciò che — dal punto di vista biologico — è richiesto alle persone perché possa eventualmente sorgere una nuova vita umana. Ma essa significa anche e soprattutto, una congiunzione psicologica e spirituale delle due persone: una congiunzione a livello fisico, psicologico, spirituale. Quando e come questa è possibile? Quando queste tre dimensioni essenziali della persona sono integrate nella persona, la quale, in forza di quell’auto-possesso che caratterizza l’essere-personale, fa di se stessa dono all’altro, con un atto di amore. Quando, dunque, l’etica parla di congiunzione sessuale coniugale, dà a questa espressione questo significato.

Quando questo atto è compiuto nei giorni fertili della donna, esso può dare origine ad una nuova vita umana. Può, non solo in senso biologico, ma anche in senso etico: questo atto è degno — possiede una corrispondenza adeguata — di dare origine ad una persona umana. La ragione di questa dignità è la seguente. La nuova persona — per quanto la sua venuta all’esistenza dipende dalla libertà di altre persone — è voluta mediante un’attività — quella coniugale sessuale — che in se stessa è un atto di amore interpersonale.

Che cosa, al contrario, accade colla FIV? Accade che questo atto di amore interpersonale sia separato dall’altro atto: l’atto con cui si pongono le condizioni per il sorgere di una nuova vita umana.

Seconda riflessione. La conseguenza di questa separazione è che l’atto, o meglio la serie degli atti che costituiscono la FIV, è di natura essenzialmente diversa: si tratta di un “fare”, di una tecnica. Ora, l’attività che porta al sorgere di una nuova vita umana, può essere, dal punto di vista etico, un’attività produttiva? Possiede una corrispondenza adeguata alla preziosità propria della persona umana? Se consideriamo le cose con attenzione, noi vediamo che la produzione, il “fare”, a diversità dell’agire, istituisce una diversità assiologica fra chi fa e l’effetto prodotto. Ora, è precisamente questo che impedisce che, dal punto di vista etico, si possa dare origine ad una nuova persona umana attraverso il fare.

La conferma di ciò che sto dicendo la si ha nel fatto che si comincia a dare un giudizio di valore sul “prodotto” del proprio fare: embrioni prodotti in vitro che non vengono impiantati se non riconosciuti sani; si opera, in questo modo, una selezione genetica. Non dico che questo accada sempre, né che questa sia l’intenzione di tutti co loro che fanno la FIV. Dico che esiste una oggettiva coerenza e consequenzialità fra questi due ordini di fatti: una coerenza e consequenzialità che non è rimasta solo teorica. Del resto, ancora una conferma, la sperimentazione sugli embrioni umani è stata resa possibile, non solo tecnicamente, dalla FIV. In una parola: la FIV trasforma ciò che deve essere un frutto di un atto di amore in un prodotto del proprio lavoro.

Terza considerazione. La FIV ha reso possibile una serie di sostituzioni o scambi di persone che sono sempre coinvolte nel sorgere di una nuova vita umana: colei che dà l’ovulo può essere diversa da chi riceve in grembo l’embrione umano, colui che dà il seme, può essere diverso da chi è il padre legale e così via, in una serie piuttosto lunga di “scambi di persone”: prima della FIV questo non era possibile. Mentre, coll’atto di amore coniugale la nuova vita umana era accolta da quelle stesse persone che si erano donate.

La cosa fa pensare molto, dal punto di vista etico. Dal punto di vista semplicemente antropologico ho già cercato di mostrarvi il significato di questo: la vita umana da “mistero” che si accoglie di venta “problema” da risolvere.

Se, da un punto di vista etico, ci chiediamo ancora una volta quale è l’atteggiamento adeguato alla dignità della nuova persona umana che si desidera, mi sembra abbastanza facile rispondere. La persona umana che si vuole, non può essere voluta che come un dono che ci è fatto. Infatti, nessuna persona umana è dovuta, come tale, ad un’altra: può essere solo donata. Per la semplice ragione che nessuna persona appartiene ad un’altra, essendo ogni persona di se stessa. Se, dunque, una persona vuole essere di un’altra, non ha che un modo per farlo: donarsi all’altra per amore. Dunque: la nuova persona è donata e, quindi, l’unico atteggiamento è quello dell’accoglienza, se il dono accade.

L’atto d’amore coniugale è precisamente questo atto con cui si attende un dono, che — se donato — viene accolto nella gratitudine. Ora, colla FIV, anche escludendo questa serie di scambi di cui ho parlato, l’atto di chi pone le condizioni al sorgere di una nuova vita umana — l’atto tecnico — non è, nella sua natura obiettiva, un atto di chi attende un dono, ma l’atto di chi cerca, nel modo più efficace, di risolvere un problema. È una razionalità di efficacia tecnica che è messa in atto, non la domanda dell’avvenimento di un mistero che ci tra scende.

 

4. La domanda etica specifica sulla FIV ci ha portato ad alcune riflessioni così fondamentali da costringere ciascuno di noi a porci alcune questioni drammatiche. Tanto più se si tiene presente ciò che accompagna spesso questa tecnica: selezione di embrioni umani; sperimentazione su gli embrioni; congelamento degli stessi.

Che cosa, in realtà, sta accadendo? L’uomo, l’uomo che ha posto le mani sull’energia nucleare, ha posto oggi le mani sull’origine stessa della vita umana. Questo è, forse, il fatto più grave che la storia del l’umanità abbia conosciuto nella sua storia.

In questa situazione, occorre certo richiamare — e non lo faremo mai a sufficienza — il principio fondamentale di ogni etica medica: primum non nocere, soprattutto per ciò che riguarda la sperimentazione sugli embrioni umani. Ed anche non richiameremo mai abbastanza il principio che nessuna persona umana, in nessuno stadio della sua esistenza, può essere usata da altri per uno scopo diverso dal suo bene, fosse anche, questo scopo, la crescita della conoscenza scientifica per terapie più efficaci.

Tuttavia questi fondamentali principi, sempre validi, di etica medica, già formulati nella loro sostanza da Ippocrate stesso, non sono più sufficienti per rispondere alla sfida attuale. L’aver posto nelle mani dell’uomo la possibilità di influire tanto profondamente sulle future generazioni umane è qualcosa di assolutamente nuovo. Né dobbiamo lasciarci impressionare dal fatto che effettivamente la FIV risolva problemi di sterilità prima insolubili: questa situazione non è di un valore tale da dover subordinare ad essa qualsiasi altro valore.

A me sembra che l’uomo abbia raggiunto finalmente di poter mettere le mani sull’albero della vita. Ascoltiamo una pagina di Goethe, il primo che previde ciò che sta accadendo in questi giorni.

 

MEFISTOFELE (entrando). Benvenuto! Non ho cattive intenzioni.

WAGNER (con angoscia) Benvenuto sotto il segno della stella di quest’ora! (Sottovoce) Trattenere, però, chiusi in bocca, fiato e parola! Una magnifica impresa sta per essere compiuta.

MEFISTOFELE. Che c’è dunque?

WAGNER (ancora più piano) Viene fabbricato un uomo.

MEFISTOFELE. Un uomo? E quale innamorata coppia avete chiusa dentro il camino?

WAGNER. Dio ce ne guardi! Il procreare che fu già di moda, noi lo dichiariamo una vuota farsa. Il delicato punto dal quale balzava la vita, la dolce forza che si sprigionava dall’intimo essere e prendeva e dava, destinata a dar forma a se stessa ed a far sue in un primo tempo, sostanze più affini, e, poi, sostanze estranee è stata deposta dalla sua dignità. Se le bestie continuano a provarvi piacere, l’uomo, con le sue grandi qualità, dovrà in futuro, avere una più alta, una assai più alta, origine. (Rivolto verso il fornello) Brilla! vedete! Ormai si può in verità sperare che, se, da molte centinaia di elementi, mescoliamo, — poiché quel che conta è la miscela —, e chiudiamo ermeticamente, in una storta, la sostanza umana e la distilliamo ripetutamente nel modo dovuto, l’opera si compirà in silenzio. (Rivolto verso il fornello) Riesce! La massa si muove più chiaramente! La convinzione si fa sempre più vera, più vera. Noi osiamo tentare secondo ragione ciò che, nella natura, veniva celebrato come misterioso: ciò che prima la natura faceva sviluppare organicamente, noi lo facciamo cristallizzare. (Faust, Atto secondo).

 

L’uomo che dà origine all’uomo, l’uomo autore dell’uomo. È dentro questa tentazione terribile che si inserisce ciò che sta avvenendo? Né si dica, a questo punto, che la scienza è un bene e così via. Il problema vero non si risolve con queste ovvietà, perché la questione non è questa. La questione è di ricostruire una unità fra etica e scienza, nella subordinazione di questa a quella. Ma a quali condizioni questa ricostruzione può accadere. Ne indicherò ora alcune che mi sembrano più urgenti.

La prima. Cominciamo a renderci conto di che cosa stia costando in termini di civiltà, l’aver censurato, l’aver emarginato nella cultura le domande fondamentali, quelle, in fondo, riguardanti il significato ultimo della vita umana: alla fine, la domanda religiosa. Risulta allora necessario reintrodurre la domanda sulla verità intera dell’uomo: uscire da questa cultura che ha eretto a suo modello una razionalità non accogliente, ma dominante la realtà. In concreto: abbiamo bisogno di contemplazione, di adorazione, più del pane che mangiamo e dell’aria che respiriamo.

La seconda. L’educazione della coscienza morale è la priorità più urgente. Occorre che, soprattutto i giovani, siano educati a questa capacità di discernere il bene dal male, nella convinzione che questa è la distinzione più decisiva: più decisiva della distinzione fra utile e dannoso, fra piacevole e spiacevole.

La terza. La responsabilità dei politici è oggi enorme. Essi sono oggi chiamati ad una difesa della persona, ad un’affermazione della persona che non può più fondarsi sulla concezione di uno Stato che deve solo rispondere ai bisogni più immediati dell’uomo. Più che mai l’atto politico diventa un atto di sapienza, poiché credo sia giunto il momento di un intervento anche legislativo in questo settore su cui abbiamo riflettuto: un intervento che difenda il diritto fondamentale di ogni persona umana.

 

Conclusione

“Noi osiamo tentare secondo ragione ciò che, nella natura, veniva celebrato come misterioso”, dice Wagner a Mefistofele. Ma Sancho Panza dice a Don Chisciotte: “Padrone, non sarete diventato tanto pazzo da cominciare a ragionare”. Due dei più grandi geni dell’umanità hanno posto il problema nel suo nodo essenziale: è questa la razionalità o è una razionalità impazzita così che quando si comincia a ragionare in questo modo è allora che comincia la pazzia? Come si esce da questo dilemma da cui dipende — o può dipendere — il nostro destino stesso?

Forse c’è un punto del commento di san Tommaso alla Metafisica di Aristotile che ci può far orientare nella nostra meditazione. Parlando del sapere più alto che sia dato all’uomo di raggiungere in questa vita (scientia honorabilissima), dice che essa è una sapienza che l’uomo non può possedere, ma avere solo in prestito (non ut possessio habeatur, sed sicut aliquid ab eo mutuatum) (cfr. In metaph. Lib. 9, Lect. III, n. 64; ed. Marietti, pag. 19). Sicut aliquid mutuatum: la sapienza più alta è quella che sa accogliere una verità sull’uomo, che l’uomo stesso, colla sua scienza, non è in grado di possedere.