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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Intervista a una rivista cattolica

novembre 1984


1. Unità fra fede e vita: vale solo per la vita individuale o anche per la vita associata?

La risposta a questa domanda è molto semplice. Se la vita associata è una dimensione essenziale della persona umana, come è, è necessario che la fede non termini la sua influenza quando l’uomo entra nella società, poiché Cristo è la salvezza di tutto l’uomo ed in Lui solo tutto l’uomo trova pienamente se stesso. Pensare o cercare di mettere fra parentesi questa che è la verità centrale del Cristianesimo, anche per un solo ambito della vita umana, equivale a non essere veramente convinti fino in fondo che Cristo sia la sola salvezza dell’uomo: cioè a non essere cristiani. Possiamo trovare, certo, difficoltà nel modo con cui realizzare questa unità — e quando i cristiani non hanno incontrato queste difficoltà? — ma, come disse Newman, mille difficoltà non fanno un dubbio. Le difficoltà si risolvono non mettendo in dubbio quella certezza, ma, al contrario, esse diventano insolubili proprio quando essa comincia a vacillare. E ora permettetemi una riflessione che vado facendo da tempo, al riguardo del punto di partenza di tutta la problematica sottintesa dalla vostra domanda. Se io vedo la storia umana e l’avvenimento della salvezza (che ha al suo centro l’atto redentivo di Cristo) come due realtà che hanno già in se stesse, separatamente considerate, il loro significato e la loro consistenza, il problema fondamentale per il cristiano diventa inevitabilmente quello di sapere come sia possibile “gettare un ponte” fra le due, operare una “mediazione”, come si usa dire. E per il non cristiano, che però voglia prendere in considerazione il cristianesimo, il problema sarà quello di vedere la misura in cui esso può servire al progetto storico. Il risultato sarà, allora, — e qui si fa l’inevitabile richiamo al pluralismo — che le due considerazioni, i due punti di vista, i due tragitti trovino un punto di incontro comune, che, per il cristiano, comporta la messa fra parentesi di momenti essenziali del cristianesimo: giustificata — e qui l’altro inevitabile richiamo all’autonomia delle realtà temporali — dal fatto che una certa dicotomia fra fede e vita associata è necessaria. Ma l’errore è nel punto di partenza. La storia dell’uomo, fuori di Cristo, considerata non alla luce della fede, non ha nessun senso semplicemente perché il credente sa che tutto è stato creato in vista di Cristo. Il problema fondamentale del credente non è quello di cercare di gettare un ponte fra due rive separate, ma è quello di convertire tutto l’uomo e ogni uomo a Cristo, sapendo che tutto l’uomo ed ogni uomo è salvo solo se si converte a Cristo. E la conversione inizia dalla penitenza e cambiamento (intesi non solo individualisticamente), poiché l’umanità è nel peccato e giunge a realizzare la verità intera dell’uomo, nella comunione con Cristo. In questo contesto sottoscrivo quanto disse Kierkegaard: “meglio male impiccati che bene sposati”. Ho accennato ad alcuni luoghi comuni. Voi, però, capite che alcune affermazioni cambiano completamente di significato, a seconda che siano inscritti nell’uno o nell’altro contesto.

 

2. La presenza cristiana dentro una democrazia: quali limiti ne possono derivare, per il dialogo fra le varie forze sociali?

Innanzi tutto, mi sembra utile richiamare una cosa che, data la sua ovvietà, rischia spesso di essere dimenticata sul piano pratico. Proprio perché siamo in democrazia, tutti, dunque anche i cristiani, hanno il dovere, prima che il diritto, di essere e di agire come tali. Non vedo, proprio per le ragioni della democrazia, si possa pensare il contrario, A meno che si sia succubi acriticamente della convinzione che l’essere cristiani è un pericolo per la democrazia. E poi vorrei fare un’altra riflessione. La Chiesa deve scendere nel le catacombe, ma solo quando vi è costretta; ma non può essere una Chiesa che sceglie di ritirarsi nelle catacombe (“Quello che avete udito nelle orecchie, gridatelo sui tetti”). Nel primo caso diventa una Chiesa di martiri, nel secondo una Chiesa di traditori.

 

3. - Se la presenza cristiana afferma la sua identità nella legislazione, è integralista?

La risposta a questa domanda mi consente di completare quella precedente. Comincerei col dire che non è la fedeltà alla propria identità cristiana che crea problemi a una vera democrazia, ma il contrario, cioè l’infedeltà dei cristiani al Vangelo. Se Cristo è il Redentore dell’uomo, non esiste valore veramente umano che non sia da Lui salvato ed elevato. E allora, quando il cristiano è un vero discepolo di Cristo, nessun valore gli è estraneo: egli lo riconosce, lo accetta, lo difende, lo promuove. San Gregorio di Nissa, uno dei più grandi pensatori del Cristianesimo, scrisse che la cultura, prima di incontrare Cristo, è come una donna incinta che non riesce e non può partorire quella vita che porta in sé. È ovvio che se il cristiano volesse imporre con una legge dello Stato ciò che è specifico ed esclusivo della fede cristiana, commetterebbe un grave errore: questo sarebbe integralismo. Ma che il cristiano possa e debba cercare di inserire nel tessuto sociale quell’universo di valori etici che altro non sono che le esigenze incondizionate ed assolute della verità dell’uomo, mi sembra incontestabile. Dire che questo è integralismo, significa o ritenere che valori del genere e una simile verità non esistono o si è dei relativisti, oppure che pur esistendo, essi non debbano avere alcuna incidenza nella progettazione e nella costruzione del sociale umano, e allora che povera società si vuole costruire! Povera umanamente, povera culturalmente, anche se, per caso, ricca quanto all’efficenza. E la riflessione di Gregorio di Nissa ci ricorda che questi valori una cultura veramente umana li ha già concepiti: Cristo li porta alla luce generando così l’uomo. Siamo suoi discepoli quando sentiamo questa responsabilità. Ma non si deve dimenticare che prima o poi la fedeltà a Cristo ci fa scontrare col mondo. Pensare a una presenza cristiana colla quale si è sempre d’accordo con tutti, è la più terribile illusione. Una comunità cristiana simile, una comunità che ha eliminato il “caso serio”, non ha più bisogno di persecuzione per renderla innocua: si è già distrutta da sola. O anche questo è integralismo? Allora era integralista anche san Paolo quando parlava dello scandalo e follia del Vangelo e quando diceva che se piacesse agli uomini, non sarebbe più stato servo di Cristo. Credo che durante i suoi duemila anni di vita, la Chiesa non abbia mai dovuto affrontare una persecuzione diabolica più potente di questa: il fatto che dei cristiani ritengano che il massimo della fedeltà a Cristo comporti un non confessarlo più davanti a tutti e in ogni luogo. Solo il demonio poteva inventare una simile menzogna.

 

4. Come interpreta la presenza cristiana nel mondo del lavoro: atto di solidarietà o un atto di aiuto al ricupero dell’identità cristiana nella società?

A me sembra che debba essere un aiuto al ricupero dell’identità cristiana e, solo così, diventa vera solidarietà con l’uomo. L’uomo che si confessa davanti ai cantieri Lenin, è lo stesso che non cederà di fronte al gelo del gulag totalitario marxista: l’esperienza e la storia di Solidarnosc ci insegna molte cose. Non è casuale questa coincidenza nello stesso uomo, se è vero tutto ciò che prima si è detto. Altrimenti il compromesso con il padrone di moda, con il conducente del giorno, sarà inevitabile.

 

5. La crisi delle ideologie: quale riflesso ha sulla società?

Bisognerebbe prima intendersi sul significato da dare al termine ideologia, divenuto oggi veramente polivalente. Mi sembra che la domanda faccia riferimento al fatto, notato da molti, del crollo, soprattutto nei giovani, di tanti idoli o miti. Il momento è delicato e veramente “critico”. Una volta tenevo una conferenza in una università spagnola. Alla fine, una giovane si alzò e molto semplicemente disse: “Vi abbiamo chiesto e chiediamo del pane, non dateci un sasso; vi abbiamo chiesto e chiediamo del pesce, non dateci uno scorpione”. E si sedette. Questa è la situazione: un desiderio di verità sta risorgendo nel cuore dell’uomo di oggi, dei giovani soprattutto. Ecco perché tutta una cultura che aveva ritenuto, nel suo sterile relativismo, come una conquista l’aver detto che non la verità, ma la libertà era l’unico valore, non ha più nulla da dire: nulla. Distruggendo il senso della verità, ha tolto all’uomo la possibilità di essere libero, poiché come scrisse Agostino: “Noi siamo liberi, perché ci subordiniamo alla verità”. E questa cultura è per fortuna finita nel cuore dell’uomo concreto, anche se ha ancora le sue accademiche tornate e domina nei grandi mezzi di comunicazione di massa.
Ci siamo mai chiesti perché Giovanni Paolo II è l’unico che, non dotato di nessuna forza umana, riesce a raccogliere attorno a sé milioni di persone? Credo perché semplicemente dice la verità, la verità di Cristo all’uomo sull’uomo: “Ma lui parla sul cuore e al cuore”, mi disse un poverissimo contadino filippino, dopo il viaggio apostolico nelle Filippine. E mi sono ricordato di san Paolo, quando parla di una legge scritta nel cuore di ogni uomo e di sant’Agostino quando scrive di una verità che abita dentro l’uomo. C’è questa attesa profonda e nella colta studentessa spagnola e nell’ignorante contadino filippino: è nell’uomo.
Questo — o quanto meno anche questo — è il riflesso della crisi delle ideologie: una purezza nel desiderio del cuore dell’uomo, nel suo desiderio più profondo, il desiderio di conoscere la verità. E Cristo è questa verità e noi cristiani siamo — vasi di creta con dentro un tesoro così prezioso — i missionari di essa.