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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Intervista di Andrea Tornielli
Il Giornale, 8 maggio 2004
CAFFARRA E LA POLEMICA SUL "PENSIERO DEBOLE"
"I cattivi maestri? Cerco la verità non il consenso"


Si può dissentire da Friedrich Nietzsche e Jean-Paul Sartre, ma anche da Gianni Vattimo o da Umberto Eco senza per questo essere tacciati di ignoranza o ricacciati in sacrestia perché si è "osato" criticare un pensiero sedicente "debole" ma in realtà fortissimo al punto da far apparire il dissenso come una profanazione? E’ accaduto che una pacata riflessione sull’educazione, presentata il 29 aprile da Carlo Caffarra, nuovo arcivescovo di Bologna, all’interno di un convegno regionale del Centro Sportivo Italiano sui "valori in parrocchia", si sia trasformata in un caso culturale e (quasi) politico sui "cattivi maestri" del pensiero contemporaneo. Tempestivamente interpellato dal Corriere della Sera, Massimo Cacciari, che non era citato nell’intervento, ha definito quest’ultimo "ingiudicabile dal punto di vista di una elementare educazione filosofica" e ha affermato che quelle del prelato sono parole di chi ha studiato filosofia su un cattivo Bignami. Vattimo, che invece era citato, ha bollato Caffarra come espressione di una "Chiesa naturaliter di destra". Edmondo Berselli su Repubblica è sembrato leggere in chiave di schieramento politico la riflessione dei prelato, riconducendola alla battaglia per le elezioni comunali di Bologna, come se Aristotele e Kierkegaard fossero iscritti al comitato per la rielezione di Guazzaloca, e Nietzsche, invece, fosse tra i sostenitori di Cofferati. Una volta conosciuto per intero il testo, molti cattedratici hanno reagito meno impulsivamente e si è aperto un interessante dibattito. Lui, l’arcivescovo, è rimasto zitto, senza replicare, un po’ stupito per le reazioni suscitate. Ha deciso di rompere il silenzio rispondendo alle domande del Giornale.

Eccellenza lei è a Bologna da tre mesi e fino ad oggi non aveva fatto parlare di sé. C’era davvero bisogno di prendersela con i numi tutelari della filosofia e della cultura contemporanea definendoli "cattivi maestri"?

"Un pastore ha sempre il dovere grave di difendere l’uomo e di prendersene cura, specialmente dei più giovani. Penso che sia utile richiamare in primo luogo il contenuto essenziale del mio intervento. Esiste una visione dell’uomo che rende non difficile ma impossibile l’educazione della persona, perché la rende ìmpensabile, se si intende l’educazione "introduzione alla realtà", cioè nella verità e nel valore di tutto ciò che esiste, mettendo in atto l’infinita capacità dello spirito umano di conoscere e di amare, fino al vertice che è l’incontro con Dio. Bene, solo se intendo l’educazione in questo modo, rendo giustizia all’uomo da educare. E nel mio intervento ho esposto - si capisce, assai schematicamente - quale sia quella visione, perché l’educazione debba essere pensata e realizzata come "introduzione alla realtà", perché. solo questo progetto educativo renda giustizia all’uomo. Per il resto, non mi sembra che criticare pacatamente il pensiero di un filosofo sia una profanazione o un delitto. La ricerca della verità non è prima di tutto ricerca del consenso. La definizione di "cattivi maestri", peraltro, non l’ho data io".

Non crede di avere provocato un’inutile levata di scudi facendo nomi e cognomi?

"Nel mio testo ho fatto citazioni di autori antichi e moderni: è normale in uno scritto di quella natura. Sono contento di aver suscitato la discussione su un tema così decisivo per il destino dell’uomo".

Lei sostiene che il "pensiero debole" della cultura contemporanea rende addirittura "impossibile" l’educazione. Perché?

"Più precisamente, rende impossibile l’educazione come "introduzione nella realtà". Non altri progetti educativi, che io ritengo però non conformi alla verità e al valore della persona umana, perché vanno "dal rifiuto della realtà umile quotidiana verso una scelta pseudoaristocratica della nobiltà del pensiero astratto" (Cornelio Fabro). Il "pensiero" debole rende impossibile l’educazione nel senso appena detto, perché nega precisamente che esista un rapporto originario dell’uomo con la realtà. Quel rapporto che Tommaso - mi scuso di usare questo linguaggio tecnico - chiama "apprehensio entis" (la percezione del reale), che è il grembo che genera continuamente tutta la vita dello spirito. Richiamarsi in questo contesto al sapere scientifico non è pertinente. La scienza non è in grado di affrontare queste domande. Forse le pone, specialmente oggi".

Ciò significa forse che soltanto Il cristianesimo educa davvero, cioè permette di essere "introdotti nel reale"?

"Non è questione di fede cristiana; è una questione di ragionevolezza e libertà. In altre parole: ciò che è in questione è l’umanità dell’uomo nel suo tendere alla pienezza di essere, cioè alla beatitudine. Oppure per essere beati, bisogna fuggire dalla realtà? O non è forse vero che la scuola dell’uomo è il suo bisogno di beatitudine? Non ho parlato del cristiano, ho parlato dell’uomo: dell’uomo concreto. Dell’uomo che lavora, che si sposa, che decide di diventare genitore, insomma che vive, e mi sono chiesto: come si può educare l’uomo perché non perda mai se stesso nel suo lavoro, nel suo matrimonio, nella sua paternità e maternità? In una parola nella sua vita? Certamente la ragione invoca - come già vide Platone - una rivelazione divina, perché solo illuminato da questa l’uomo può essere introdotto pienamente nella realtà. Amo definire il cristianesimo la piena introduzione dell’uomo alla realtà".

Il professor Vattimo ha affermato che Il suo intervento è espressione di "una Chiesa che si comporta come un esercito, marcia verso obiettivi da conquistare, terre spirituali da occupare".
Come risponde?

"Si tratta di una questione ben più seria: è l’umanità di ogni uomo che è in pericolo. Certo se l’uomo non corre alcun rischio di perdere semplicemente perché non esiste un "se stesso", la redenzione dell’uomo è vana e la Chiesa perde la sua ragione d’essere. La Chiesa ha ragione. d’essere se c’è un uomo a rischio di perdere se stesso e la sua dignità. La via della Chiesa - ha detto Giovanni Paolo Il - è l’uomo".

Può definire, in sintesi, il "nichilismo gaio e tragico" dei quali ha parlato nel suo Intervento?

"Mi piace farlo partendo da una citazione del Santo Padre: "Ma se c’è in me la verità, deve esplodere. Non posso rifiutarla, rifiuterei me stesso". Qui è indicato il dramma centrale dell’uomo, il dramma di una libertà che nega con la sua propria scelta quella verità sul bene che ha conosciuto con la sua propria ragione. ‘Spezzato questo legame costitutivo della libertà con la verità, la vita cessa di essere un dramma e diventa o una tragedia o una farsa. Per altro già Ovidio aveva scritto: "Vedo il bene e lo approvo e poi faccio il male"".

Monsignore, qual è la sua ricetta per contrastare quella che lei ha definito "una malattia mortale dello spirito" nelle giovani generazioni? Che cosa può ridestare "stupore e meraviglia" di fronte alla realtà e all’esistenza?

"L’imprevisto di un incontro. Un incontro del giovane con un adulto che gli testimoni, e non semplicemente gli insegni, l’esistenza di un Senso che non può essere distrutto da niente e nessuno. Ma la casa in cui vive il giovane oggi è quella descritta da Montale: "... un imprevisto/ è la sola speranza. Ma mi dicono/ ch’è stoltezza dirselo"? Il mio intervento ha voluto mostrare che non "è stoltezza dirselo", e pensarlo".