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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Corriere della Sera, 2 novembre 2007
Intervista di Aldo Cazzullo


BOLOGNA - Uomo tra i più vicini a Wojtyla, che lo volle arcivescovo di Bologna, e a Ratzinger, che l'ha fatto cardinale, Carlo Caffarra ha un sorriso bonario che contrasta con la fermezza delle parole. Nell'omelia per san Petronio ha denunciato la decadenza spirituale e civile di Bologna. E in questi giorni, racconta, la preoccupazione lo induce «a meditare e a pregare» per le sorti della città e del paese, che vede strettamente legate.

Cardinale, lei ha parlato del «dramma» di Bologna.

«Quanto dolore hanno i vecchi bolognesi! Quanto dolore per come è trattata questa città, che Burckhardt considerava la più bella del mondo! Una persona anziana mi ha detto: "Eminenza, soffro per lei, che è il cardinale cui tocca vedere la Bologna peggiore di sempre"».

Perché? Com'è Bologna?

«Sempre più sporca. E sempre più sporcata. Manca il rispetto per la casa che si abita: tutto è considerato lecito. Ci sono ragazzi in periferia che non sanno che esiste la Basilica di San Petronio. A un primo livello di riflessione, Bologna mi sembra ogni giorno di più una città dalle grandi potenzialità — economiche, culturali, sociali — che però sono come bloccate. A un livello più profondo, su cui rifletto da tempo, mi pare poi che Bologna soffra di un grave deficit di speranza. E la speranza è come il coraggio: chi non ce l'ha, non se lo può dare».

«Sazia e disperata», diceva il cardinale Biffi.

«Il mio venerato predecessore aveva colto nel segno. Scriveva Peguy che "spera solo colui che ha ricevuto una grande grazia". Bologna ha ricevuto una grande grazia: la sua identità, la sua grande tradizione cristiana e umanistica. Ma nel presente vive un'emergenza educativa. Patisce la corruzione del concetto di tolleranza. A volte la tolleranza si rinchiude sopra coloro che la praticano».

Tolleranza è parola usata quasi sempre in un'accezione positiva.

«Io invece penso che non sia la categoria migliore per connotare un modello di buona società. Perché si tollera il male. Ciò che pure è giudicato negativo non si può eliminare, lo si tollera. Se usata a proposito delle diversità che si incontrano, la tolleranza non è necessariamente un male, se si considera che la diversità può essere positiva. Ma la tolleranza è spesso collegata al concetto di indifferenza etica: la convivenza tra le persone è buona, a patto che vi si entri non possedendo alcuna appartenenza forte. Si può convivere solo se si è tolleranti, e si è tolleranti solo se si è nessuno. Ma con questa idea della convivenza si va necessariamente verso una società di soggetti sradicati, spaesati. esiliati da se stessi. e quindi estranei gli uni agli altri».

La giunta di centrosinistra si è appena spaccata sul tema della tolleranza: il sindaco Cofferati è accusato di non averne abbastanza.

«Non entro in giudizi di carattere squisitamente politico circa l'attuale amministrazione o qualsiasi altra. Non mi compete. Ma la sua domanda tocca un problema di fondo. La legalità è un bene umano fondamentale, e pertanto è parte costitutiva del bene comune. Guai però a dimenticare che la legalità non crea convivenza. Ne è una condizione, ma non la crea. La convivenza vera, buona, è creata dalla condivisione dei beni umani ritenuti non contrattabili, non negoziabili, costitutivi del sociale umano. Scriveva Leopardi nello Zibaldone che non c'è nessuna legge capace di farmi osservare le leggi. Questa condivisione di beni umani fondamentali ha fatto grande Bologna nella sua storia. Ma oggi è ancora testimoniata, innanzitutto nel rapporto tra le generazioni? È ancora vissuta? Mi diceva un'anziana signora: "Per me è semplicemente incredibile che una donna giovane non possa più uscire la sera". In effetti, uscire la sera a Bologna è rischioso. Quanto accade è segno di una mutazione profonda della città. Questa non è Bologna».

A Roma accade di peggio.

«Il fatto accaduto a Roma è di una gravità inconcepibile, e deve spingere a un serio di esame di coscienza soprattutto chi ha responsabilità pubbliche. A Bologna non siamo arrivati a questo punto, e spero che non vi arriveremo. Anche se in questi ultimi tempi gravi deturpazioni della dignità della donna sono aumentate. Quanto accade è segno di una mutazione profonda della città. Questa non è Bologna».

Quali sono gli altri sintomi della decadenza?

«I test di cui noi disponiamo ci confermano ogni giorno che i poveri diventano sempre più poveri. Ogni giorno si allungano le file alle mense delle parrocchie; e sono bolognesi, non immigrati dal Terzo Mondo. Ogni giorno si allungano le file agli sportelli della Caritas per esibire utenze assolutamente necessarie, acqua, gas, elettricità, che non si riescono più a pagare. È un aspetto molto serio, cui la Chiesa di Bologna sta facendo fronte in modo davvero encomiabile».

Bologna è città centrale nella politica italiana. Prodi, Parisi, ma anche Fini e Casini sono bolognesi. Il male cittadino è un male nazionale?

«Qui si prevede sempre ciò che accadrà a Roma. E accaduto storicamente, anche negli ultimi tempi».

Quindi torneremo a votare presto?

«Questo l'ha detto lei. Il problema non è solo di Bologna. Anche in questo, Bologna continua a essere una città laboratorio. Le scene di degrado nel centro storico ci riportano all'emergenza educativa e al grande tema della tradizione e dell'appartenenza. La tradizione non riguarda solo il nostro passato; è una dimensione del presente, dal cui riconoscimento o negazione dipende la consistenza della propria persona, della propria libertà, della propria capacità di rischiare. Ma la tradizione diventa costruttiva se si trasmette, attraverso la narrazione della vita, tra una generazione e l'altra. Quando la narrazione si interrompe, si dilapida la tradizione e si perde l'identità. Credo non ci sia mai stato un tempo di afasia narrativa come questo. Padri che non hanno più figli, ovviamente non in senso biologico. Figli che non hanno più padri. Se il padre ammutolisce, il figlio non sa più se c'è una risposta alla sua domanda di senso. Questo blocca la storia di un popolo, distrugge il senso di appartenenza, nega la grazia che ti fa sperare».

Bologna ha l'università più antica d'Europa. Non è un antidoto al degrado?

«Temo si sia rotto il buon rapporto tra la città e l'ateneo. Vede, gli studenti danno il volto alla città. Bologna muta aspetto a seconda che l'università sia aperta o chiusa. Anche io, come Chiesa, mi chiedo se siamo capaci di accogliere questa gioventù».

All'università di Bologna hanno insegnato e insegnano i più importanti intellettuali italiani, da Eco a Barilli. La cultura laica non le pare all'altezza del compito?

«Non ho elementi per dare un giudizio. Pongo un interrogativo. L'università di Bologna ha creato molte scuole di specializzazione di alto livello. Mi chiedo però se prima e dentro ogni specializzazione debbano risuonare le domande di fondo, che non devono essere censurate. Mi chiedo se i maestri abbiano il coraggio di porre le domande ultime, fondamentali, e di verificare la verità delle risposte, tra cui la risposta cristiana. Se sappiano infondere negli allievi la passione della ricerca, la gioia della verità. Il ruolo educativo dell'università è salvaguardato solo se questo accade».

La Chiesa di Ruini ha riconquistato un'egemonia? E oggi ai vescovi italiani manca Ruini?

«Se si esce dalla testimonianza, mediante l'atto educativo, della presenza della tradizione, si finisce nel permissivismo o nell'egemonia. Entrambe sono vere devastazioni della persona umana. La Chiesa italiana, nella persona del cardinal Ruini, ha compiuto — e continua a compiere con l'attuale presidente della Cei, il neocardinale Bagnasco — questa grande opera di testimonianza educativa del popolo cristiano, cui prestano attenzione anche molte persone non credenti. Se, come io penso, il tema centrale in Occidente è la questione antropologica, guai se la Chiesa non lo affrontasse. E lo deve fare solo in un modo: dire la verità circa l'uomo. Questo la Chiesa non lo può delegare a nessuno, tantomeno a un partito politico piuttosto che a un altro».

Sta dicendo che la Chiesa non può non fare politica?

«Questo discorso ha una forte rilevanza civile, quindi anche politica. Perché la questione antropologica, che è già conflitto di antropologie contrarie, oggi attiene anche ai grandi temi civili, che turbano la coscienza civile del nostro popolo: la biopolitica; il fondamento della nostra democrazia; il rapporto tra etica e religione e tra etica ed economia; la compresenza nella nostra comunità nazionale di culture profondamente diverse dalle nostre. A me è stata d'aiuto una distinzione che alcuni pensatori, non solo italiani, sono andati elaborando tra la sfera pubblica e la sfera politica. La sfera pubblica è lo spazio dove si elaborano e si confrontano tutte le visioni dell'uomo, nessuna esclusa, senza bisogno del permesso di nessuno. La sfera politica è il luogo della deliberazione, della produzione delle leggi, che postula una qualche intesa tra chi la pensa diversamente. Ogni giorno di più, con buona pace dei laicisti inconvertibili, la sfera pubblica non può fare a meno della soluzione religiosa. Il cardinal Ruini ha il merito storico di aver capito questo. I suoi due grandi lasciti sono il progetto culturale e un popolo cristiano che ha preso coscienza della sua identità. Sono sicuro che il suo successore continuerà su questa stessa linea. e abbia le capacità per farlo».

Che impressione le ha fatto leggere il giudizio di Giovanni XXIII su Padre Pio?

«Ho sempre avuto una grande devozione per Padre Pio. Se si mette in questione la sua santità facendo ricorso d'autorità del Papa, l'autorità del Papa in questo ambito si esprime nell'atto della canonizzazione, e non negli appunti delle sue agende private. E, per cortesia, non parlate più di Padre Pio come di una figura medievale, arcaica. Padre Pio si pone in piena continuità con tutte le grandi esperienze mistiche della modernità: Teresa di Lisieux, Edith Stein, Gemma Galgani. Padre Pio è modernissimo, perché ha vissuto il dramma della modernità: l'assenza di Dio. Si è caricato sulle spalle il dolore dell'uomo moderno, che ha perso Dio».