home
biografia
video
audio
english
español
français
Deutsch
polski
한 국 어
1976/90
1991/95
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
2015
2016
2017
Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Genitori non si nasce: un mestiere da imparare
Relazione "Genitori: quale autorità"
Castenaso, 18 gennaio 2008


Nel difficile "mestiere di genitori" uno dei problemi più ardui da affrontare e risolvere è quello dell’[esercizio dell’] autorità. Oggi specialmente: vedremo perché.

Sono venuto fra voi mosso soprattutto da due convinzioni fortissime: o la famiglia riacquista in pienezza la sua missione educativa o "il paese sarà sterminato" [così insegna un profeta, Malachia (cfr. 3,24)]; la Chiesa deve avere somma cura nell’aiutare le famiglie a riappropriarsi della loro missione educativa, altrimenti mancherebbe gravemente alla sua missione.

Vi ho così anche già detto che cosa mi propongo con questa mia riflessione: darvi un aiuto in ordine precisamente ad esercitare quell’autorità senza di cui la famiglia non educa. Non aspettatevi tutto da questa riflessione. Sperò però di potervi dare qualche aiuto.

Dividerò la mia riflessione nei seguenti punti: di che cosa si parla quando si parla di autorità in questo contesto? Perché senza autorità non è possibile l’educazione? Da che cosa oggi è insidiata l’autorità e quindi come immunizzarci da queste insidie? La risposta ai tre interrogativi suddetti costituisce i tre punti della mia relazione [Ho affrontato varie volte questo tema. Ultimamente nella conferenza tenuta a Castel S. Pietro Terme il 6 novembre 2007: Emergenza educativa: impegno, bellezza e fatica di educare].

1 [Che cosa è l’autorità di cui parliamo]. Voglio iniziare da un esempio che è al limite del banale.

Se voi uscendo da questa sala incontrate una persona che vi chiede l’indicazione della strada per andare a Ravenna, voi potete dare due risposte ragionevoli. Prima risposta: indicare esattamente il percorso. Seconda risposta: "non lo so; chieda ad uno più pratico".

L’esempio mi serve per introdurci ora dentro ad una comprensione più profonda di un’esperienza che ogni genitore che abbia figli ancora piccoli o giovani vive quotidianamente.

Ogni nuova persona che giunge in questo mondo – pensate al momento in cui avete visto per la prima volta vostro figlio – inizia un viaggio perché vuole, desidera arrivare ad una meta. Quale meta? La felicità. Non prendete questa parola nel senso vacuo a cui l’ha ridotto il nostro banale linguaggio quotidiano. S. Tommaso ne dà una definizione possente: pienezza di essere. È una vita piena. La vita è un cammino verso la felicità, e la forza che ci sostiene è il desiderio inestinguibile di essa. Ognuno di noi in fondo non vuole, non desidera che una sola cosa: una vita vera, cioè la felicità. Ma la nuova persona non sa quale strada deve percorrere, quale vita deve vivere, come vivere per raggiungere quella meta. Essa allora non può non chiederlo a chi nella vita lo ha introdotto: a suo padre e sua madre. Introdotta da loro nella vita, la nuova persona arrivata chiede ai genitori come vivere per vivere una buona vita, una vita felice.

Nessun genitore si sottrae a questa domanda; può sottrarsi a questa domanda. La risposta introduce il figlio nella realtà, nella vita. Che cosa implica nel genitore questa introduzione nella realtà della vita?

Vorrei aiutarmi ancora con un esempio. Se arriva nel luogo in cui vivete uno straniero che intende stabilirvisi, egli comincia a chiedere a chi vi abita tutte le necessarie informazioni per vivervi, ritenendo che gli abitanti conoscano il territorio.

Perché il genitore possa introdurre nella vita il figlio, ha bisogno di sapere che cosa è, che cosa significa la vita. Diciamo una parola più grande: deve essere in possesso di una "visione della vita e della realtà". Questa visione è come la carta topografica che mostrata al figlio, gli consente di muoversi nel territorio della vita.

Mi spiego ancora con un esempio. È un fatto narratomi da un’insegnante. La mamma di un suo alunno (quinta elementare) andò a dire all’insegnante: "sono preoccupata, perché mio figlio mi chiede: a che serve a vivere, se poi moriamo? A che serve studiare, se poi moriamo?" Non era un ragazzo svogliato. La ragione quando si sveglia non censura nessuna domanda, e chiede sempre il significato di ciò che vede. La madre voleva portare il bambino dallo psicologo. Forse ne aveva bisogno essa! Si introduce nella realtà rispondendo alle domande, fatte più o meno esplicitamente, sul senso della vita.

E’ precisamente la modalità con cui il genitore introduce dentro alla realtà, che ci fa capire che cosa è l’autorità. L’autorità è la modalità con cui il genitore introduce il figlio nella realtà.

Il genitore non è un istruttore disinteressato e neutrale di fronte alla risposta del figlio. Non dice: "se fai così … ti capiterà questo; se non fai così … ti capiterà questo altro. Ma a me non interessa che cosa farai". Esiste una profonda condivisione, com-partecipazione del destino, della sorte del figlio da parte dei genitori. Questi desiderano essere ascoltati, essere seguiti; diciamo: essere obbediti. Per due profonde ragioni strettamente connesse: perché desidera che il figlio viva bene; perché è certo della verità di ciò che gli sta dicendo.

Come fa a convincere il figlio? Provate a riflettere un momento e troverete subito la risposta. Se il figlio è certo che il genitore desidera il suo bene, cioè che lo ama [e chi ama, vuole il bene della persona amata], scatta in lui un’attrazione profonda verso ciò che il genitore gli sta proponendo, vedendo che il genitore stesso, vivendo lui medesimo ciò che gli sta proponendo, vive una vita contenta. Mi spiego meglio.

Che il genitore abbia ragione se gli dice che due più due fanno quattro, il figlio non fa fatica ad accettarlo. Che il genitore abbia ragione se gli dice che lavorare, che aiutare chi soffre, che amarsi è più bello che odiarsi, che essere indifferenti al bisogno dell’altro, che consumare la vita nell’ozio, il figlio fa fatica ad accettarlo. Deve come scattare in lui una sorta di attrazione verso il lavoro, la fraternità, l’amore. Deve vedere il bene nel suo splendore. Dove? in chi gliene parla.

È come se il genitore dicesse: "la vita è …: te l’assicuro perché io la vivo così ed i conti alla fine tornano". È come se dicesse: "questa è la visione della vita in base alla quale io vivo, e ti assicuro che i conti tornano". I conti tornano: vivendo in questo modo vivo una buona vita.

Siamo così giunti alla definizione di autorità. Essa consiste nella proposta di vita fatta dal genitore al figlio colla forza del richiamo all’esperienza della propria vita. I punti cardinali di questa definizione sono tre: (a) la proposta di vita; (b) la forza insita nella proposta; (c) il fondamento nella propria esperienza. Togliete uno di questi punti e non avrete più l’autorità che è propria dei genitori.

E il "comando" non entra nella definizione di autorità? Certamente sì. Esso è uno dei modi con cui la forza insita nella proposta si esprime. Mi spiego meglio.

Ci sono situazioni nel rapporto genitore-figlio nelle quali il genitore può, deve dire: "fai così, perché te lo dico io che sono tuo padre/tua madre, la questione è finita!" Anche in queste situazioni il genitore si fa "forte" del legame profondo, vitale, che lo lega al figlio. Tuttavia, se questo modo di esprimere la forza della proposta fosse frequente, bisognerebbe riflettere seriamente.

Sarebbe interessante ora fare un confronto con due altre fondamentali forme di autorità, quella dello Stato e – per chi è credente – quella della Chiesa, e vederne somiglianze e dissomiglianze. Non abbiamo il tempo.

2 [Senza autorità non c’è educazione]. Quando manca l’autorità nel rapporto genitori-figli? Tenendo presenti quelli che ho chiamati "punti cardinali", non è difficile rispondere.

Manca l’autorità: (a) quando non viene fatta nessuna proposta di vita ["fai come vuoi", "io non ti dico più nulla … ti arrangi … non mi vuoi ascoltare!"]; (b) quando viene fatta una proposta ma senza intima convinzione ["c’è oggi una tale confusione, che io non so più che cosa dire a mio figlio!"]; (c) quando la proposta viene fatta non mostrandone l’evidenza nella propria vita ["non voglio che mio figlio faccia i sacrifici che ho fatto io"; "non fare come ho fatto io"].

Perché in queste condizioni nessuna educazione diventa possibile? Non è difficile rispondere: perché la persona non viene più introdotta nella realtà.

(a) Perché una persona possa muoversi in un territorio deve conoscerne le strade. Senza conoscenza di esse può solo essere un vagabondo, non un abitante. Fuori metafora. Se la madre ritiene di dover "guarire" suo figlio perché questi semplicemente le fa una domanda inevitabile per l’uomo ragionevole, come potrà il figlio vivere? In un solo modo: senza pensarci, alla giornata, come si dice. Gli si interdice la gioia di vivere e gli si apre davanti la voragine della noia. Non si educa se non si fa nessuna proposta di vita

(b) Perché una persona possa muoversi in un territorio, deve essere sicura della indicazione. Se uno chiede: "come si va Ravenna?" e si sente rispondere: "mi sembra che si debba andare a destra, però non sono sicuro", chi ha chiesto, normalmente non si muove, ed aspetta uno più pratico. Fuori metafora. Se il figlio non può fidarsi fino in fondo della proposta del genitore perché verifica l’incertezza stessa del genitore, diventa un timido, ma nel senso più profondo del termine. Incapace cioè di scelte libere: più che muoversi, è mosso.

(c) Perché una persona possa fare le sue scelte, deve ricevere proposte che lo attraggono. Noi possiamo camminare perché c’è un terreno su cui poggiarsi: nel niente si può cadere ma dal niente non viene nessuna spinta per uscirne. L’attrazione – come dicevamo – è la vita del genitore. Senza questa visione, il figlio è incapace di scegliere.

Siamo così giunti ad una conclusione che è paradossale, ma vera. Senza autorità non c’è educazione, perché non si generano persone libere. La mancanza di autorità genera schiavitù. E la perdita della libertà è la perdita di se stessi.

3 [Da che cosa oggi l’autorità è insidiata]. Da tutto quanto ho detto in positivo e in negativo deriva che dobbiamo essere molto vigilanti nel custodire integra la figura del rapporto educativo. Per questo dobbiamo sapere da che cosa oggi il principio di autorità è insidiato, per essere immunizzati da queste insidie.

Il principio di autorità è distrutto da due atteggiamenti: l’autoritarismo e il permissivismo. Sono queste le due forme che corrompono e decompongono l’autorità dell’educatore e del genitore.

L’autoritarismo è l’attitudine del genitore che impone una proposta senza motivarla.

Prendiamo il termine "motivazione" nel suo significato letterale: ciò che rende capace la proposta di muovere la libertà del figlio a scegliere la proposta del genitore.

Ho già detto che cosa rende una proposta di vita attraente: è il fatto che questa proposta di vita è vera e buona in se stessa; il figlio la vede tale – vera e buona – nella persona del genitore. L’unità intima della bontà e della verità intrinseca della proposta con la concreta realtà di chi la fa: questa è la forza motivante.

Quando allora la proposta da autorevole diventa autoritaria? Quando la si impone senza motivarla o perché non è una buona proposta o perché non la si mostra viva, attraente nella propria persona.

Ma la decomposizione del principio di autorità oggi più frequente è il permissivismo. Esso consiste nell’assenza di ogni proposta di vita: "non propongo nulla, così quando sarà grande farà liberamente le sue scelte". Non mi fermo a considerare la stoltezza di questa posizione educativa, e sulla devastazione che essa provoca nell’umanità dell’educando. La scelta presuppone conoscenza, confronti. Se non proponi nulla, non sarà mai una persona libera.

Come difendersi dall’insidia dell’autoritarismo e del permissivismo? La risposta esigerebbe una lunga riflessione. Mi limito all’essenziale.

La radice dei due atteggiamenti suddetti non raramente è una sola: il relativismo. Il pensare cioè che non esistono proposte di vita vere e proposte di vita false, ma che tutte si equivalgono. Se il relativismo entra nel cuore e nella mente di un educatore, questi non può che o imporre ciò che propone o – più frequentemente - non proporre nulla.

Come può uscire da questo rischio? Non parlo dell’approccio filosofico del problema, ma dell’approccio educativo. Esiste una via di uscita semplice: fiducia nella tradizione in cui viviamo. Il tema della tradizione è centrale nel discorso educativo. Mi fermo un poco.

Tradizione non significa conformismo ripetitivo a ciò che si è sempre fatto: questa è la caricatura della tradizione. Essa al contrario è la vita di un popolo che viene trasmessa di generazione in generazione come forma di vita, visione della realtà, dimora di un popolo. La "proposta di vita" di cui ho parlato tante volte non è un’istruzione, non è una prescrizione di regole: è un fatto che ha già preceduto sia chi educa sia chi è educato, e che ora mi raggiunge attraverso chi mi ha generato nella vita. La tradizione non è solo il nostro passato, ma è anche il nostro presente, dal cui riconoscimento ed assimilazione dipende la costruzione della propria vita. Intendere la tolleranza come l’azzeramento di tutto ciò che ci costituisce è uno degli errori più gravi che possiamo commettere. Chi si radica dentro alla tradizione che costituisce le radici del nostro popolo, è in grado di fare una proposta di vita e di rendere capace chi è educato a fare le sue scelte. Il rapporto intergenerazionale è la colonna portante di ogni civiltà.

4 [Conclusione]. Queste ultime riflessioni mi hanno già portato alla conclusione.

Non vorrei che i genitori presenti uscissero dalla sala con la convinzione che educare sia una cosa molto complicata. No: è difficile, come tutte le cose grandi, ma è molto semplice. Almeno in famiglia.

In una vita normale di famiglia, nella vita quotidiana dove si vive uno con l’altro, tutto ciò che ho detto prima di positivo si realizza … senza accorgersene. Come? Precisamente vivendo assieme, condividendo la stessa vita purché ciascuno sia se stesso: il genitore genitore, il figlio figlio, il fratello/sorella fratello/sorella.

Un autore medioevale scrive: "Noi siamo come dei nani seduti sulle spalle dei giganti. Vediamo quindi un numero di cose maggiori degli antichi, e più lontane non per la penetrazione della nostra vista o per l’elevatezza della nostra statura, ma perché essi ci sollevano e ci innalzano di tutta la loro gigantesca altezza".

Parlavo della tradizione come del fertile terreno che ci nutre. Siamo sulle spalle della Chiesa "che ci solleva e ci innalza di tutta la sua gigantesca altezza". Inserite la vita delle vostre famiglie in essa, e diventeranno vere scuole di umanità.