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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


GIUBILEO DEL MONDO DEL LAVORO
Seminario di studio: 29 aprile 2000

[Introduzione]. E’ quanto meno all’apparenza una cosa strana che nella nostra città sia proprio la Chiesa ad affrontare il tema "lavoro" in occasione del primo maggio. L’apparente stranezza però scompare da questa iniziativa se diciamo, a modo di introduzione, le ragioni che ci hanno spinto ad iniziare il Giubileo del mondo del lavoro in questo modo. Esse sono principalmente le seguenti.

La prima. Credo che sia innegabile che il problema lavoro in termini di occupazione continui ad essere un problema cruciale della nostra comunità civile. E poiché quando il problema del lavoro si pone in questi termini, è la dignità stessa delle persone e della famiglia ad essere messa in pericolo, è ovvio che la Chiesa non possa non sentirsene profondamente coinvolta. L’indifferenza eventuale della Chiesa sarebbe impensabile dal momento che l’uomo "è la prima e fondamentale via della Chiesa" [Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Redemptor hominis, 14; EE 8/43] in forza del mistero stesso della Redenzione.

La seconda. Esiste però oggi un problema-lavoro i cui termini superano i confini della nostra città, ma nei confronti dei quali dobbiamo essere assai consapevoli e vigilanti. "La nuova traiettoria tecnologica implica un risparmio del tempo di lavoro necessario alla produzione di beni e servizi, un risparmio che, finora, si è tradotto principalmente in un risparmio di lavoratori e, quindi, in aumenti della disoccupazione (nascosta, come negli USA, patente, come in Europa). E’ questo un esisto ineluttabile?" [C.E.I. (a cura di) Fede, libertà, intelligenza, Piemme ed., Torino 1998, pag. 180].

La terza. E’ una conseguenza delle altre due. In una situazione assai nuova, si pone un problema assai urgente per quanto attiene alle giovani generazioni: la loro educazione-formazione al lavoro. Dimensione costitutiva come non mai del processo educativo.

Mi fermo, perché è più importante ora ascoltare la riflessione di chi vive queste ragioni dentro all’impresa economica, sia pure con responsabilità diverse e complementari.

[Conclusione]. Dopo le penetranti riflessioni che abbiamo ascoltato, vorrei tentare una sintesi che non sia solo il riassunto di ciò che è stato molto ben detto. Poiché non voglio prolungare eccessivamente la mia conclusione, sono costretto ad essere un po’ … icastico e sommario nelle mie affermazioni. Ma ciò è dovuto, credetelo, solo alla ragione suddetta.

1. Mi vado convincendo ogni giorno di più che alla base di tutte le gravi difficoltà e problemi posti dall’economia ci sia la questione del fondamento antropologico del discorso economico. Mi spiego subito ponendo l’interrogativo di fondo: è fattualmente vero che il comportamento umano è guidato unicamente da motivazioni utilitaristiche? Esiste veramente l’homo oeconomicus?

La scoperta del "mercato" è stata di grande importanza per capire l’economia, e si è espressa nella dottrina utilitaristica: da quel momento gran parte della teoria microeconomica si è sviluppata in funzione della massimizzazione della utilità di un insieme di individui, ciascuno nella ricerca del proprio benessere. Ed il processo successivo è andato nella progressiva "invasione" di questo paradigma dentro a tutte le attività economiche, anche di coloro che hanno responsabilità pubbliche.

Se sono innegabili i positivi effetti di questa impostazione, oggi non c’è più nessuno che non ne veda il limite. Il vero problema è di vedere esattamente in che cosa questo limite consista. Mi limito al riguardo a due riflessioni.

La prima. Non si può dimenticare che la libertà economica non esaurisce l’intero significato della libertà umana: ne è solo un aspetto. "Quando quella si rende autonoma, quando cioè l’uomo è visto più come un produttore o un consumatore di beni che come un soggetto che produce e consuma per vivere, allora perde la sua necessaria relazione con la persona umana e finisce con l’alienarla ed opprimerla" [Lett. Enc. Centesimus Annus 39; EE 8/1436].

La seconda. Di conseguenza, esistono dei beni che non possono essere lasciati ai puri meccanismi di mercato, poiché ci sono dei beni che ineriscono così strettamente alla persona umana, che non si possono vendere o comprare. Per esempio: il bene della cura medica quando sono ammalato; il bene della istruzione. Si vuole con ciò dire che la produzione dei "beni pubblici" è e deve essere lo Stato? La conclusione si è dimostrata e si va dimostrando sempre più falsa. Anche dal punto di vista economico, poiché da ciò è derivata una forte espansione della spesa e quindi un aumento della tassazione e del debito pubblico. E’ necessario quindi ripensare tutto lo stile architettonico del sociale secondo il "principio di sussidiarietà": il fatto che sia "bene pubblico" non significa necessariamente che debba essere prodotto dallo Stato.

Ripensare il sociale in termini del principio di sussidiarietà "significa, innanzi tutto, prendere coscienza dell’importanza da attribuire ad una serie di gruppi umani, costituenti il cosiddetto settore del privato-sociale, o Terzo-settore, alcuni antichi (come la famiglia e la scuola) e altri recenti (come il volontariato, le organizzazioni non governative). La loro attività, già oggi di grande efficacia nella produzione di beni politici e nella creazione di solidarietà, se opportunamente potenziata, potrebbe aumentare ogni giorno più " [G. Chalmeta, La giustizia politica in Tommaso d’Aquino, Armando edit., Roma 2000, pag. 134].

E siamo così al punto fondamentale: l’homo oeconomicus è un’astrazione, l’uomo mosso solo da motivazioni utilitaristiche. L’uomo è nella sua natura "amico dell’uomo". "E’ alienata la società che, nelle sue forme di organizzazione sociale, di produzione e di consumo, rende più difficile … il costituirsi di questa solidarietà" [Lett. Enc. Centesimus Annus 41,3; EE8/1441].

2. Vorrei attirare poi la vostra attenzione su un problema particolare, ma che reputo di grande importanza: è il tema del rapporto tra tempo del riposo e tempo della festa. La domanda che pongo è la seguente: va assecondata la tendenza di disgiungere la festa dal riposto settimanale? Mi sono fatto questa domanda per due ragioni. Una di carattere "pastorale", l’altra di carattere "antropologico".

La ragione pastorale è che per il credente, il giorno di riposo non è solamente e principalmente … di riposo. Esso è il giorno in cui è accaduto l’evento fondamentale di tutta la nostra fede, che ha generato la nostra identità cristiana: la Risurrezione di Cristo e l’effusione del suo Spirito. Esso pertanto, per i significati che evoca e le dimensioni che implica in rapporto ai fondamenti stessi della fede, rimane un elemento qualificante per la comunità cristiana: un giorno irrinunciabile.

E qui aggancio la ragione antropologica. Se riduciamo il giorno di festa a giorno di riposo, inevitabilmente veniamo ad accettare quella definizione di uomo come "homo oeconomicus" che, come abbiamo già detto, è alla base della problematica anche economica attuale. Perché? Per il fatto che ci si riposa per poter poi lavorare ancora. Si aggiunga poi la grande industria del riposo che lo trasforma in divertimento chiassoso e sconclusionato. Il risultato è che alla fine del giorno del riposo si è più stanchi e si ritorna al lavoro aspettando il venerdì sera. E così via.

Il tema del rapporto "lavoro-riposo-giorno di festa" è ineludibile e centrale per una ricostruzione del tessuto umano nella nostra società. Lo avevano ben visto, dai rispettivi punti di vista, sia Mosè sia il Faraone: "Dopo, Mosè ed Aronne vennero dal Faraone e gli annunziarono: "Dice il Signore: lascia partire il mio popolo perché mi celebri una festa nel deserto" [Es 5,1]. Era il primo annuncio della liberazione che consisteva nella possibilità di celebrare una festa. "Il re di Egitto disse loro: "Perché, Mosè ed Aronne, distogliete il popolo dai suoi lavori? Tornate ai vostri lavori" [4]. Era la risposta del padrone di turno: non si deve mai distogliere l’uomo dai suoi lavori, anche quando gli si concede di riposare.

Come potere vedere, né poteva essere diversamente, parlando del lavoro abbiamo finito per parlare dell’uomo tout court e del significato della sua libertà. Era inevitabile: il lavoro è uno dei fatti che definisce la persona umana e con esso è la persona umana come tale ad essere questionata.