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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


«Familiaris consortio - Istituto Giovanni Paolo II e attuale situazione del matrimonio e della famiglia», intervento al Solenne Atto Accademico a vent’anni dalla fondazione dell’Istituto
Roma, 15 maggio 2001


Formulo subito la tesi che costituirà il contenuto di tutta la mia riflessione seguente: la visione teologico-antropologica insegnata dalla Esortazione apostolica Familiaris consortio (FC) e che è stata la base dei primi venti anni di ricerca, di insegnamento e di studi dell’Istituto Giovanni Paolo II, si è dimostrata profetica nei confronti di quanto oggi sta accadendo al matrimonio e alla famiglia.

La formulazione della tesi orienta la distribuzione della materia della mia riflessione in due momenti fondamentali: richiamo essenziale alla visione teologico-antropologica della FC; condizione in cui attualmente versano matrimonio e famiglia. Concluderò con un terzo momento, spiegando il significato profetico che ho attribuito a FC.

 

1. Visione teologico-antropologica di FC

 

Leggendo attentamente la parte teologico-antropologica di FC (cfr. parte seconda, 11-16), possiamo individuare nel testo pontificio alcune certezze di fondo. È dal loro insieme armonico che si evince la visione teologico-antropologica di FC.

 

1. 1. La prima certezza di fondo: il matrimonio e la famiglia sono realtà “naturali”. Essi si radicano profondamente nella natura stessa della persona umana. Togliamo subito un equivoco che può insidiare questa formulazione. Essa non va intesa nel senso di derivare da essa la conseguenza che la persona umana debba sposarsi per realizzarsi. Quale è il senso preciso di questa affermazione? Esso dipende dal senso che ha nella FC “natura della persona umana”.

«Noi conosciamo pienamente ciò che qualcosa è, solamente quando conosciamo ciò che è nella sua realizzazione finale. Ciò è vero anche per l’essere umano. Noi conosciamo ciò che un essere umano è, solamente quando sappiamo ciò che è chiamato ad essere. Questo assioma è diametralmente opposto all’assioma che domina la nostra cultura scientifica e che dice: ciò che qualcosa è, e quindi ciò che è anche un essere umano, lo so quando conosco di che cosa è fatto e come è giunto all’esistenza. Già Platone nel Fedone discute la differenza fra questi due approcci e dimostra il primato dell’approccio teleologico su quello genetico» [R. SPAEMANN, “On the Anthropology of the Encyclical Evangelium vitae”, in PONTIFICIA ACADEMIA PRO VITA, Evangelium vitae. Five Years of Confrontation with the Society, LEV 2001, 437].

Interrogarsi sulla natura della persona umana, costruire la risposta alla domanda sull’uomo significa porre la domanda e cercare di costruire la risposta sul destino dell’uomo: sulla direzione e sul senso del suo esserci. Ascoltiamo l’incipit della parte seconda di FC: «Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza: chiamandolo all’esistenza per amore, l’ha chiamato nello stesso tempo all’amore». La natura della persona umana è costituita dal suo essere “ad immagine e somiglianza” di Dio. Quando Tommaso scrive: «praepositio… “ad” accessum quemdam significat, qui competit rei distanti» [I, q. 92, a. 1c], esprime un’idea comune ai Padri greci. La natura della persona umana è “tendenziale in riferimento a…”. Ciò che fa di essa un “unicum” nell’universo creato visibile è che il termine di questo essere-tendenza è Dio stesso. Ma FC non dice questo solamente. Essa afferma che l’intera natura della persona umana è definita dalla sua “vocazione all’amore”. Dice il testo:

«Dio è amore e vive in se stesso un mistero di comunione personale di amore. Creandola a sua immagine (…) Dio iscrive nell’umanità dell’uomo e della donna la vocazione, e quindi la capacità e la responsabilità dell’amore e della comunione. L’amore è, pertanto, la fondamentale e nativa vocazione di ogni essere umano» [11, 2].

L’uomo è costituito in ordine all’amore: la sua natura è orientata all’amore. Ne deriva che, come ha scritto Giovanni Paolo II nell’Enciclica Redemptor hominis,

«L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente» [10, 1; EE 8/28].

È necessaria a questo punto una rigorizzazione concettuale. La definizione di uomo che stiamo elaborando non deve essere intesa nella luce di un’affermazione del primato dell’etica sull’ontologia. L’uomo non è definito da una esigenza, da un dovere, da una vocazione neppure: esso è definito dall’essere egli fatto in modo tale che l’amore ne indica la perfezione, il bene ultimo. È dentro a questa rigorizzazione concettuale che si comprende l’affermazione forse più profonda fatta dal Concilio Vaticano II sull’uomo:

«Questa similitudine [= una certa similitudine tra l’unione delle persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nell’amore] manifesta che l’uomo... non possa ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé» [Cost. Past. Gaudium et Spes 24, 4].

L’uomo può perdere il proprio “se stesso”: può cioè dilapidare la sua umanità e quindi compiere una pseudo-autorealizzazione. Questo sperpero accade quando non realizza se stesso nel dono di sé.

Siamo ora in grado di cogliere il significato preciso e pieno del primo insegnamento fondamentale di FC. Matrimonio e famiglia sono radicati nella natura della persona umana perché sono in grado di esprimere l’intimo orientamento al dono di sé che la definisce. Matrimonio e famiglia non sono“estranei” alla natura della persona umana, ma consentanei alla sua struttura intima.

Prima di procedere oltre, vorrei dedurre subito alcuni corollari che ci saranno di grande utilità ermeneutica nella seconda parte della riflessione.

Il primo corollario è che l’alternativa fondamentale, il dramma ultimo dell’uomo è costituito dall’amare o non amare e che quindi ciò di cui l’uomo ha più bisogno è di sapere la verità sull’amore: “chi odia il suo fratello cammina nelle tenebre”.

Il secondo corollario è che, d’altra parte, la verità sull’amore diventa irraggiungibile se prima non si penetra nell’essere stesso e nel valore, che è costitutivo di ciascuna persona. «Le categorie communio, persona, dono, possiedono tutte una loro propria grandezza ed un loro proprio peso specifico, senza il quale il loro funzionamento nel mondo del pensiero sarebbe necessariamente difettoso» [K. WOJTYLA, cit. da T. STYCZEN, L’antropologia della Familiaris consortio, in Anthropotes 9/1 (1993) 9, nota 3]. Esiste una connessione fra antropologia ed etica (ens et bonum convertuntur) con un primato della prima nei confronti della seconda.

 

1.2. La seconda certezza di fondo di FC è che matrimonio e famiglia entrano nella storia della salvezza, sono una realtà dell’economia della salvezza. Questa collocazione è decisiva per capire la visione teologico-antropologica di FC. Essa viene descritta nel mondo seguente:

«La comunione d’amore tra Dio e gli uomini, contenuto fondamentale della Rivelazione e dell’esperienza di fede di Israele, trova una sua significativa espressione nell’alleanza sponsale, che si instaura fra l’uomo e la donna. È per questo che la parola centrale della Rivelazione, “Dio ama il suo popolo” viene pronunciata anche attraverso le parole vive e concrete con cui l’uomo e la donna si dicono il loro amore coniugale. Il loro vincolo diventa l’immagine e il simbolo dell’Alleanza che unisce Dio e il suo popolo» [12, 1-2].

Per comprendere esattamente la collocazione del matrimonio e della famiglia dentro all’economia della salvezza sono necessarie alcune precisazioni.

Trattasi di una collocazione che sembra fondarsi sopra la “similitudine”: l’esperienza coniugale entra nell’economia della salvezza in quanto mezzo espressivo della stessa, come linguaggio umanamente comprensivo del mistero dell’Alleanza. In realtà non è questo il modo giusto di capire. Si tratta di una vera e propria partecipazione di cui la coniugalità è dotata nei confronti del mistero dell’Alleanza. È questa l’essenza della sacramentalità propria del matrimonio di due battezzati. Dalla partecipazione deriva la similitudine, non viceversa: la partecipazione definisce l’ontologia del sacramento, la similitudine l’etica. Questo ordine va accuratamente custodito.

Ogni partecipazione consiste nel possedere in parte una perfezione che in se stessa è più ampia. La perfezione cui si riferisce il testo di FC è di volta in volta indicato con l’amore di Dio verso il suo popolo [12, 2], Alleanza che unisce Dio e il suo popolo [ib.l, lo Sposo (Cristo) che ama e si dona [13, 1] sulla Croce. La perfezione è quella insita nel dono che di sé ha fatto Cristo sulla Croce: «li amò eis télos» [Gv 13, 1]. Dono “de quo magis cogitari nequit”. La limitazione di questa perfezione negli sposi che pure ne partecipano realmente, è dovuta al fatto ovvio della loro creaturalità ed imperfezione morale, oppure alla forma della coniugalità che essa assume negli sposi? La domanda verte sulla coniugalità come limitazione della partecipazione all’amore che ha mosso Cristo a donare Se stesso sulla Croce. La questione, come si capirà subito, non è di dettaglio.

La mia idea è che la coniugalità è limitativa, ma non nel senso che essa sia estranea, estrinseca all’amore di Cristo, ma nel senso che è in grado di esprimerne solo una dimensione [cfr. 16, 1]. Tutti i colori dell’iride sono presenti nella luce, ma è necessario lo spettro per vederli. Tutte le forme dell’amore, del dono di Sé, sono presenti nell’auto-donazione di Cristo sulla Croce. Ma la ricchezza del tutto ha bisogno del frammento per farsi conoscere. Nello stesso tempo però il frammento rimanda sempre al tutto: l’amore coniugale rimanda per sua natura oltre se stesso, verso una pienezza d’essere che esso non è capace né di promettere né di realizzare [cfr. 1 Cor 7, 29].

Ci eravamo proposti di vedere come la FC pensa la presenza, la collocazione del matrimonio dentro all’economia della salvezza. Questa è vista nelle tre dimensioni che sono proprie del sacramento. È collocato nella storia della salvezza perché il matrimonio è memoriale dell’avvenimento centrale dell’economia salvifica, la morte-risurrezione del Signore; perché è attualizzazione dello stesso nel senso che l’effetto primo ed immediato della celebrazione sacramentale è il vincolo coniugale, partecipazione reale all’appartenenza reciproca di amore di Cristo colla Chiesa; perché è prolessi del compimento definitivo, quando Cristo sarà tutto in tutti (cfr. 13, 7-8).

 

1. 3. La terza convinzione di fondo riguarda la relazione esistente fra la natura della persona umana e del matrimonio [prima convinzione] e il matrimonio-sacramento [seconda convinzione].

A dire il vero questo punto della visione teologico-antropologica di FC è in alcuni passaggi più accennato che sviluppato. Penso che sia stato uno dei meriti più importanti dell’Istituto di aver dato notevole sviluppo a questa tematica durante questi vent’anni.

Parto da due testi di FC: «In questo sacrificio [= quello di Cristo sulla Croce] si svela interamente quel disegno che Dio ha impresso nell’umanità dell’uomo e della donna, fin dalla loro creazione» [13, 2: in nota si cita Ef 5, 32]. E poco più sotto: «L’amore coniugale raggiunge quella pienezza a cui è interiormente ordinato, la carità coniugale, che è il modo proprio e specifico con cui gli sposi partecipano e sono chiamati a vivere la carità stessa di Cristo che si dona sulla Croce» [ib.].

Le due affermazioni si articolano e si connettono in quanto la prima è ontologica: parla dell’essere dell’uomo e della donna definito come disegno del Creatore; la seconda è etica: parla della pienezza, della perfezione della coniugalità definita come amore. Teoreticamente la più importante è la prima. Tenendo conto di quanto ho detto all’inizio della mia riflessione, primato dell’approccio teleologico per capire una realtà, noi constatiamo che il “télos” verso cui guardava Dio creatore nell’atto stesso in cui creava la persona umana, era “il sacrificio che Gesù Cristo fa di se stesso sulla Croce per la sua Sposa”. È questo avvenimento la “entelecheia” della persona umana. Si noti bene che il testo non parla di persona umana in generale, ma di “umanità dell’uomo e della donna”. Si è qui aperta una pista di riflessione tesa a mostrare come mascolinità- femminilità trovano nel mistero di Cristo la loro unità che salvaguarda la diversità, oltre una visione sia di contrapposizione insuperabile sia di insignificanza e irrilevanza ultima della divaricazione sessuale. Cioè: il mistero nuziale di Cristo-Chiesa esprime la verità della persona umana e la partecipazione a questo mistero nuziale è realizzazione perfetta della umanità in quanto maschile-femminile.

La trascrizione sul registro etico di quest’affermazione ontologica significa che l’amore coniugale, nel senso della sua naturalità di cui ho parlato al § 1. 1. è orientato a realizzarsi come carità coniugale. Ciò non significa più grande obbligo: il matrimonio sacramento è più indissolubile che il matrimonio non sacramento. Significa che l’amore, inteso come dono di sé a cui la persona è finalizzata, quando assume la forma della coniugalità non è perfetto fino a quando non è elevato a carità coniugale. Il tempo affidatomi non mi consente di procedere oltre. Vorrei però dedurre alcuni corollari da questo modo di vedere il rapporto fra matrimonio naturale e matrimonio sacramentale.

Il primo corollario è una tesi classica nella dogmatica cattolica. La realtà che costituisce l’uno [la sua “materia” e la sua “forma”] è identica alla realtà che costituisce l’altro. Che cosa opera l’elevazione dell’uno nell’altro nel caso concreto? l’indistruttibile inserimento nell’Alleanza sponsale di Cristo colla Chiesa operata nella persona umana dal Battesimo.

Il secondo corollario è un’esplicitazione del primo. Si ha qui quella “inclusio” di ogni realtà nel mistero del Cristo, sulla quale amavano tanto riflettere i Padri greci. Lo sposarsi, il matrimonio è già incluso in qualche modo in Cristo: intendo parlare del matrimonio naturale. In qualche modo, nel senso che esso è già orientato verso Cristo e potenzialmente capace di essere da Lui elevato. È per questa ragione che la Chiesa tratta con grande rispetto ogni vero matrimonio, anche quello non sacramentale.

 

1. 4. La quarta convinzione di fondo riguarda il rapporto coniugalità-dono della vita [cfr. n. 32]. Penso che anche al riguardo l’apporto dato dall’Istituto in questi vent’anni sia stato notevole. In sostanza, FC ed il successivo sviluppo della riflessione ha mostrato l’intrinseca “pericoresi” di coniugalità/dono della vita: la coniugalità implica nella sua stessa essenza di communio personarum l’orientamento al dono della vita, e reciprocamente il dare origine ad una nuova persona umana deve accadere solo attraverso quell’atto nel quale i due coniugi diventano una caro, ed è quindi espressione eminente della communio personarum.

Questa visione dimostra la falsità di due tesi opposte. Quella che configura la coniugalità come “mezzo” per la procreazione, e quella che pone un rapporto estrinseco o solo di fatto fra coniugalità e dono della vita.

 

Concludo la prima parte della mia riflessione. Essa si proponeva una presentazione sintetica della visione teologico-antropologica che FC ha del matrimonio e della famiglia. Essa (visione) si sostiene su quattro affermazioni fondamentali. Nel loro insieme esse dicono che matrimonio e famiglia secondo FC sono una realizzazione del “télos” della persona, che la inserisce dentro alla economia della salvezza, in forza della creazione dell’uomo e della donna in Cristo, in vista del dono della vita.

 

2. L’attuale situazione del matrimonio/famiglia

 

Che cosa è accaduto durante questi venti anni nei quali la visione teologico-antropologica di FC ha dato origine al lavoro di ricerca e di insegnamento di questo Istituto? La mia risposta è la seguente: è arrivato al termine quel processo di de-costruzione dell’istituzione matrimoniale e familiare, così che ora ci troviamo nelle mani tutti i pezzi dell’edificio, ma essi non hanno più quel significato loro proprio che derivava dall’intero.

Nello spiegare analiticamente la mia risposta, procederò coll’ordine seguente. Dapprima descriverò ciò che a mio giudizio è alla radice della decostruzione: la demolizione operata nella modernità della soggettività umana (2. 1); l’impensabilità e l’impraticabilità del matrimonio (2. 2); i pezzi che ci troviamo tra le mani (2. 3).

 

2.1. La demolizione della soggettività

Vorrei descrivere questo processo brevemente, iniziando col chiarire che cosa io intenda per “soggettività”. Una consistente tradizione teologica [Gregorio di Nissa, per l’Oriente; Tommaso d’Aquino, per l’Occidente] pone nella libertà il segno più inequivocabile della somiglianza dell’uomo a Dio. L’atto libero è il punto in cui convergono le due fondamentali energie dello spirito, la ragione e la volontà. Ma non una qualsiasi ragionevolezza è capace di generare un atto libero: solo una ragione che non ponga limiti alla sua capacità di interrogare. Non una qualsiasi forza volitiva è capace di scegliere liberamente: solo una volontà che si muove [= voluntas ut ratio] verso quella pienezza di bene a cui è naturalmente orientata [= voluntas ut natura]. È in sostanza l’insuperabile “scarto” vigente fra il desiderio umano e ciò che l’universo (creato) mette a disposizione dell’uomo, che rende l’uomo grande nella sua povertà: lo rende libero. Una libertà, quella umana, che al contempo significa e la ricchezza della persona e la sua povertà. La sua ricchezza: essa trascende ogni realtà creata; è “più che” ogni altra realtà creata. La sua povertà: essa è un infinito “in votis” cioè un vuoto immenso alla ricerca di un bene che sia corrispondente alla sua fame.

Agostino (cfr. Confessioni IV, 9), non ancora cristiano, aveva ben visto, a causa della morte di un amico [e non a caso!], che per questa precisa costituzione l’uomo è a se stesso “magna quaestio”: essere “magna quaestio” significa essere ricondotti dalla verità e dalla bontà del proprio esserci che è destinato a sparire, alla Verità e al Bene che in esso (esserci) si riflettono e che da esso sono invocati. È questa in fondo la tristezza propria del pagano vero, ben diversa dalla tristezza che sta devastando il cuore dei giovani oggi.

Ora posso spiegare che cosa intendo dire, quando dico che l’uomo occidentale ha perduto se stesso, demolendo progressivamente la propria soggettività.

È accaduto come una sorta di “collasso spirituale”, di “caduta a picco” della (in-)tensione [intentio] spirituale nell’uomo. In breve: nell’intimo dell’uomo il legame della libertà colla verità è stato spezzato, perché la ragione ha spezzato il suo legame alla Verità e la volontà al Bene.

La ragione ha subìto un collasso di tensione, poiché si è giudicata incapace di conoscere una verità sul bene che valga in sé e per sé, di conoscere un bene che non sia quello della propria utilità individuale. La non esistenza di “ragioni per agire” che siano vere e valide per ogni persona, è una necessaria conseguenza ed è il dogma centrale di ogni utilitarismo etico: dottrina oggi di fatto largamente vincente nelle nostre società occidentali.

La volontà ha subìto un collasso di tensione, poiché radicata in una ragione solo utilitaria, essa si toglie ogni capacità di tendere a un Bene che non è tale per me solamente: a un Bene che semplicemente merita di essere voluto per se stesso, cioè amato.

Nulla è più capace di difendere l’uomo dalla verità costruita dalla ragione e dagli interessi considerati validi dalla volontà a seconda delle varie situazioni.

Perché una tale demolizione della soggettività perde l’uomo? Perché semplicemente gli toglie la possibilità di essere libero, cioè “causa sui”. Egli non è più capace di agire; è solo in grado di re-agire. E la reazione può essere duplice: o l’omologazione o la ribellione. Reazioni che sono proprie dello schiavo. La persona libera né si omologa né si ribella.

Molti sono i segni di questa condizione spirituale dell’uomo occidentale. Mi limito a richiamarne brevemente tre, perché mi sembrano particolarmente significativi per la nostra riflessione.

Il primo è costituito dal prevalere dell’“impersonale” sul “personale”. Intendo parlare di quella progressiva riduzione della persona alla sua funzione; della progressiva e implacabile burocratizzazione della vita associata.

Il secondo è costituito dalla riduzione dell’amore all’eros e quindi la riduzione del diritto, inteso come facoltà morale, al desiderio: ciò che desidero è mio diritto averlo.

Il terzo è costituito dalla necessità di eliminare l’imprevedibile, il novum, sottomettendoci al previsto e al calcolato. Per dirla col vocabolario heideggeriano: non è più il pensiero che pensa, ma la ragione che calcola.

Ma non voglio andare oltre alla semplice enunciazione di questi tre segnali di un grave evento culturale, poiché mi interessa maggiormente riflettere sulla caratteristica fondamentale di quell’evento stesso.

Ho parlato poc’anzi della tristezza propria del paganesimo, diciamo, naturale. In fondo, era la nostalgia di una patria che non si sapeva con certezza se esistesse oppure anche se certi dell’esistenza, la si giudicava irraggiungibile. Pertanto, anche quando il pagano accorciava la misura del suo desiderio [spem longam reseces: Orazio], era consapevole di rinunciare ad una parte di se stesso.

Il collasso spirituale di cui ho parlato avviene invece senza alcun dramma né tragedia: è semplicemente vissuto. Un grande pensatore italiano cristiano ha parlato di “gaio nichilismo contemporaneo”. Gaio in un duplice senso. Nel senso che la nobilitazione dell’omosessualità non è casuale: è la celebrazione della alleanza colla morte. Nel senso che si accetta di navigare sempre a vista, senza orientarsi a nessun porto, con noiosa tranquillità. “Non so chi mi abbia gettato nell’essere, non so che cosa mi aspetta dopo la morte: ma non è neppure necessario saperlo”: è la formula del gaio nichilismo occidentale.

 

2. 2. L’impensabile e impraticabile matrimonio

Siamo ora giunti al secondo punto della seconda parte della nostra riflessione. Punto che posso riassumere nel modo seguente: una soggettività così demolita non può pensare e non può praticare il matrimonio. Abbiamo qui la spiegazione più profonda e ultima del fatto che oggi i giovani si sposano sempre di meno, che preferiscono sempre più le “libere convivenze”.

La cosa, a questo punto, non è poi così difficile da capire. Facciamoci due domande: quale ragionevolezza implica la decisione di sposarsi? Quale volontà è capace di decidersi al matrimonio?

Prima di cominciare a rispondere faccio due necessarie precisazioni. La prima è che quando dico “sposarsi-matrimonio” intendo quel matrimonio di cui ho parlato nel § 1. 1. e che era quello sostanzialmente pensato e vissuto nella cultura occidentale. La seconda è che le due domande solo in parte coincidono con il problema, sempre presente nella disciplina e nella giurisprudenza canonica, risolto dai Cann. 1095-1096 del C.J.C.

Quale ragionevolezza implica la decisione di sposarsi? una ragione che sia capace di conoscere la verità del dono della persona, la verità della “communio personarum”. Mi spiego.

La verità del dono e la verità della “communio personarum” sono strettamente connesse. Se, infatti, non è possibile una vera e propria comunione inter-personale se non attraverso l’autodonazione reciproca, l’incapacità di capire se stessi come soggetti chiamati al dono di sé comporta inevitabilmente l’incapacità di capire un evento come la comunione interpersonale.

La verità della persona è scoperta da chi è capace di andare oltre ai fenomeni in cui si manifesta la persona, per raggiungere quella sostanza spirituale in cui ciascuno di noi sussiste. È quel processo di interiorizzazione e di distacco dall’esteriorità che occupa un posto tanto importante nella visione agostiniana.

A questo tipo di ragionevolezza oggi si oppongono una cultura, un modo comune di pensare e stili di vita che inducono la persona ad agire in modi sempre più “esteriori”, sempre meno coinvolgenti la propria soggettività.

L’estenuazione in tanti giovani di oggi della loro ragionevolezza, della loro capacità umana innata di porsi la domanda ultima su di sé “chi sono io?”, li ha portati a una incapacità strutturale a capire la verità della “communio personarum” (Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie 13, 4-6).

Quale volontà è capace di decidersi a sposarsi? quella che è capace di volere il bene in sé e per sé: di riconoscere la persona dell’altro nella sua dignità propria. In una parola di amare. È la volontà che è capace di accettare e realizzare radicalmente la verità dell’uomo come persona che si ritrova attraverso il dono di sé.

A una ragionevolezza estenuata corrisponde una volontà, più concretamente l’esercizio di una libertà che non è orientata se non al proprio utile/piacere. Alla comunione del dono si sostituisce la contrattazione degli utili.

Se voi ora confrontate quanto appena detto con ciò che dicevo sulla demolizione della soggettività della persona, vi potere rendere conto subito che a causa di quella demolizione della soggettività di cui ho parla-to nel § 2. 1. la persona oggi è incapace di sposarsi.

Penso che questo sia il vero, fondamentale problema teoretico e pastorale del matrimonio e della famiglia: un uomo demolito nella sua soggettività non può costruire una vera e propria coniugalità. La demolizione della soggettività della persona ha demolito l’istituzione matrimoniale, rendendola impensabile e impraticabile.

 

2. 3. Le macerie dopo la demolizione

Vorrei ora mostrarvi che ci troviamo nelle mani ancora tutti i pezzi di cui si componeva l’istituzione matrimoniale e familiare, ma che essi non hanno più gli stessi significati di prima.

Quali sono, prima di tutto, questi “pezzi”? Richiamo brevemente le affermazioni fondamentali fatte al primo paragrafo della prima parte della mia riflessione.

La prima: il matrimonio, inteso come comunione fondata sull’auto- donazione reciprocamente fatta e accettata di un uomo e di una donna, è radicato nella struttura stessa della persona. La seconda: la paternità-maternità trova la sua origine nella coniugalità e ne è l’espressione compiuta.

Come potete vedere, i “pezzi” di cui si compone questo “intero” sono: la persona, il suo dimorfismo sessuale [uomo-donna], la “communio personarum”, la paternità-maternità. Essi sono intimamente connessi fra loro. “Intimamente” non significa “soggettivamente”. Significa piuttosto che la coesione delle varie parti è esigita dalla natura stessa della persona.

A causa di quel processo di demolizione della soggettività di cui parlavo, ora ognuno di quei pezzi è stato staccato dagli altri: e ha mutato sostanzialmente il significato. Brevemente verifichiamo come ciò è accaduto.

 

2. 3. 1. Prima rottura: coniugalità - paternità/maternità

Il 25 luglio 1968 Paolo VI pubblica l’Enciclica Humanae Vitae nella quale egli insegna come verità non solo per i credenti ma anche per ogni uomo, che la contraccezione è obiettivamente ingiusta. “Atto contraccettivo” ha un significato molto preciso nel Magistero della Chiesa: è l’atto di privare la sessualità umana della sua fecondità in vista, durante, o immediatamente dopo un atto coniugale, al fine di evitare il concepimento di una nuova persona.

L’Enciclica rispondeva alla tendenza ormai chiara di ritenere come dotata di un significato obiettivo etico la separazione dell’esercizio della sessualità coniugale dalla fertilità in essa eventualmente presente. Era la prima separazione, sconnessione della coniugalità dalla paternità/maternità. La seconda avviene esattamente dieci anni dopo.

Nel luglio del 1978 viene al mondo la prima persona umana concepita non mediante un rapporto sessuale, ma mediante un procedimento tecnico di fecondazione in vitro. Dimostrando possibile il concepimento umano senza alcuna relazione sessuale, la fecondazione in vitro separava per ciò stesso, in linea di principio almeno, la paternità/maternità dalla sponsalità/coniugalità. In un duplice senso. Nel senso che l’attività responsabile del concepimento non è più un rapporto inter-personale carico di per sé di un significato di amore e di dono, appunto coniugale, ma è un’attività produttiva-tecnica. E nel senso che le cellule germinali non necessariamente provengono dal corpo dei due sposi: come poi di fatto si cominciò a fare. E qui il primo pezzo della costruzione è stato smontato: la paternità/maternità non implica di per sé una relazione biologicamente fondata. Per essere padre/madre non è necessario esserlo anche biologicamente.

È vero che la dipendenza biologica del figlio dalla madre è ben più consistente di quella dal padre: la gestazione è della madre. Tuttavia, una volta posto il principio della non essenzialità della dimensione biologica, si può di fatto anche chiedere a un’altra donna di compiere la gestazione: una sorta di presta-utero, che, se ricompensata, acquista il carattere di un vero e proprio “affitto di utero”. Ciò che è puntualmente accaduto, introducendo un’ulteriore precisazione: non solo maternità non implica necessariamente discendenza biologica, ma neppure gestazione. Pertanto, madre non è necessariamente né chi ti ha generato, né chi ti ha portato in utero.

 

2. 3. 2. Seconda rottura: communio personarum - uomo/donna

Qui ci troviamo di fronte ad un fatto spirituale fra i più gravi che siano avvenuti in questi decenni, nei paesi occidentali. Non abbiamo purtroppo tempo di fermarci su di esso come meriterebbe. Esso consiste nella progressiva equiparazione etica, di valore cioè, fra comunità coniugale [etero-sessuale] e convivenza omosessuale. Alla base di questa progressiva equiparazione si ha un avvenimento spirituale assai grave.

Si tratta della interpretazione della sessualità umana come non avente in sé e per sé un suo proprio significato. Sono costretto a presentare un fenomeno culturale assai complesso in tempo breve, e quindi in modo assai scarno. Il dimorfismo sessuale, l’essere uomo - l’essere donna, non è più interpretato in termini di reciprocità.

Nel momento in cui questa interpretazione del dimorfismo sessuale umano cessa, la sessualità umana perde il suo significato proprio: viene cioè negato che ne possegga qualcuno originario. Ha quel significato che la persona vuole attribuirgli. E pertanto, la convivenza omosessuale è della stessa natura (si fa per dire) della convivenza eterosessuale. Si giunge cioè alla equiparazione etica dei due modelli di comportamento sessuale.

In che senso questa equiparazione influisce sul processo di smontatura del concetto di paternità/maternità e del concetto di matrimonio? Nel senso che non si vede più perché non si debba dare un figlio anche alle coppie omosessuali da una parte, e dall’altra il concetto di maternità non è più correlativo a quello di paternità e viceversa. È da ritenersi pienamente legittimato che una persona abbia “socialmente” due madri senza un padre o due padri senza una madre.

Ci troviamo dunque in una situazione che può essere descritta con tre affermazioni fondamentali. La prima: il matrimonio è un fatto puramente convenzionale, la cui struttura istituzionale e antropologica è completamente a disposizione di chi si sposa. La seconda: la coniugalità non dice ordine alla paternità/maternità né reciprocamente; la coniugalità non dice ordine all’etero-sessualità né reciprocamente: pertanto “coniugalità”, “communio personarum”, “paternità/maternità” sono ormai macerie di un edificio che come tale è crollato. Sono parole che oggi veicolano significati contrari. La terza: l’architettura dell’edificio costruito sulla composizione dei singoli “pezzi” era l’architettura del bene in sé e per sé; l’architettura che cerca ora di comporre quelle macerie è l’architettura del desiderio della propria felicità individuale.

 

3. Profezia di una visione

 

In questo ultimo punto della mia riflessione vorrei spiegare in che senso ho parlato di profetismo della FC. Vorrei cioè contestualizzare la visione teologico-antropologica di FC.

Ancora nel 1974 K. Wojtyla scriveva: «Il principio fides quaerens intellectum trova oggi un ambito di applicazione assai vasto. Una onesta comprensione della realtà del matrimonio e della famiglia sulla base della fede richiede un approfondimento dell’antropologia della persona e del dono e anche un approfondimento del criterio della comunità delle persone (“communio personarum”)» [STYCZEN, op. cit., 8, nota 1].

 

L’esigenza della riflessione antropologica, sulla quale FC tanto insiste, oggi appare di una urgenza drammatica. Da un duplice punto di vista. Dal punto di vista della prassi pastorale. Il matrimonio diventa sempre più impraticabile, dal momento che la persona è divenuta incapace del dono. L’impraticabilità dell’auto-donazione genera l’impraticabilità del matrimonio (e della verginità consacrata). Ma non è questo il luogo ed il momento per approfondire questa tematica.

L’esigenza della riflessione antropologica assume grave urgenza anche e prima di tutto dal punto di vista teoretico. Ciò che ci è chiesto è la ricostruzione di una visione dell’uomo che, generata dalla fides quaerens intellectum, incontra veramente le domande dell’uomo su se stesso e sul suo destino.

Ma perché questa ricostruzione possa avvenire, il pensiero cristiano deve affrontare e vincere le tre sfide fondamentali che la contemporaneità gli sta lanciando: la sfida del nichilismo metafisico, la sfida del cinismo morale, la sfida dell’individualismo asociale.

La sfida del nichilismo: essa consiste nella negazione di un originario rapporto della nostra ragione colla realtà. Negazione che comporta una considerazione della realtà medesima alla stregua di un’illusione o di un gioco le cui regole sono frutto di pura convenzione. È la sfida al realismo della fede, perché nasce dalla negazione della ragione. Se il pensiero cristiano non vincerà questa sfida, non usciremo dal costruttivismo convenzionalista in cui è caduta la dottrina civile del matrimonio.

La sfida del cinismo: negata ogni consistenza alla realtà, scompare il senso della divaricazione essenziale fra bene/male, e con ciò il gusto della scelta libera. Ogni scelta ha lo stesso significato, e pertanto nessuna scelta ha significato. L’etica, intesa come passione per la custodia dell’uomo, è estinta. È la sfida al realismo della speranza, perché nasce dalla negazione di un fine ultimo della vita. Se il pensiero cristiano non vincerà questa sfida, non usciremo dall’incapacità di mostrare l’incomparabilità del bene della communio personarum con quel vago e asettico senso di amore che non sa più definirsi. Equiparazione assiologica di ogni convivenza.

La sfida dell’individualismo: è il risultato delle due sfide precedenti. La convivenza umana è pensata come coesistenza regolamentata di egoismi opposti. È la sfida alla carità cristiana, perché nasce dalla negazione pura e semplice della categoria antropologico-etica della prossimità. Se il pensiero cristiano non vincerà questa sfida, verrà meno la possibilità stessa di parlare in modo sensato e comprensibile del matrimonio cristiano.

È possibile raccogliere questa triplice sfida sotto una sola “cifra”? Forse sì. È la cifra della libertà, misura della dignità e della grandezza dell’uomo: promessa mancata della modernità, promessa mantenuta da Cristo. Ci è chiesto di costruire una riflessione integrale sulla libertà in quanto capacità, donata dalla grazia, di auto-donazione.

 

Conclusione

 

Il matrimonio e la famiglia sono uno dei luoghi obbligati per avere un’intelligenza teologica e filosofica della verità dell’uomo, e dove è inevitabile cogliere questa triplice sfida.

Sta in questo il significato ultimo dell’incipit costituito da FC e di questo Istituto: perché all’uomo sia dato ancora il “gaudium de veritate”.