home
biografia
video
audio
english
español
français
Deutsch
polski
한 국 어
1976/90
1991/95
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
2015
2016
2017
Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Pontificia Università Lateranense

Istituto Giovanni Paolo II

Carlo Caffarra

ETICA GENERALE DELLA SESSUALITÀ

Edizioni Ares, Milano 1992

 

 

PREFAZIONE

In laudem gloriae gratiae suae, in qua
Gratificavit nos in dilecto Filio suo
(Ef 1, 6)

Il presente libro ha bisogno di una breve presentazione e di una qualche giustificazione, per evitare che il lettore vi cerchi qualcosa che esso non intende offrire. Questo è il secondo volume della collana che accoglie i corsi impartiti nell’Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia, che ha sede presso la Pontificia Università Lateranense. È il corso di "Etica generale della sessualità umana" offerto agli studenti del Master in scienze del matrimonio e della famiglia. una delle sezioni in cui si articola l’Istituto.

L’origine spiega la natura di quest’opera. Poiché non si tratta di studenti che provengono da studi teologici e/o filosofici, ma normalmente scientifici, il discorso ha dovuto essere il più possibile esplicitamente radicato nei suoi presupposti filosofici e teologici. Inoltre, anche a causa dell’organizzazione accademica, la riflessione ha dovuto essere assai schematica, essenziale e breve: un "progetto di riflessione".

Tuttavia a giustificazione di questa schematica essenzialità — e all’autore preme metterlo subito in luce — sta una convinzione del medesimo: l’etica non la si può insegnare, ma solo suggerire. Colui che insegna l’etica, non può insegnare niente altro che l’alfabeto di quella scrittura che è impressa nel cuore della persona. La lettura intelligente della "scrittura del cuore" può e deve essere compiuta da ciascuno. Chi può sapere (dico sapere, non ripetere ciò che altri hanno detto) la "scienza della libertà", poiché questo è l’etica, se non ciascuno per sé stesso? Dunque, il libro normalmente non va oltre al suggerimento per la riflessione e scoperta personale.

Vorrei aggiungere, tuttavia, un’ultima osservazione per guidare l’eventuale lettore. Non cerchi in questo libro indagini empiriche quali sono condotte nell’antropologia sociale, nella sociologia, nella psicologia. L’etica è una disciplina formalmente distinta e tale deve rimanere.

E ora vorrei ringraziare coloro senza i quali questo libro non sarebbe mai stato scritto. In primo luogo la stupenda gioventù studentesca del Giovanni Paolo II, sia della sessione romana sia della sessione statunitense: la loro profonda, commossa e commovente partecipazione alla scoperta della "verità che tanto si sublima" è stato lo stimolo più profondo. E poi le segretarie, Margherita Sani e Gabriella Esposito: è stata la loro paziente opera di trascrizione, di controllo del manoscritto a rendere possibile la pubblicazione.

Se anche accendesse in un solo lettore la percezione dello splendore della grazia di Cristo, della gloria della sua grazia, il libro non sarebbe inutile. È stato scritto per questo.

L’Autore
Roma, 7 ottobre 1991
Memoria della B. Vergine del S. Rosario

 

PREMESSA GENERALE

L’etica della sessualità umana è la riflessione che mira a scoprire la verità sul bene intelligibile della sessualità umana.

Come ogni scienza, anche l’etica (della sessualità) ha un solo scopo ed è generata da un solo desiderio: conoscere la verità (della sessualità umana). Tuttavia. l’esercizio dell’intelligenza e della ragione che produce il sapere etico, è un esercizio, un uso pratico della facoltà conoscitiva. Non si vuole conoscere tutta la verità (della sessualità) o una qualsiasi verità (della sessualità), ma semplicemente la verità sul bene intelligibile (della sessualità). La domanda fondamentale, dunque, è la seguente: qual è la bontà della sessualità? O: perché la sessualità è un bene?

Il termine di "sessualità" è tuttavia ambivalente. Esso, infatti, può significare sia la facoltà sessuale come tale sia l’attività o l’esercizio di tale facoltà. La connessione fra i due significati è, dal punto di vista etico, assai rilevante. Ci basta, per il momento, solo un’osservazione, per cogliere questa rilevanza. La negazione di una consistenza assiologica della facoltà sessuale (in sé considerata, la facoltà sessuale è eticamente neutra) comporta che la qualità morale del suo esercizio dovrà essere fondata e ricercata altrove. L’affermazione della bontà intrinseca della sessualità umana (parliamo sempre ed esclusivamente di bontà intelligibile) comporta che la qualità morale del suo esercizio dovrà essere ricercata e fondata in primo luogo nell’adeguatezza dell’atto sessuale a realizzare la bontà inerente alla facoltà.

Abbiamo così individuato i primi due grandi temi di un’etica generale della sessualità: la bontà intelligibile della facoltà o dimensione sessuale della persona umana; la qualificazione etica dell’atto sessuale.

Tuttavia, tra facoltà e atto esiste "qualcosa", diciamo, di intermedio. Realizzandosi in atti giusti o ingiusti, la facoltà sessuale acquisisce una disposizione e disponibilità permanente: rispettivamente diviene virtuosa o viziosa.

Abbiamo così individuato il terzo grande tema di un’etica generale della sessualità: la virtù che la integra nella soggettività spirituale della persona umana.

La Tradizione etica cristiana ha individuato due "forme" fondamentali nelle quali la persona umana può realizzare la sua sessualità: la forma della coniugalità e la forma della verginità per il Regno. La sessualità umana può essere vissuta coniugalmente o verginalmente. E, pertanto, il quarto grande tema di un’etica generale della sessualità è costituito dalla riflessione sulle due "forme" che la sessualità umana può assumere.

 

Parte prima

I PRESUPPOSTI DELL’ETICA DELLA SESSUALITÀ

Prima di addentrarci nella problematica etica attinente alla sessualità umana, è necessario individuare ed esporre i presupposti fondamentali di tutta la riflessione seguente. Essi costituiscono il fondamento antropologico e teologico e il criterio delle soluzioni ai vari problemi che andremo affrontando.

I presupposti sono due: l’unità della persona umana e la redenzione del corpo. Ad essi saranno dedicati rispettivamente i due capitoli seguenti.

 

Capitolo primo

L’UNITÀ DELLA PERSONA UMANA

Il punto di partenza per cogliere questo primo presupposto è un’esperienza che ciascuno di noi vive quotidianamente.

Abbiamo la coscienza di compiere attività profondamente diverse fra loro: mangiare è molto diverso dal pregare, risolvere un problema di matematica è molto diverso dall’istintiva reazione che proviamo di fronte a un pericolo imminente. Ma la stessa coscienza ci testimonia che è lo stesso, l’identico soggetto che mangia e prega, risolve il problema e prova paura. Si ha. dunque, una identità-unicità di soggetto operante e una pluralità-diversità di operazioni.

Lasciamo per ora da parte il problema della natura o grado di questa diversità (si tratta di attività essenzialmente diverse?) e concentriamo la nostra attenzione sulla domanda che sorge in noi inevitabilmente: come è possibile questa identità-unicità nella pluralità-diversità? Come spiegare questa unicità e questa pluralità?

Prima ancora di cominciare a costruire la nostra risposta, mi sembra utile richiamare un criterio generale per discernere una soluzione falsa da una soluzione vera di un problema. È vera la soluzione che rende ragione di tutti i dati offertici dall’esperienza: è falsa la soluzione che spiega alcuni dati (non tutti), ma ne nega altri.

Nel nostro problema: la soluzione sarà vera se renderà ragione sia dell’identità-unicità del soggetto operante sia della pluralità-diversità delle operazioni. Questi, infatti, sono i due dati testimoniati dalla nostra esperienza. Ciò premesso, possiamo partire alla ricerca della soluzione.

1. L’atto libero è forse la via più semplice per entrare nella costituzione della persona. Ciò che caratterizza un atto libero è che esso non ha presupposti che ne spieghino il suo compimento, all’infuori di sé stesso. L’atto con cui capisco una pagina di Aristotele è un atto compiuto dall’intelligenza. Tuttavia, esso è stato reso possibile dalla decisione di leggere Aristotele (e non il giornale), di fare attenzione a ciò che leggo (e non, in quel momento, ai bambini che stanno giocando nel cortile) ed eventualmente di non stancarmi se alla prima lettura non ho capito, ma di continuare a leggere. E arriva finalmente il momento in cui dico: ho capito! Si ha dunque, in tutto questo iter che va dal prendere il libro fino all’esclamazione suddetta, una reciproca influenza di volontà e intelligenza. Possiamo esprimere questa reciproca influenza dicendo (con san Tommaso): capisco perché voglio capire. L’esercizio, cioè, della intelligenza dipende dalla volontà. Certamente, l’atto del capire non è un atto di volontà (molte volte vogliamo capire qualcosa, ma non capiamo); ma l’intelligenza è mossa dalla volontà. È facile costatare che questa sudditanza alla volontà e, reciprocamente, questa supremazia della volontà, è vera per ogni nostra facoltà operativa.

E la volontà da chi è mossa? "Capisco perché voglio capire" e "perché voglio?": semplicemente perché voglio. La volontà, nel suo esercizio, non dipende che da sé stessa, non è mossa che da sé stessa. In questo preciso senso, l’atto proprio della volontà, l’atto libero, è un atto che non ha presupposti.

Una tale indipendenza nell’agire implica una corrispondente indipendenza nell’essere, poiché in realtà non esiste un atto libero, ma esiste un soggetto che agisce liberamente.

Se, però, osserviamo l’universo che ci circonda, noi vediamo solo realtà che, quanto al loro essere, non sono affatto indipendenti. Prendiamo un essere vivente. La biologia oggi ci insegna che ogni organismo vivente è una composizione di più elementi, ordinata secondo precise leggi. È certamente qualcosa di unitario, ma la sua unità è una unità di composizione, derivante, e perciò dipendente, dall’ordinarsi degli elementi. L’essere è, dunque, fragile: qualora si abbia la scomposizione o, comunque, una deficienza nelle leggi che governano l’insieme, l’essere vivente o muore (cioè si de-compone) o è seriamente compromesso. In una parola: l’atto di essere delle realtà di cui stiamo parlando non è indipendente, non è in sé e per sé, ma è nella composizione e a causa della composizione. Da un tale essere non potrà mai sgorgare un atto di libertà: il più (l’atto libero) non può venire dal meno.

Esistono però realtà che non sono alla portata dei nostri sensi; sono invisibili. Realtà che sono semplici: il loro atto di essere non dipende dall’ordinato comporsi degli elementi che le costituiscono. Esse sono, dunque, in sé e per sé. Queste realtà sono soggetti-spirituali.

Sono soggetti: essi sono in sé e per sé; sono spirituali: non sono composti. Da queste realtà, e solo da queste, può sgorgare un atto come l’atto libero: all’indipendenza nell’essere corrisponde l’indipendenza nell’agire. Queste realtà sono chiamate "persone". La persona è, dunque, una realtà sussistente (e "in sé" e "per sé") in una natura spirituale. Fermiamoci ora un momento a raccogliere alcuni guadagni teoretici finora acquisiti. Essere persona è più che essere individuo: anche la pianta è un individuo. Essere persona è il modo più perfetto di essere: non si può essere più che persona. La persona deve il suo essere persona al suo essere spirito: in realtà, essere spirito ed essere persona si equivalgono.

2. Da questa riflessione e dai guadagni teoretici che essa ci ha fatto acquisire, sembra che si debba giungere alla seguente conclusione: se l’uomo è persona (e che lo sia è dimostrato dal suo agire libero), se l’uomo deve il suo essere persona al suo essere spirito, il corpo umano non entra nella costituzione della persona umana. In altre parole: l’uomo non è il suo corpo, ma è un soggetto spirituale che ha un corpo (o unito a un corpo). Ma contro questa conclusione insorge la nostra esperienza: abbiamo coscienza che è lo stesso soggetto che capisce (atto spirituale) e che vede (atto corporeo).

Per uscire da questa aporia, è necessario riscoprire una legge che governa l’universo dell’essere: una legge mirabile che riempie sempre di commozione. Abbiamo visto poc’anzi una differenza essenziale fra le realtà materiali e le realtà spirituali: composte le prime e semplici le seconde. Da ciò abbiamo visto derivare che l’atto di essere delle prime è assai fragile: è corruttibile. L’atto di essere delle seconde, al contrario, gode di una suprema intensità: è incorruttibile (immortale). Ora, possiamo osservare che quanto più intenso è l’atto di essere, tanto più esso è comunicativo di sé. L’oblatività (comunicatività) di una realtà è proporzionata all’intensità del suo atto di essere.

Una pietra è chiusa in sé: non ha alcuna comunicazione. Già diversa è la pianta, e così via. Mediante l’intelligenza, l’uomo è aperto a tutto.

Cerchiamo di esprimere questa legge dell’essere in termini più tecnici. Ciò che uno è, la sua essenza, è assolutamente definito, circo-scritto. Le essenze, diceva Aristotele, sono come i numeri: non puoi aggiungere né togliere da un numero neppure una unità, senza cambiare il numero. L’essenza è il principio della determinazione, ciò per cui uno è ciò che è (un uomo, non un animale; un animale, non una pianta). Ma l’essere non è determinato in nessuna maniera, non nel senso difettivo, ma nel senso perfettivo. La sua indeterminazione non gli deriva dal fatto che l’essere in sé considerato (non considerato, cioè, ancora come l’essere uomo, l’essere animale e così via) è niente, ma dal fatto che è la perfezione di tutte le perfezioni. Proprio per questa sur-determinazione, l’essere è comunicabile e, quanto più intensamente qualcuno/qualcosa partecipa dell’essere, tanto più qualcuno/qualcosa è comunicativo di sé.

Ritorniamo ora al nostro problema. L’atto di essere del soggetto spirituale umano è comunicato al corpo, che è per lo stesso atto d’essere che lo spirito: unico è l’atto d’essere.

Probabilmente può essere utile introdurci nell’intelligenza di questa unità, assai singolare, attraverso qualche esemplificazione.

Queste pagine sono scritte nella stessa lingua in cui sono scritti I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Nei due casi è stato usato lo stesso vocabolario, si sono seguite le stesse regole grammaticali e sintattiche. Ma il risultato... è ben diverso! Che cosa spiega questa diversità? Il fatto che le pagine manzoniane esprimono, danno corpo a un’altissima ispirazione poetica, cosa che non accade con le pagine di questo libro. Se si facessero analisi grammaticali e logiche dei due scritti, avremmo alla fine lo stesso risultato.

Se noi facciamo l’analisi chimica di un pezzo di marmo e della Pietà di Michelangelo, il risultato è identico. Tuttavia, la Pietà non è un... qualsiasi pezzo di marmo. Quel pezzo di marmo è unico. Per una sola ragione: esso dà corpo a un’altissima ispirazione artistica.

Nell’opera manzoniana non esiste separazione fra la pagina e l’ispirazione, così come non esiste separazione fra la materia marmorea e la forma spirituale nella Pietà michelangiolesca.

Questi due esempi possono aiutarci a capire che cosa significa dire che l’atto di essere per cui il soggetto spirituale è, si comunica al corpo e lo fa essere.

Per evitare comunque equivoci e fraintendimenti, è necessario fare subito alcune precisazioni.

La prima. Questa unità non può, non deve essere immaginata: può essere solo pensata. Anche in questo caso, l’immaginazione può condurre l’intelletto in errore. Essa, infatti, ci porta a pensare che corpo e spirito siano due realtà che esistono precedentemente alla loro composizione. Lo spirito non esiste prima: esso è nello stesso momento in cui si comunica al corpo e il corpo è disposto a questa comunicazione. Il corpo, fin dall’inizio, è intrinsecamente orientato a essere unito in questo modo allo spirito.

La seconda. Si tratta di unità in cui i due com-principi non perdono la loro natura propria: lo spirito rimane essenzialmente diverso dal corpo e viceversa. Infatti, la comunicazione e l’unità avvengono a livello dell’essere e l’essere non è un’essenza.

La terza. Si tratta di un’unità non accidentale, ma sostanziale. La penna di cui noi ci serviamo per scrivere è certamente unita a noi, ma solo in quanto strumento di cui ci serviamo: l’atto di essere della penna è altro dall’atto di essere dello scrittore. Fra i due, l’unità è accidentale. Ma il corpo non ha un atto d’essere altro dall’atto di essere dello spirito.

Possiamo ora indicare alcuni guadagni teoretici, inclusi in questa tesi dell’unità sostanziale della persona umana.

La persona è anche il suo corpo: è falso dire che la persona ha il corpo o è unita a un corpo.

Il corpo entra nella costituzione della persona: la persona umana è una persona corporale e il corpo umano è un corpo personale.

La separazione fra persona e corpo, nel senso di ipotizzare la possibilità di attingere il corpo e non la persona, è impossibile.

La relazione che l’uomo ha con la natura materiale esterna è essenzialmente diversa dalla relazione che egli ha con il suo corpo.

Il corpo è la stessa persona nella sua visibilità. La persona si dice attraverso il suo corpo, il corpo è il linguaggio della persona.

3. Questo modo di concepire la persona umana è stato ed è seriamente contestato. Questa contestazione deve essere ora seriamente presa in esame.

Essa può esprimersi a due livelli. Una prima, e più radicale, è la contestazione materialista: la persona umana è semplicemente il suo corpo. Tralasciamo questa contestazione, il cui studio è piuttosto condotto nell’antropologia filosofica.

La seconda è la negazione dell’unità in quanto unità sostanziale: la persona umana è essenzialmente il suo spirito unito a un corpo, ma non è il suo corpo.

Il primo, e a mio giudizio decisivo, argomento a favore della tesi dell’unità sostanziale è costituito dall’esperienza dalla cui descrizione siamo partiti: essa è spiegata completamente solo dall’affermazione dell’unità sostanziale. Questa tesi, infatti, salva completamente l’essenziale distinzione fra i vari dinamismi operativi dell’uomo. Essa (tesi) afferma solo l’unità nell’atto dell’essere, ma non una (contraddittoria) confusione di due nature: quella spirituale e quella materiale. Ora, i due dinamismi operativi sono specificati dalla natura.

Questa tesi salva completamente l’unità del soggetto operante. Infatti, non esistono, in realtà, atti di intelligenza, di sensibilità e così via. Esiste un soggetto che compie atti di intelligenza, sensibilità e così via: esiste un soggetto intelligente, senziente e così via. Ora, la coscienza dell’identità/unicità del soggetto operante — coscienza che ci accompagna sempre — sarebbe impossibile, se la natura da cui sgorgano i dinamismi spirituali sussistesse per un atto di essere diverso dall’atto di essere in cui sussistesse la natura da cui sgorgano i dinamismi sensibili. Nel caso, infatti, che si desse una tale duplicità, si avrebbero due soggetti sussistenti.

Certamente, chi nega l’unità sostanziale della persona umana può obiettare che chi agisce, quando svolge un’attività sensibile, è sempre ed esclusivamente il soggetto-spirito (esattamente come quando svolge un’attività sensibile): servendosi, però, del corpo. E la causalità strumentale, così attribuita al corpo, non impedisce — precisamente perché strumentale — la coscienza dell’identità/unicità del soggetto.

Tuttavia, questa spiegazione non rende ragione della nostra conoscenza sensibile. Infatti, quando si compie un atto servendosi di una causa strumentale, è necessaria la messa in atto dello strumento da parte della causa principale. Ora, al contrario, la conoscenza sensibile è una conoscenza che noi sperimentiamo semplicemente come passività: un essere mossi dall’oggetto.

4. La retta comprensione della tesi dell’unità sostanziale della persona umana ci conduce a un passo ulteriore: a una nuova dimensione di questa unità.

Come si è già detto l’unità sostanziale salvaguarda pienamente l’essenziale distinzione dei dinamismi operativi, che si presentano situati a tre livelli: dinamismi spirituali, dinamismi psichici e dinamismi fisici. Poiché la via per cogliere la natura specifica di un dinamismo è la considerazione del suo "oggetto", cioè di ciò verso cui il dinamismo è naturalmente orientato o intenzionato, partiamo da questa considerazione.

L’oggetto dei dinamismi psichici e fisici è sempre qualcosa in quanto rapportato, relazionato al soggetto; l’oggetto dei dinamismi spirituali è qualcosa (conosciuto e/o voluto) in sé e per sé. Qualche esemplificazione potrà aiutarci a capire questa essenziale differenza.

L’occhio "vede" solo e sempre questo libro, questo uomo e così via: la facoltà visiva è incapace di staccarsi dal "questo"; l’intelletto "conosce" non "questo" o "quello", ma l’uomo: esso sa chi è l’uomo come tale. Mediante il dinamismo conoscitivo spirituale, l’uomo può penetrare nella conoscenza di verità universalmente valide. Non di ciò che è vero ora e qui, ma di ciò che è vero sempre e ovunque.

Le nostre tendenze sensibili ricercano questo bene, in quanto è bene per me; la nostra tendenza spirituale (la volontà) vuole questo bene, non in quanto è "questo", ma in quanto è bene. Mediante il dinamismo volitivo, l’uomo può volere il bene in quanto bene. Non solo di ciò che è bene per me ora e qui, ma di ciò che è bene in sé e per sé, sempre e ovunque.

Possiamo dire: mediante i dinamismi psichici e fisici, l’uomo relaziona il mondo a sé; mediante i dinamismi spirituali, l’uomo esce da sé.

La diversità essenziale fra questi dinamismi rende possibile un contrasto fra essi che, se non è superato, può portare a una divisione interna nella persona umana: e la nostra esperienza quotidiana dimostra quanto reale sia questa possibilità. In altre parole: l’unità sostanziale della persona non assicura necessariamente un’unità fra i vari dinamismi operativi. Questa è affidata all’impegno della persona. È necessario, ora, considerare attentamente il contenuto di questo impegno: in che cosa consiste l’unificazione dei dinamismi operativi; a quali condizioni essa è possibile; a quale dinamismo essa è principalmente affidata.

(A) L’unificazione non consiste nella distruzione o nel tentativo di distruzione di qualcuno dei tre dinamismi, a spese degli altri. Non può consistere, per esempio, nella tensione a una progressiva in-sensibilità e a-patia. Per una semplice ragione. La tesi dell’unità sostanziale della persona ha dimostrato che la persona è anche il suo corpo (e la sua psiche). Concepire l’unificazione nei termini suddetti, dunque, equivale a concepirla in termini di disumanizzazione dell’uomo, di impoverimento sostanziale della persona umana.

Così, l’unificazione deve essere concepita nei termini di una intima integrazione. Il concetto di (unità di) integrazione va rigorosamente chiarito e definito.

L’integrazione suppone una pluralità di parti (parti "integrali"): in questo l’unità propria derivante dall’integrazione non è una unità-semplice. Le parti sono relazionate le une alle altre secondo un rapporto di sub-ordinazione/sovra-ordinazione, fondato su un ordine obiettivo gerarchico. La subordinazione della parte inferiore non ne distrugge il dinamismo, ma al contrario lo esalta, facendolo essere in un modo superiore.

(B) A quali condizioni è possibile creare una simile unità nella persona umana?

La prima e più importante è che i dinamismi da integrare siano veramente costitutivi della persona umana. Mancando questa appartenenza, si introduce nel processo integrativo qualcosa di estrinseco che costituisce un elemento di permanente rischio di disintegrazione. L’importanza della tesi dell’unità sostanziale della persona è anche precisamente quella di fissare i confini fra ciò che è umano e ciò che non è umano: non solo i dinamismi spirituali, ma anche quelli psichici e fisici appartengono alla persona, nel senso già detto.

La seconda è che i dinamismi siano, per così dire, uniti nella loro radice: che essi emanino dalla stessa sorgente. E, ancora una volta, la tesi dell’unità sostanziale della persona umana dimostra questa unità in radice. Essa (tesi), infatti, dimostra che la persona umana è una, essendo spirito-corpo e, quindi, dimostra che è lo stesso soggetto che opera spiritualmente e/o corporalmente. Il processo di integrazione, quindi, non consiste in un processo di umanizzazione di dinamismi che, pur presenti nell’uomo, non sono umani. Essi sono già umani; devono solo integrarsi reciprocamente.

La terza è che sia rispettata la gerarchia obiettiva dei vari dinamismi umani. Quale è questa gerarchia? Ancora una volta, la tesi dell’unità sostanziale della persona umana ci offre la risposta a questa fondamentale domanda. Quanto più immediatamente un dinamismo è connesso con il carattere personale dell’essere umano, tanto più esso è gerarchicamente superiore. Ma l’uomo deve il suo essere persona al suo essere spinto. Quindi, i dinamismi spirituali sono superiori a ogni altro dinamismo. Ma, ancora, come abbiamo già visto, la persona mostra il suo essere tale in grado sommo nell’esercizio della libertà. Quindi, al vertice dei dinamismi umani, deve collocarsi la volontà in quanto dinamismo libero, o meglio in quanto facoltà che produce atti liberi.

La quarta è che i dinamismi inferiori siano abitualmente subordinati ai dinamismi superiori. Data, infatti, la loro natura essenzialmente diversa dai dinamismi superiori, fino a quando la loro subordinazione non è divenuta come la loro seconda natura, l’unità sarà sempre sul punto e nel rischio di disintegrarsi. Né si deve pensare che questa abituale, permanente disposizione a sottomettersi al dinamismo superiore introduca nei dinamismi inferiori qualcosa di in-naturale, di violento quindi. Al contrario, in ragione dell’unità sostanziale della persona umana, i dinamismi inferiori esigono, reclamano questa subordinazione: essi sono naturalmente orientati verso essa. L’obbedienza vi è già "seminata": attende solo di essere fatta maturare.

(C) Da ciò che si è detto, risulta chiaramente che il dinamismo a cui è affidato il processo di integrazione è la volontà. Essa, infatti, è il principio motore di ogni dinamismo.

Si deve, tuttavia, notare che la volontà non potrà mai adempiere questa funzione se essa non è principio dei suoi movimenti. Usando un linguaggio meno astratto: la sorgente ultima del processo di integrazione è nella capacità di auto-dominio della persona. Solo, infatti, quando si è capaci di auto-dominarsi, si è capaci di auto-dinamizzarsi a tutti i livelli.

È allora assai importante che riflettiamo, sia pure brevemente, sulla struttura di questa capacità, la capacità di auto-dominio, nella quale — non a torto — il pensiero cristiano ha posto il sigillo più alto della nostra somiglianza a Dio.

L’auto-dominio implica necessariamente una sorta di "distanza" del soggetto da sé stesso o, meglio, un auto-trascendersi. Esso, certamente, è reso possibile dalla natura spirituale della persona, che può rendere la persona stessa cosciente di sé stessa. Non possiamo, tuttavia, ridurre l’auto-dominio all’auto-coscienza o all’auto-trascendenza: la prima (l’auto-coscienza cioè) è un dato strutturale naturale della spiritualità, mentre l’auto-dominio è costituito da un atto di libertà. L’auto-coscienza è la condizione remota dell’auto-dominio. Così non possiamo ridurre l’auto-dominio all’auto-trascendimento, anche se questo è più immediatamente implicato in quello. Ed è su questa implicazione, assai importante dal punto di vista etico, che dobbiamo ora brevemente riflettere.

Ancora negativamente, si può dire che l’auto-trascendimento esige un superamento dei dinamismi umani non spirituali: un arresto della loro capacità motiva e motivante nei confronti della persona. Chi opera questo arresto è la conoscenza intellettiva e razionale. Infatti, è solo la ragione che può vedere l’infinita distanza qualitativa fra questo bene e il bene in quanto tale. Quando questo "scarto" è visto, in quel momento, non prima, la forza motiva e motivante dei dinamismi non spirituali sulla (volontà della) persona è fermata. In quel momento, la (volontà della) persona ha visto il limite di ciò che fino ad allora la muoveva: è accaduto quell’auto-trascendimento di cui parlavo.

Giova sottolineare che questo auto-trascendimento può realizzarsi in vari gradi e, quindi, anche l’auto-dominio. Se. infatti, l’arresto della forza motiva e motivante dei dinamismi non spirituali è proporzionale alla distanza vista fra questo bene e il bene in quanto tale, il grado massimo dell’auto-trascendimento si avrà quando si scorge una distanza infinita fra i beni in questione. Questa distanza infinita esiste solamente fra i beni utili e piacevoli da una parte, e il bene in senso morale dall’altra. E, pertanto, l’auto-trascendimento è perfetto quando la ragione conosce la verità sul bene morale: solo con questa e in questa conoscenza l’uomo trascende ogni mozione ed egli può scegliere e decidere. La verità rende liberi.

Il punto è talmente importante che, forse, è di qualche utilità chiarirlo con qualche esemplificazione.

Chi è intemperante nel mangiare e nel bere e sente un forte impulso ai piaceri della tavola può "arrestare" questo dinamismo attraverso un confronto razionale fra il bene (piacevole) legato al cibo e alla bevanda e il benessere fisico della salute: e certamente questo giudizio razionale può essere la base per un atto di auto-dominio. Trattandosi però di un confronto fra beni fra i quali non esiste una distanza infinita, l’auto-dominio (e l’integrazione) conseguente è sempre fragile e instabile. Qualora fosse inventata una medicina per evitare quelle cattive conseguenze sulla salute, l’auto-dominio cesserebbe molto probabilmente. Se, al contrario, l’arresto è compiuto attraverso un confronto razionale fra il bene (piacevole) legato al cibo e alla bevanda e il bene morale proprio della temperanza, poiché questa bontà è semplicemente tale, assoluta e incondizionata, l’auto-trascendimento è perfetto e l’eventuale auto-dominio è perfetto. Se si tratta di una persona credente essa vede l’infinita bellezza presente nella sequela di Cristo temperante, e l’auto-trascendimento è ancora più perfetto.

Possiamo, quindi, concludere che è la conoscenza della verità sul bene morale che rende possibile l’auto-dominio e quindi la dipendenza dell’atto dal soggetto. In una parola: è la conoscenza della verità sul bene morale che ci rende liberi.

Ho detto "rende possibile". Non si deve identificare auto-trascendiniento e auto-dominio: questo non deriva necessariamente da quello. Esso deriva esclusivamente dalla nostra volontà. Non si deve cadere nell’errore proprio di ogni razionalismo. L’atto di conoscere non genera l’atto libero: lo rende solo possibile. Ne è condizione necessaria, non causa efficiente. L’auto-dominio è un atto libero e quindi della volontà, non della ragione.

L’auto-dominio o auto-movimento della persona verso il bene morale coinvolge anche i dinamismi non spirituali: in questo coinvolgimento consiste propriamente l’atto di integrazione, sulla cui vera natura ho già parlato. Il "movimento" della persona verso il bene deve coinvolgere tutta la persona medesima, non solo lo spirito. Il bene deve essere amato con tutte le forze, non solo con le forze spirituali. È l’integrazione nella persona che assicura tutto questo.

L’unità sostanziale e di integrazione costituisce il primo presupposto fondamentale dell’etica della sessualità. Essa, infatti, implica che la sessualità sia una dimensione essenziale della persona umana e che, quindi, deve essere integrata in essa.

Di che natura sia questa appartenenza e come si realizza questa integrazione è precisamente compito della riflessione etica sulla sessualità scoprirlo.

 

Sussidi per la riflessione personale

1. Sulla tesi dell’unità sostanziale della persona restano classiche le pagine che san Tommaso dedica ad essa. Si veda in particolare: Contra gentes, II, capp. 56 e 68-69; S. th., I, q. 75, a. 4; q. 76, a. 1; Q. d. de anima, aa. 1. 2 e 9; Q. d. de spiritualibus creaturis, aa. 2 e 3.

Tutti questi testi si trovano raccolti in antologia nel volume di S. Vanni Rovighi, l’antropologia filosofica di S. Tommaso d’Aquino, Vita e Pensiero, Milano 1972, pp. 12 1 ss.

Potrà essere utile essere introdotti alla comprensione delle pagine dell’Angelico da qualche presentazione sintetica della tesi su esposta, quale quella delineata da S. Vanni Rovighi nell’op. cit., da p. 35 a p. 46. Oppure E. Gilson, Lo spirito della filosofia medioevale, Morcelliana, Brescia 1983, pp. 220-249.

2. Sulla tesi dell’integrazione della persona si può vedere soprattutto K. Wojtyla, Persona e atto, Libreria Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1982, pp. 215-293. Da p. 129 a p. 212 sono affrontati i temi dell’auto-trascendimento e dell’auto-dominio.

 

 

Capitolo secondo

LA REDENZIONE DEL CORPO UMANO

L’affermazione che Cristo con la sua morte e risurrezione ha redento l’uomo si colloca nel centro della fede cristiana. Tuttavia, il compito del presente capitolo non è una presentazione generale della soteriologia cristiana. Esso si propone un obiettivo più limitato. Dobbiamo esaminare solo l’efficacia dell’atto redentivo di Cristo sul corpo umano o, meglio, sulla persona umana in quanto persona-corpo. Procederemo in modo assai semplice. Dapprima cercheremo di porci in ascolto di ciò che la Rivelazione ci dice al riguardo; in un secondo momento cercheremo di capire, per quanto possibile, questo dato rivelato.

1. Possiamo partire da 1 Cor 6, 13-17, poiché esso collega esplicitamente la risurrezione del Signore e il nostro corpo: ""I cibi sono per il ventre e il ventre per i cibi!". Ma Dio distruggerà questo e quelli; il corpo poi non è per l’impudicizia, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo. Dio, poi, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza. Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di una prostituta? Non sia mai! O non sapete voi che chi si unisce alla prostituta forma con essa un corpo solo? I due saranno, è detto, un colpo solo. Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito".

Senza addentrarci in una dettagliata analisi, non necessaria al nostro scopo, dal testo paolino si evincono alcune fondamentali affermazioni per il nostro tema.

La prima. Contrapponendo due unioni fisiche, quella con la prostituta e quella con Cristo Risorto, Paolo insegna che l’unione di due corpi è, in senso profondo, l’unione di due persone e che l’unione del credente con il Cristo è unione con il corpo glorificato di Cristo: il corpo del credente è membro di Cristo. Se il credente ha un rapporto sessuale con una prostituta, rende le membra di Cristo membra di una prostituta.

La seconda. Si dà, pertanto, una reciproca comunanza di destini. Se il Padre ha risuscitato il Signore, risusciterà anche il nostro corpo.

Questo passo ci indica la "chiave di volta" per leggere la Rivelazione della redenzione del corpo. Il punto di partenza è la risurrezione del corpo di Cristo: la redenzione del nostro corpo è una partecipazione alla risurrezione del corpo di Cristo. E quindi occorre ascoltare quanto la Rivelazione ci dice sul corpo di Cristo risuscitato per capire quanto essa ci dice circa la redenzione del nostro corpo.

2. Per chiarezza espositiva, semplificando fin al punto in cui è possibile farlo senza tradire o oscurare la verità, mi sembra che due siano i "centri" attorno ai quali possiamo ordinare quanto la Rivelazione ci dice sulla risurrezione in quanto avvenimento reale avvenuto nel Verbo stesso incarnato. Ambedue devono essere tenuti presenti, anche quando, per la limitatezza della ragione umana, siamo costretti a parlare solo di uno e a insistervi. Essi sono: il corpo risuscitato di Gesu è lo stesso, cioè numericamente identico, che il corpo crocifisso (A); il corpo risuscitato di Gesù è un corpo spirituale (1 Cor 15, 44-45), un corpo di gloria (Fil 3, 21), spirito vivificante ( 1 Cor 15, 45), primizia della nuova creazione ( 1 Cor 15, 20.23; 2 Cor 5, 17) (B).

(A) "Voi cercate Gesù Nazareno, il Crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano deposto" (Mc 16, 6). In questo annuncio della risurrezione, che Marco mette sulla bocca dell’angelo, ciò che è immediatamente e fortemente affermato è precisamente l’identità fra Gesù di Nazaret, meglio il Crocifisso, e il Risorto che gli apostoli vedranno. E in Luca, come in Giovanni, si insisterà sul fatto che il segno da cui il Risorto è riconoscibile sono le piaghe della crocifissione. Egli rimane per sempre colui che è stato crocifisso; il Risorto è precisamente colui che fu crocifisso.

Per cogliere il peso, il significato di questa identificazione, due riflessioni si impongono.

La prima. Si deve escludere che la Rivelazione, in questo modo, abbia semplicemente voluto dirci, insegnarci che lo spirito è immortale, che la morte non ha alcun potere sopra di esso. Un messaggio simile al Fedone platonico. Si ha qui un intervento diverso dalla semplice conservazione nell’essere dell’anima umana di Cristo. È il corpo di Gesù, nel quale e per il quale l’anima umana di Gesù è stata creata, che iene ri-unito alla Persona del Verbo. Tutto ciò che fu la sua individualità umana, tutto ciò che egli è divenuto nel tempo della sua unione al corpo, rimane ora per sempre.

Gesù Cristo rimane in eterno nella sua carne, cioè nella sua natura umana completa: corpo e anima.

La seconda. È lo stesso cadavere, deposto in un sepolcro la sera della Parasceve, che ha ripreso vita: che è stato nuovamente in-formato dall’anima umana di Gesù il Cristo, dalla quale esso era stato disintegrato nella morte. Non si deve pensare a una sorta di "creazione" di un altro corpo. Ma questa ultima riflessione ci costringe già a concentrare la nostra attenzione sull’altro punto.

(B) L’identità ontologica (e numerica) fra il cadavere deposto nella tomba e il corpo risuscitato di Gesù non è un semplice ritorno alla vita precedente. È un luogo comune nella teologia cattolica il dire che la risurrezione di Gesù è essenzialmente diversa dalla risurrezione di Lazzaro.

Si tratta di una ri-animazione (meglio: ri-assunzione) glorificante e trasfigurante. L’atto divino della ri-assunzione è lo stesso e identico atto della glorificazione-trasfigurazione. La gloria della persona del Verbo, della quale egli si era spogliato, assumendo la condizione di servo (cfr Fil 2, 7 e anche Eb 2,9), ora penetra e pervade compiutamente la sua carne.

In conclusione: il fatto che Gesù, da morto sia entrato in possesso di una vita nuova, anche corporale (e non solo spirituale), una vita corporale trasfigurata e glorificata, ma in continuità ontologica con la vita corporale precedente la sua morte, è il nucleo della verità della risurrezione.

3. La Rivelazione ci dice che Gesù risorto è la primizia della nuova creazione: il primogenito dei morti. L’evento della risurrezione accaduto nel Cristo accade anche in colui che crede in lui (Gv 6, 39-40). Anche il corpo del credente è redento attraverso la partecipazione alla trasfigurazione-glorificazione del corpo di Cristo.

La risurrezione di Gesù, meglio Gesù Risorto, è causa e modello della risurrezione del nostro corpo: essa trova la sua sorgente e il suo esemplare nella vita nuova del nuovo Adamo. Infatti "come abbiamo portato l’immagine dell’Adamo terrestre, così porteremo l’immagine dell’Adamo celeste" (1 Cor 15, 49). La nostra eterna elezione-predestinazione a essere conformi all’immagine del Figlio (cfr Rm 8, 29) raggiungerà la sua perfezione, la sua completa realizzazione quando il Cristo "trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso" (Fil 3, 21). Solo quando accadrà questa conformazione al corpo glorioso di Cristo, la redenzione della persona umana sarà perfetta; la persona umana, infatti, non è solo spirito, ma è anche il suo corpo. La persona umana è una persona-corpo. La redenzione è la nuova creazione, la ricostituzione della persona nella sua originale verità, bellezza e bontà: nell’integrità del suo essere.

Poiché la nostra risurrezione è causata dalla risurrezione di Cristo, poiché essa "non è niente altro che l’estensione all’uomo della stessa risurrezione di Cristo" (S. Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera su alcune questioni riguardanti l’escatologia, AAS 71, 1979, p. 941), ciò che è accaduto nel corpo di Cristo accadrà anche nel nostro. Nei documenti della fede della Chiesa ritroviamo, pertanto, la stessa "dialettica" di cui abbiamo parlato al riguardo del corpo di Cristo: di identità fra il corpo nostro nell’attuale condizione e il corpo risuscitato e di trasformazione del corpo attuale, diciamo, nel corpo glorioso. La cosa è molto evidente in 1 Cor 15, 44 dove è lo stesso sostantivo che designa il nostro corpo attuale e il nostro corpo risorto: le due condizioni sono denotate da due aggettivi che sono attribuiti allo stesso sostantivo. La dialettica di continuità-trasformazione risulta chiaramente enunciata anche ai vv. 53-54.

Cerchiamo ora di vedere in che cosa consiste la conformazione del nostro corpo mortale al corpo risorto di Cristo.

Nel già citato capitolo della prima lettera ai Corinzi, san Paolo presenta la redenzione del nostro corpo attraverso una serie di quattro coppie di antitesi: corruttibilità-incorruttibilità; ignobiltà-gloria; debolezza-forza; animalità-spiritualità. Anche senza addentrarci in un’analisi particolareggiata dei singoli termini, analisi non necessaria al nostro scopo, il concetto centrale risulta chiaro. Il corpo umano redento nella risurrezione non è più semplicemente conformato dal suo principio naturale, la psyche, ma è investito dalla potenza dello Spirito. La gloria di Dio, la sua Presenza santa e santificante ha trasfigurato il corpo del Verbo incarnato, facendone il vero tempio, il luogo cioè della Presenza. Esso non è più il corpo umiliato e debole. In forma partecipata, anche il nostro corpo sarà trasfigurato dalla presenza in esso della gloria di Dio: sarà un corpo "glorioso" che non può più conoscere la corruzione della morte.

La Rivelazione contiene anche un’altra affermazione riguardante la redenzione del nostro corpo. Essa è già iniziata nella risurrezione di Cristo (cfr Col 3, 1-4 e Ef 2,5-6). San Paolo afferma quest’inizio come un evento accaduto realmente in ciascuno di noi nel momento del Battesimo (cfr Rm 6, 3-11 e Col 2, 12), mentre san Giovanni sottolinea il legame profondo, causale, fra la redenzione del nostro corpo e la manducazione eucaristica della carne di Cristo (Gv 6, 54). Dunque: mediante il Battesimo e l’Eucaristia è già iniziato nel nostro corpo quel processo redentivo che troverà il suo compimento nella risurrezione filiale.

In questo contesto, la Sacra Scrittura connette profondamente l’evento (battesimale-eucaristico) della redenzione del nostro corpo con l’impegno della nostra libertà. Un impegno che si presenta come configurazione alla morte di Cristo per poter risuscitare con lui di tra i morti (cfr Fil 3, 10-11).

4. Dopo aver ascoltato la divina Rivelazione, cerchiamo ora di avere un’intelligenza teologica della Rivelazione sulla redenzione del corpo.

L’atto redentivo di Cristo attinge in primo luogo lo spirito o, meglio, la persona umana in quanto soggetto spirituale. Non è necessario, al nostro scopo, che presentiamo tutta la dottrina teologica al riguardo. Limitiamoci a un aspetto, immediatamente connesso con la nostra tematica.

I punti costanti di riferimento per la nostra intelligenza teologica sono i seguenti: la redenzione del corpo umano consiste in un "passaggio" trasfigurante dalla corruttibilità all’incorruttibilità, partecipazione alla risurrezione di Cristo; questo passaggio accadrà pienamente nella risurrezione della carne, ma già fin da ora il battezzato che si nutre del corpo e del sangue di Cristo lo sta sperimentando.

4.1. La dottrina della Chiesa ha usato il concetto di "integrità" e di "immortalità" per connotare lo stato originario di giustizia della persona considerata nel suo corpo.

Il concetto di immortalità in questo contesto è più esteso e comprensivo del concetto simile elaborato dalla filosofia (greca). Il concetto filosofico, infatti, esprime una proprietà essenziale del soggetto spirituale come tale: in ragione della sua semplicità, lo spirito è naturalmente incorruttibile o immortale. Il concetto teologico afferma una proprietà dello spirito, donata ad esso oltre le sue (dello spirito) esigenze strutturali, consistente in una forza preter-naturale, mediante la quale esso può preservare il corpo da ogni corruzione. Mediante questo dono, fatto all’uomo dal Creatore, la persona umana raggiunge una pienezza nel suo essere che, pur essendo al di là delle sue naturali possibilità ed esigenze, si pone in continuità con esso. L’uomo, infatti, è l’unica persona, nell’universo delle persone, a essere persona-corpo. Ma se da una parte la persona, in quanto e perché soggetto spirituale, è incorruttibile, dall’altra, in quanto e perché soggetto corporale, è corruttibile: l’uomo, nella verità intera del suo essere personale, è destinato a corrompersi. Il dono della immortalità integra completamente il corpo nella soggettività personale, così che la persona, nella sua interezza, possa raggiungere quella beatitudine eterna alla quale è stata predestinata in Cristo.

Ma per cogliere il significato profondo di questo dono dell’immortalità, è necessario comprenderlo nella luce del concetto di integrità.

Nel capitolo precedente abbiamo già definito, da un punto di vista meramente filosofico, questo concetto. Ma, anche in questo caso, la ragione è capace di cogliere solo un frammento della verità intera dell’integrità.

Il capitolo secondo della Genesi descrive l’integrità originaria della persona umana, dicendo che l’uomo e la donna erano nudi, ma non ne provavano vergogna. La vergogna è conseguenza della disobbedienza al comando del Signore.

Come già abbiamo visto, il corpo è il linguaggio della persona: nel e mediante il corpo, la persona dice sé stessa all’altro. È una conseguenza dell’unità sostanziale dell’uomo. La persona può offrirsi allo sguardo dell’altro, cioè può entrare in una relazione di comunione reciproca, quando è vista-voluta nella sua soggettività personale, precisamente come persona e non come "meno-che-persona", come oggettività cosificata. L’evento della comunione inter-personale può accadere solo se, e solo quando, la dimensione visibile dell’incontro (la dimensione fisica) è pienamente subordinata alla dimensione invisibile (la dimensione spirituale). Se e quando l’atto di conoscenza e di amore, che istituisce nella sua essenza il rapporto inter-personale, può prendere corpo (in senso rigorosamente letterale) e, reciprocamente, se e quando l’atto del guardarsi, come simbolo dell’unificazione fisica, può essere spiritualizzato (è in-formato dallo spirito).

Tutto questo processo implica una perfetta unificazione fra la soggettività spirituale e la soggettività psico-fisica: unificazione che può consistere solo nell’integrità. L’immortalità era il segno, la conseguenza che, nello stato di giustizia originaria, l’integrità era così perfetta, che "la vittoria dell’anima sul corpo era tale, che nulla poteva accadere nel corpo in contrasto con lo spirito" (San Tommaso, In II Sent., dist. 19, a. 5 c).

L’integrazione della dimensione psico-fisica nella soggettività spirituale è, tuttavia, condizionata alla sottomissione della volontà umana alla santità di Dio: è la presenza della gloria di Dio nello spirito umano che produce questa perfetta integrità. Per due ragioni, connesse fra loro.

La prima. Abbiamo già visto quale è la condizione fondamentale perché la persona umana sia integra: la visione (intellettiva) del bene intelligibile e la volizione (o amore) di questo bene intelligibile. Il processo di integrazione è minacciato da due versanti: l’oscurarsi dell’intelletto che non sa più vedere il bene intelligibile e il volgersi della volontà dall’amore del bene intelligibile all’amore del bene sensibile.

È necessario che ci fermiamo un momento a spiegare questi concetti, che peraltro sono concetti fondamentali in ogni riflessione etica.

Il bene intelligibile è il bene che è tale (cioè bene) non in relazione a me, a te ... ma in sé e per sé e quindi anche per me, per te... Il bene non intelligibile è il bene che è tale (cioè bene) solo per me, per te... Se l’espressione non si fosse ormai completamente stemperata e non avesse perso il suo vigoroso significato originario, potremmo dire: il bene intelligibile è il "bene comune"; il bene non-intelligibile è il "bene privato". Il primo, cioè, è il bene proprio della comunità delle persone: che ogni persona riconosce, quando usa rettamente della sua intelligenza: il secondo è il bene individuale, che vale solo per la persona che lo afferma.

Poiché la volontà è l’inclinazione razionale che la persona produce in sé stessa di fronte al bene conosciuto, la volontà del bene intelligibile è diversa dalla volontà del bene sensibile.

Possiamo ora comprendere perché l’integrità della persona umana dipende dalla rettitudine della volontà (cioè dall’amore del bene intelligibile). La rettitudine della volontà, infatti, consiste nel volere una realtà nella misura adeguata alla sua bontà; per la sua bontà intrinseca, inerente al suo essere. L’ingiustizia della volontà consiste, al contrario, nel volere una realtà nella misura in cui è semplicemente il mio, il tuo bene: per la bontà che essa ha per me, per te. E, pertanto, la volontà giusta ama Dio sopra ogni cosa, con tutte le sue forze, poiché questa è l’unica misura adeguata all’Essere divino, mentre ama ogni altra realtà nella misura in cui partecipa della bontà di Dio. In questa rettificazione del volere, ogni bene è voluto (anche il bene sensibile), ma nell’ordine. Ogni volizione, cioè, e ogni movimento verso qualsiasi bene è subordinato alla volontà che ama Dio sopra ogni cosa, è integrato nella soggettività spirituale in modo tale che nulla si oppone alla volizione razionale con la quale l’uomo ama Dio sopra ogni cosa.

La seconda. Nell’universo dei beni intelligibili, il bene della persona creata è assolutamente singolare. La partecipazione, infatti, dell’essere personale alla bontà divina è tale che esso può essere voluto solo in sé e per sé: nessuna persona può divenire il bene di un’altra nel senso che essa senza per il bene dell’altra. La comunione inter-personale, quindi, istituita solo dalla giustizia, è portata al suo compimento dall’amore solamente. Il secondo precetto non può non essere simile al primo. È lo stesso Bene che è amato, quando amiamo Dio e una persona. Il Bene impartecipato divino, il bene partecipato nelle persone create. Mentre nulla, all’infuori delle persone (increate e create) può essere oggetto di amore e solo l’amore è risposta adeguata alla bontà insita nell’essere-persona.

Quando la persona diventa ingiusta verso Dio, non riconosce più Dio come Dio, è tutto l’ordine del bene quindi che è rovinato, poiché è negato il principio stesso che costituisce quell’ordine. E la persona non è più in grado di costituire una comunione interpersonale.

4.2. La fede della Chiesa ci insegna che l’uomo ha perduto la sua originaria integrità e la sua immortalità precisamente perché ha peccato. In che cosa consiste questa disintegrazione e questa corruzione? Tenendo presente quanto si è detto finora, non dovrebbe essere difficile rispondere.

Poiché la persona umana ha rotto la sua alleanza con il Signore, la sua volontà ha perduto quella forza (preter-naturale) di integrare sempre i movimenti umani, subordinandoli a sé. Questa perdita significa e comporta due fatti: il fatto che la volontà finisce col subordinarsi ai movimenti inferiori e il fatto che la volontà stessa si muove alla ricerca di quel "bene privato", di cui ho parlato poco sopra. La penetrazione intensiva ed estensiva della volizione razionale, che ama Dio sopra ogni cosa, nella vita psico-fisica si interrompe; il movimento della volontà verso Dio si incurva su sé stesso o su un qualsiasi bene creato. La fede e la teologia della Chiesa hanno chiamato questa condizione umana con il nome di "concupiscenza".

È necessario soffermarsi ora su questo secondo concetto che descrive la condizione della persona umana nello stato di persona "caduta", così come il primo, quello di giustizia-integrità-immortalità, descrive la condizione dell’uomo nello stato originario di giustizia. E, anche, non si deve perdere di vista che la riflessione sulla concupiscenza è condotta con una precisa intenzione: capire la verità rivelata della redenzione del corpo. L’uomo dell’innocenza è diventato l’uomo della concupiscenza. Che cosa significa questo cambiamento? Che cosa accade nella persona umana in quanto persona-corpo?

Essa esperimenta in sé una difficoltà a intravedere l’essenzialità umana del corpo: a vedere cioè la sua (del corpo) intrinseca appartenenza alla persona. Questa difficoltà o debolezza intra-visiva è effetto, e diventa a sua volta causa, di una certa frattura costitutiva avvenuta nell’interno della persona, dell’originaria unità (di integrazione) spirituale e psico-somatica dell’uomo.

Questa frattura dell’unità originaria crea una frattura all’interno dei dinamismi operativi, di cui san Paolo parla quando scrive: "acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge che muove guerra alla legge della mia mente" (Rm 7, 22-23). Il corpo non è più sottomesso allo spirito, è un permanente seme di opposizioni allo spirito, minacciando così la stessa costituzione della persona. L’orientamento o la direzione, infatti, che questa condizione concupiscente imprime all’uomo non può essere che la corruzione e la morte. Ma non solo e non principalmente in senso meramente fisico. Ciò che si trova a essere minacciata è la stessa struttura dell’auto-possesso e dell’auto-dominio, attraverso cui la persona si costruisce come tale: è — se così posso dire — la stessa costituzione della persona a essere minacciata nella sua essenziale dimensione etica. Si comprende allora bene che la concupiscenza non è peccato in senso vero e proprio, ma essa, derivata dal peccato, è un focolaio permanente di peccato. È una causa che può sempre indurre la persona a peccare.

Se ora passiamo da una considerazione della concupiscenza in quanto condizione immanente a ciascuno di noi, alla considerazione dell’uomo concupiscente nei suoi rapporti con l’altro, in quanto rapporti mediati nel e dal corpo, vediamo subito che la concupiscenza è la vera minaccia alla comunione interpersonale. L’uomo diviso in sé crea divisione fuori di sé.

Possiamo partire dalla constatazione di un fatto quotidiano. Lo spirito è incapace di mentire all’altro; la menzogna ha sempre bisogno del corpo, del linguaggio del corpo. Per questa ragione, è impossibile dire menzogne a Dio. Egli vede il nostro spirito.

In uno stato di perfetta integrazione del corpo nello spirito, la comunione interpersonale è non solo possibile, ma non è minacciata da nulla, poiché il "substrato" necessario della comunione, cioè il linguaggio del corpo, è linguaggio della persona.

Nello stato di concupiscenza, la reciproca comunione mediante il corpo viene sconvolta. Il corpo cessa di costituire l’insospettabile substrato della comunione delle persone, poiché ciascuna, alla luce della propria esperienza personale, mette in dubbio l’originaria capacità del corpo dell’altro. Nella coscienza di ciascuno si chiude la semplice e diretta capacità di una piena comunione reciproca. In breve: la concupiscenza introduce nella relazione interpersonale una minaccia permanente all’originario significato del corpo quale "substrato" specifico della comunione fra persone umane. La concupiscenza, in quanto permanente difficoltà di identificazione con il proprio corpo, è permanente difficoltà di immedesimazione con l’altro. Ciò che la concupiscenza mette in questione continuamente è la capacità del dono reciproco, deformando il possesso reciproco creato dalla auto-donazione, in possesso reciproco creato dal dominio dell’uno sull’altro.

4.3. Alla luce dello stato originario di giustizia-incorruttibilità-integrità e dello stato di concupiscenza, possiamo ora finalmente tentare una comprensione teologica della redenzione del corpo.

L’esperienza, la coscienza che l’uomo ha del suo corpo, di sé in quanto soggetto-corpo, lo porta a concludere con assoluta certezza che il corpo è "corruttibile, debole, animale, ignobile" (cfr 1 Cor 15). La fede ci dice che il nostro corpo risorgerà incorruttibile, forte, spirituale e glorioso, in quanto e poiché il corpo del Verbo incarnato è risorto. Ma, nello stesso tempo, "noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando... la redenzione del nostro corpo" (Rm 8.23). L’uomo è ora collocato fra due poli, il primo Adamo e il secondo Adamo (cfr 1 Cor 15, 47): già in possesso della redenzione, verso la piena trasfigurazione-glorificazione del corpo. Il battezzato, infatti, eucaristicamente comunica con il corpo e il sangue di Cristo e riceve lo Spirito che dà l’incorruttibilità, la forza, la spiritualizzazione e la gloria al corpo del credente: come germe che si sviluppa fino alla risurrezione finale. Come stesse partorendo sé stesso (Rm 8, 22-25). La comprensione teologica mira precisamente a comprendere questo processo redentivo del corpo. E poiché ogni moto diventa intelligibile considerando il suo termine, così è da esso che si deve partire.

La risurrezione del corpo significa, in primo luogo, una "spiritualizzazione" perfetta del medesimo. Spiritualizzazione non significa distruzione della dimensione psico-somatica dell’uomo. Essa significa che lo spirito — o meglio: la soggettività spirituale — dell’uomo penetrerà pienamente nel corpo (pienezza intensiva ed estensiva) e quindi i dinamismi spirituali governeranno interamente i dinamismi psico-somatici: con la relativa conseguenza di una completa subordinazione di questi a quelli. È eliminata l’esistenza stessa di un’altra legge che muova guerra alla legge della mente (cfr Rm 7, 23).

In questa perfetta spiritualizzazione, cioè integrazione della persona umana, consiste la sua (della persona) perfetta realizzazione. E, infatti, la persona umana perfetta non è un soggetto spirituale, privo o privato del corpo; non è una persona nella quale le dimensioni costitutive della medesima sono dinamicamente in opposizione fra loro: non è una persona nella quale l’unificazione è avvenuta per negazione. È la persona nella quale si ha una perfetta partecipazione di tutto ciò che nell’uomo è psico-fisico a ciò che in essa è spirituale.

Questo accade (e può accadere) solo nella risurrezione, come definitiva e perfetta redenzione del corpo. Infatti, una certa opposizione o divisione all’interno dell’uomo è strutturale, consegue alla sua stessa natura metafisica. L’opposizione di cui ciascuno di noi ha esperienza è tuttavia congiunturale (= concupiscenza): essa, infatti, è perdita non di un dato naturale, ma di un dono preternaturale. La risurrezione del corpo è la sua definitiva, perfetta redenzione, poiché reintegra la persona umana, in quanto unità sostanziale di spirito e corpo, nella sua originaria condizione. E in questo consiste il passaggio dalla condizione "animale" alla condizione "spirituale".

La conseguenza è che questa persona umana è incorruttibile: la perfetta sottomissione allo spirito (la spiritualizzazione nel senso suddetto) libera la carne dalla corruzione.

Gesù, parlando della condizione dei risorti, afferma che "i figli della risurrezione" sono "figli di Dio" (Lc 20, 36). Scopriamo la radice ultima della spiritualizzazione e incorruttibilità: una partecipazione, al grado sommo consentita a uno spirito creato, alla vita stessa trinitaria.

Dio, nella sua vita propria trinitaria, si comunica alla soggettività spirituale dell’uomo e, attraverso essa, alla sua (dell’uomo) realtà psico-somatica. Mediante il Cristo risorto, la persona umana viene permeata e penetrata, inabitata da ciò che è essenzialmente divino.

Dal punto di vista umano, il consenso della persona creata all’autodonazione di Dio è il "punto" in cui si concentrano tutti i dinamismi spirituali, psichici e fisici dell’uomo: è come ciò che tiene legati in unità tutte le dimensioni soggettive dell’uomo.

La gloria di Dio ritorna ad abitare nell’uomo: il corpo è glorificato. Questa è la meta finale di ogni persona.

La redenzione del corpo, quale accade ora, è un cammino verso questa spiritualizzazione in-corruzione-glorificazione (divinizzazione).

Questo cammino ha il suo "germe" nella comunicazione/comunione (eucaristica) alla carne immolata e al sangue effuso del Verbo incarnato. Attraverso questa comunione al corpo e sangue di Cristo ci viene donato quello Spirito vivificante che crea in noi la rettitudine della volontà (effonde in noi la carità). La volontà, così sanata e divinizzata, con-centra tutto l’uomo nel consenso all’azione divina, dal momento che il centro della persona è la volizione razionale: e così inizia il processo di spiritualizzazione del corpo. Questo processo di spiritualizzazione trasforma sempre più il corpo, rendendolo, precisamente, sempre più disponibile allo spirito.

Si tratta di un "processo". Infatti, nel redento rimane il "fomite" della concupiscenza: quel germe, cioè, che minaccia questo processo redentivo. E così, la redenzione del corpo, dono della grazia, implica una risposta umana che ha anche il carattere di una lotta contro ciò che spezza l’unità della persona, di una quotidiana e dolorosa generazione di sé stesso.

L’etica teologica della sessualità umana studia precisamente questo processo redentivo della persona-corpo: da un punto di vista preciso, come vedremo subito.

 

Sussidi per la riflessione personale

1. Sulla teologia della risurrezione si può vedere: M.-J. Nicolas, Théologie de la Résurrection, Desclée, Paris 1982. Più direttamente attinente al nostro tema: A. Chapelle, Sexualité et Saintété, Institute d’Etudes Théologiques, Bruxelles 1977, pp. 28-57.

2. Per un approfondimento antropologico del tema della nostra risurrezione dovrebbero essere meditate le pagine seguenti di san Tommaso: In IV Sent., d. 43, q. 1, a. 1 (= Suppl., q. 75, a. 1) ; Summa contra gentes, IV, cap. 79; Compendium theologiae, pars I, c. 151; In 1 Cor, 15, lect. 2; De potentia, q. 5, a. 10. Per la nostra problematica è soprattutto importante il capitolo della Summa contra gentes a motivo del rapporto che ivi si istituisce tra redenzione del corpo e unità della persona.

3. L’ultima parte del capitolo deve essere accompagnata dallo studio di Giovanni Paolo II, Uomo e donrna lo creò. Catechesi sull’amore umano, Città Nuova - Libreria Editrice Vaticana, Roma 19872, pp. 255-286.