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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


La "comunicazione in umanità" e l’educazione oggi.
Incontro con gli insegnanti di religione delle scuole materne ed elementari.
Ferrara 20 marzo 2002

Due sono le sfide sulle quali avete riflettuto e colle quali siete confrontati nel vostro insegnamento e nel vostro lavoro educativo coi bambini: la sfida della comunicazione globale e la sfida della integrazione culturale. Alla riflessione suddetta avete fatto precedere una riflessione biblica per educarvi a leggere il presente in rapporto al futuro nella modalità propria dei profeti.

Mi pongo in continuità con questa riflessione, per esservi di aiuto nel vostro impegno educativo. Parto da un testo di Z.Bauman che mi sembra descrivere bene la condizione spirituale in cui vive l’uomo nell’era della informatizzazione dispiegata:

"La socialità, per così dire, è incerta, alla vana ricerca di un punto fermo cui appigliarsi, un traguardo visibile a tutti su cui convergere, compagni con cui serrare le file. Ce n’è molta tutto intorno: caotica, confusa, sfocata. Priva di sfoghi regolari, la nostra socialità viene tendenzialmente scaricata in esplosioni sporadiche e spettacolari, dalla vita breve, come tutte le esplosioni. L’occasione per liberare la socialità è fornita talvolta da orge di compassione e di carità; talaltra da scoppi di aggressività smisurata contro un nemico pubblico appena scoperto (cioè contro qualcuno che la maggior parte degli occupanti la sfera pubblica può riconoscere come nemico privato); altre volte ancora da un evento cui moltissime persone reagiscono intensamente nello stesso momento, sincronizzando la propria gioia, come nel caso della vittoria della nazionale ai mondiali di calcio, o il proprio dolore, come nel caso della tragica morte della principessa Diana. Il guaio di tutte queste occasioni è che si consumano rapidamente: una volta tornati alle nostre faccende quotidiane tutto riprende a funzionare come prima, come se nulla fosse successo. E quando la fiammata di fratellanza si esaurisce, chi viveva in solitudine si ritrova di nuovo solo, mentre il mondo comune, così sfolgorante solo un momento prima sembra più buio che mai" [La solitudine del cittadino globale, Milano 2000, pag.11].

Il testo ci pone di fronte al problema centrale di un vero impegno educativo: possiamo accontentarci di un uomo "davanti al suo computer che è macchina da scrivere, elaboratore di calcoli, televisione, tavolo da disegno, playstation etc. il nostro sempre-più-piccolo-tutto, insomma il "sacramento" (segno e strumento) del nostro isolamento nel virtuale" [A.Nitrola, Provvidenza e senso della storia, in La provvidenza divina. Approccio pluridisciplinare, ed. ISSRA, L’Aquila 2002, pag. 419] oppure ha senso impegnarci per la ricostruzione vera dell’umanità dell’uomo? Più brevemente: nella prassi didattica si deve dare spazio a contenuti e metodi oppure solo a tecniche ed abilità cognitive? [cfr. P.Terenzi, Per una scuola di qualità. Educazione e società in Italia, ed. Ideazione, Roma 2002].

E’ questa la domanda fondamentale da cui nasce la mia riflessione, che dividerò in due parti. Nella prima parte cercherò di individuare le ragioni delle difficoltà; nella seconda cercherò di offrire alcuni orientamenti per farvi fronte.

1. Le ragioni delle difficoltà

Mi sembra di poter sintetizzare tutte le ragioni delle difficoltà nella carenza DI cui spesso il bambino soffre, di una comunicazione in umanità. Spiego questa formulazione sintetica e poi ne mostrerò le dimensioni costitutive.

Che cosa è la "comunicazione in umanità"? Essa denota in primo luogo un modo di essere-con l’altro la cui struttura fondamentale è costituita dall’ affermazione dell’altro come persona. Nei rapporti interpersonali prende forma la "comunicazione in umanità" ed accade, quando ciascuno di coloro che vi entrano persiste nell’affermazione del valore incondizionato della persona dell’altro [si potrebbe anche dire: della sua dignità]. E’ la norma evangelica del trattare ogni altro come se stesso [cfr. K.Woitila, Perché l’uomo. Scritti inediti di antropologia e filosofia, ed. Leonardo, Milano 1995, pag. 57].

Quando nel rapporto interpersonale entra il bambino, questa struttura al contempo metafisica ed etica, non deve essere data troppo per scontata. Non raramente il bambino è stato voluto come compimento necessario del proprio desiderio di autorealizzazione. Ma non voglio ora fermarmi su questo aspetto del problema che stiamo affrontando.

La struttura metafisica ed etica della "comunicazione in umanità" da sé sola non la fa accadere: ne è solo la base. Essa accade attraverso il dono, la comunicazione di una comprensione della realtà ritenuta degna di essere vissuta. La propria umanità ha trovato la propria realizzazione, è divenuta se stessa attraverso un contatto spirituale colla realtà, quale si ha attraverso la conoscenza e l’amore. All’interno di questo "contatto" la persona ha conosciuto la verità su se stessa, la verità sul bene proprio della persona: ha costituito un patrimonio spirituale. Ha generato in pienezza se stessa.

La vera "comunicazione in umanità" accade quando questo patrimonio spirituale viene comunicato, viene proposto come via alla realizzazione vera di se stessa perché indicativa e propositiva del bene della persona, di ogni persona.

Non si tratta di comunicare informazioni semplicemente o insegnare le regole per averle. Si tratta di una comunicazione nella formazione della propria umanità. E’ una sorta di "comunicatio in sacris" nel senso ovviamente non teologico né canonistico: le "cose sante" [le "sacra"] di cui si parla sono la verità e il bene della persona.

Non voglio procedere oltre in questa riflessione. Mi interessa ora dirvi perché questa "comunicazione in umanità" oggi non accade frequentemente quando nel rapporto entra il bambino. Dico subito che non accade perché sono venute meno nell’adulto le condizioni fondamentali di questo avvenimento.

Perché l’adulto possa far accadere una "comunicazione in umanità" è necessario che sia certo dell’esistenza di una verità (sul bene) della persona, e che ne sia in possesso. Se infatti viene meno questa duplice condizione, che cosa si comunicherà? Nella migliore delle ipotesi un’abilitazione a venire in possesso di capacità tecniche cioè un’abilità a fare, ma non la capacità di agire. In mancanza di quelle condizioni infatti cominciano a sorgere dentro all’educatore domande del tipo: "ma che diritto ho di imporre la mia visione del mondo?". Il risultato è che la "comunicazione in umanità" si riduce ad essere un insegnare a imparare, moltiplicando le materie e alleggerendo i contenuti, spostando l’attenzione privilegiata dai contenuti alle tecniche e alle abilità. Ne viene fuori una sorta di comunicazione "liquida" se così posso chiamarla: una comunicazione nella quale cioè sono sempre più censurate le risposte alle domande fondamentali, e nella quale quindi la persona è sempre più lasciata alla sua spontaneità, dal momento che "il bambino non ha mai torto" [cfr. W.K. Kilpatrick, C’è l’America nel futuro dell’Italia? in Il Nuovo Areopago 4, 2000, pag. 38-52].

La vera sfida che oggi vi è posta è se esiste ancora la possibilità reale di una vera "communicatio in humanis".

2. Orientamenti nella sfida

Vorrei ora darvi alcuni orientamenti in questa situazione che è al contempo obiettivamente assai ardua e soggettivamente entusiasmante. Parto da una premessa.

Voi in quanto insegnanti di religione cattolica siete il punto forte di riferimento nella "comunicazione in umanità". La proposta educativa vostra infatti è nei suoi contenuti la risposta ultima e radicale alle domande, agli interessi supremi dell’uomo e quindi anche del bambino. E’ comprensibile quindi che possiate essere insidiati da istanze varie a rinunciare alla vostra precisa identità. E’ chiaro che ciò che sto dicendo non deve portarvi a confondere il vostro lavoro con quello di un catechista. Lo abbiamo chiarito varie volte: non lo faccio ora. Le premesse cioè che portano a quella che ho chiamato comunicazione liquida, possono avere un’apparente forza persuasiva maggiore nei vostri confronti che degli altri. E’ quindi necessario radicarsi sempre più profondamente nella (consapevolezza della) verità sul bene della persona.

Il primo orientamento nasce da una convinzione che non posso ora dimostrare: la convinzione che non si può comunicare in humanis se non all’interno di una tradizione culturale. "Una tradizione ritenuta degna di essere tramandata, per la quale, essendo considerata appunto un "bene", è giusto esigere rigore, fatica, disciplina e… fiducia nel futuro" [S.Belardinelli, Introduzione a P.Terenzi, Per una scuola… cit. pag. 11]. L’albero sradicato per la stolta idea che così può crescere più spontaneamente, è in realtà destinato a morire. L’attenzione alla tradizione vissuta dalla comunità cristiana è un elemento essenziale in quella "comunicazione in umanità" che avviene nell’insegnamento della religione cattolica.

Il secondo orientamento nasce dalla fedeltà a quella pedagogia del maestro interiore, che definisce la pedagogia cristiana. La vostra prima preoccupazione deve essere quella di fare attento l’alunno a se stesso. E’ la strada percorsa sempre da Agostino: l’uomo facendo attenzione a se stesso, scopre molte verità indubitabili circa la realtà della propria persona, della propria libertà. E le situazioni in cui il bambino viene a trovarsi e che sono capaci di risvegliarlo a questa attenzione a se stesso, sono molte.

Il terzo orientamento riguarda la fedeltà ai contenuti della proposta cristiana: contenuti continuamente ed intelligentemente ordinati sempre attorno alla persona di Gesù Cristo. Non si educa l’uomo presentandogli un minimo comune denominatore delle varie religioni. Il confronto con queste lo si attua in altro modo.

Conclusione

Mi piace concludere con una poesia di T.S. Eliot: "mille vigili che dirigono il traffico/non sanno dirvi ne perché venite né dove andare/. Una colonia intera di cavie o un’orda d’attive marmotte/ edificano meglio di coloro che edificano senza il Signore./ Ci leveremo in piedi fra rovine eterne?/ Ho amato la bellezza della Tua Casa, la pace del tuo santuario" [Cori da "La Rocca", in Opere, ed. Bompiani, Milano 1986, pag.231].

Non sono le regole che ci dicono da dove veniamo e verso dove siamo incamminati; non è l’abilità del fare che ci rende capaci di costruire la vera dimora dell’uomo. E’ "amare la bellezza della Casa", e la "pace del Santuario" che ci rende pienamente persone: a questo siete mandati.