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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Editoriale della rivista Anthropotes
dicembre 1989


Christ has so willed Church, that we should get at the Truth,
not by ingenious speculations reasoning,
or investigations of our own, but by teaching.

(J.H. Newman, Parochial and Plains Sermons, Ignatius Press 1987, 267).


L’uomo è costretto, in certi momenti della sua storia, ad assumere un compito necessario e pericoloso: il compito di collocare se stesso in un punto dal quale poter vedere nel suo insieme la vicenda che sta vivendo.

Compito necessario: in momenti di profonde crisi spirituali, abbiamo bisogno di punti di orientamento, per non perdersi nella disperazione o nella noia del non-senso. Compito pericoloso: esiste il rischio di semplificare troppo, di costringere la multiforme esperienza umana dentro schemi pre-fabbricati.

Nonostante fossimo ben consapevoli del pericolo, abbiamo voluto con questo numero di «Anthropotes» tentare questa impresa. Un risultato almeno vorremmo raggiungere: suscitare una seria discussione sui punti fondamentali della vita cristiana.

 

1. ALCUNE PREMESSE GENERALI

 

Sono sempre più convinto che uno dei problemi centrali della Chiesa contemporanea sia la determinazione dell’attitudine ultima, più profonda, che essa deve avere verso la modernità: non verso questo o quell’aspetto della modernità, ma verso la modernità come tale. La difficoltà nasce da un duplice fatto: dalla complessità che il termine stesso modernità designa e, soprattutto, dal carattere assiologico di questa categoria. Mi sembra che questo secondo fatto sia molto importante.

Per «carattere assiologico» intendo il fatto che quando si parla di modernità non si parla solamente di una divisione cronologica, operata dagli storici (europei): il periodo che inizia col 1492 (scoperta del Nuovo Mondo). Si intende una «forma di pensiero» (Denkform), una svolta nella determinazione di ciò che deve essere posto come centrale nella definizione stessa di uomo.

Vorrei ora tentare di descrivere questa svolta. San Tommaso d’Aquino, dall’inizio alla fine della sua vicenda teoretica, ha sempre insegnato che l’inizio-fondamento-sorgente di tutta la nostra vita spirituale, è la «ap- prehensio entis» (cfr per esempio De Veritate, q.1. a.1): lo spirito — meglio: l’uomo come soggetto spirituale — si mette in movimento, partendo dalla constatazione della realtà. In questo punto, il più radicale, sembra precisamente avvenire quella svolta di cui ho parlato poc’anzi. La coscienza è anzitutto presenza del soggetto al mondo reale e del mondo al soggetto reale. Ambedue le presenze sono le presenze primarie, ma a diverso titolo: la prima a titolo del soggetto reale, la seconda a titolo dell’oggetto reale.

La svolta avviene poiché si nega che questa presenza sia originaria: la presenza originaria è la presenza di se stesso a se stesso. L’inizio-fondamento-sorgente di tutta la nostra vita spirituale non è una «apprehensio» (entis), ma una domanda: «perché l’essente e non piuttosto il niente?», E, così, tutta la vicenda umana è il tentativo di una giustificazione del reale, a partire esclusivamente dal soggetto che è originariamente presenza di se stesso a se stesso.

Mi rendo conto di avere eccessivamente semplificato, ma credo di non aver detto il falso. La modernità come modo di pensare e come categoria assiologica mi sembra che possa essere definita, nella sua essenza, come antropocentrismo radicale: è l’uomo che deve rendere ragione-fondare (= giustificare) la realtà.

È possibile parlare di «uomo-creatore» (o «coscienza creativa»), come formula sintetica, per esprimere questa svolta? A questo punto il problema dell’ attitudine della Chiesa verso la modernità così intesa si complica ancora di più.

La Tradizione cristiana ha riflettuto molto seriamente (Gregorio di Nissa e Massimo il Confessore, nella tradizione orientale; Agostino e Tommaso, nella tradizione occidentale) sulla vera natura dell’atto libero, vedendo in esso una vera (anche se analogica) auto-creazione. Gregorio di Nissa ha affermato che mediante l’atto libero, l’uomo genera se stesso ed Agostino ha affermato che niente è più intimo alla libertà della libertà stessa. Ci troveremmo di fronte ad un evento privo di presupposti. E questo concetto di libertà sembra precisamente coincidere con la svolta di cui ho parlato prima: affermazione di un inizio, senza presupposti, a partire dal soggetto (umano). Questa coincidenza sembra, pertanto, finalmente raggiungere la soluzione del nostro problema.

Lasciando per ora irrisolta questa questione, continuo nella indicazione delle premesse generali.

Mi sembra che il problema posto dalla modernità al pensiero cristiano sia, forse, il problema della libertà. Più precisamente: della originarietà o non della libertà nella vicenda spirituale dell’uomo. Alcuni grandi fatti, più superficiali ma non meno importanti, che hanno caratterizzato la nostra storia occidentale, sembra che confermino la nostra intuizione. I fatti sono: la nascita della scienza con Galileo; la nascita della democrazia politica negli Stati Uniti; l’avvento del cosiddetto «quarto stato» sulla scena della storia; il movimento femminista.

Nel discorso pronunciato dal Santo Padre al nostro primo Congresso di Teologia morale (Aprile 1986), egli disse: «This essential link-up of Truth-Goodness-Freedom has been lost to a large extent by contemporary culture. Therefore, to lead man to rediscover it is one of the particular requirements of the Church’s mission today, for the salvation of the world».

 

2. VERIFICA NEL CAMPO DELL’ETICA DI UN’IPOTESI

 

Ho indicato alcune ipotesi interpretative. Ora, vorrei passare esplicitamente al campo dell’etica, come luogo per verificare una ipotesi. Prima, enuncerò brevemente l’ipotesi (2, 1) e poi procederò ad uno schizzo di verifica (2, 2).

 

2, 1. (L’ipotesi). Nell’enunciare l’ipotesi, mi servirò di alcune riflessioni di S. Kierkegaard (La malattia mortale). Secondo il filosofo danese, le possibilità radicali che si aprono davanti alla libertà dell’uomo, chiamato alla suprema determinazione di se stesso, sono due: «nel rapportarsi a se stesso e volendo essere se stesso l’io si fonda, trasparente, nella potenza che l’ha posto» oppure «nel rapportarsi a se stesso e volendo essere se stesso l’io non si fonda, trasparente, nella potenza che l’ha posto».

Si tratta, dunque, della determinazione di se stesso, cioè dell’esercizio della libertà. Attraverso, infatti, questo esercizio, l’uomo non sceglie solo qualcosa, ma sceglie, dentro la scelta di qualcosa, se stesso: determina cioè se stesso, costruisce progressivamente se stesso. In relazione a che cosa? Secondo quale misura? Può essere in relazione a qualcosa di finito: secondo una misura limitata: rapportando se stesso semplicemente a se stesso, misurando semplicemente se stesso su se stesso.

Ma, ora, vorrei spiegare questo punto con un esempio, un fatto assai importante nella storia europea. Si tratta della vicenda di san Tommaso Moro, chiamato ad una decisione altamente drammatica. La scelta che deve fare ha un oggetto molto preciso: apporre o non apporre una firma. Ma egli è ben consapevole che dentro a questa precisa scelta, decide di se stesso. Di se stesso in relazione a che cosa? È questa in realtà la vera decisione: dentro quale relazione porre se stesso? Egli, infatti, può vedere se stesso in relazione al bene della sua famiglia: essa ha ancora bisogno della sua presenza. In relazione al bene dello Stato inglese: esso, da poco ricostituito in unità sotto la Corona, non ha bisogno di essere ancora messo in pericolo. In relazione al suo istinto di conservazione: egli sa che se rifiuta di firmare, morirà. Ciascuna di queste tre relazioni, che la libertà di T. Moro può scegliere, costituisce una misura del proprio io: la misura è data dal suo essere padre di famiglia, la misura è data dal suo essere suddito del re d’Inghilterra, la misura è data dal suo essere un organismo vivente. Sono tutte misure finite, poiché il termine della relazione è finito.

Ma esiste anche una quarta relazione: Tommaso Moro può vedere se stesso in relazione con una giustizia, con una legge eterna «summa ratio», come scrive Agostino, «cui semper obtemperandum est». E qui, la misura è qualitativamente diversa, è un transitus in aliud genus: è una misura eterna.

T. Moro, in prigione, nel l’apportarsi a se stesso e volendo essere se stesso, doveva scegliere se fondarsi, trasparente, nella potenza che lo aveva posto oppure se fondarsi su qualcosa d’altro. Siamo ritornati al punto finale del primo punto della mia riflessione. Nel momento in cui l’uomo si sveglia alla vita dello spirito, egli è presenza di se stesso a se stesso (la coscienza è semplicemente auto-coscienza) oppure è presenza di se stesso a se stesso nella presenza del soggetto all’essere e dell’essere al soggetto (la coscienza è coscienza dell’essere: san Tommaso)? Nel momento in cui deve divenire se stesso, deve cioè agire liberamente, l’uomo — in quanto semplice rapporto di se stesso a se stesso — deve volere essere se stesso, rimanendo nella misura di se stesso, oppure deve volere essere se stesso, ponendosi in una relazione (di obbedienza) con una Misura infinita?

La mia ipotesi, finalmente, è la seguente: una parte della teologia morale cattolica sostiene tesi che coerentemente — per necessità logica — implicano che la verità dell’uomo, in quanto soggetto libero, sia nella prima possibilità della libertà.

Benché sia superfluo aggiungerlo, tuttavia, a scanso di equivoco, è necessario dire che non si tratta di affermazioni riguardanti le intenzioni o attitudini di chicchessia: la discussione teologica si fa su idee, tesi, argomenti e non sulle intenzioni ed attitudini.

 

2, 2. (Verifica dell’ipotesi). Mi sembra che il dibattito etico, teologico, ecclesiologico, scoppiato soprattutto in Europa occidentale in questi mesi, sia una conferma di questa ipotesi. Il dibattito, infatti, va molto oltre le questioni specifiche. Due contrapposizioni sono emerse.

La prima: l’obbligatorietà della norma morale in un caso concreto non dipende in ultima istanza da ciò che mediante la norma l’uomo conosce, ma dal potere normativo, ad essa (alla norma) superiore, della coscienza morale. In termini più tecnici e scolastici: la coscienza può sempre stabilire un’epikeia (= deroga al precetto stabilito) a ogni norma morale (intramondana: innerwelticher).

In altre parole: l’uomo è obbligato, in ultima istanza, non dalla verità sul bene, conosciuta attraverso la norma, ma dalla sua coscienza.

La seconda: la «right decision making procedure» non può essere altro che un confronto fra i vari beni umani che sono in questione, in ordine a stabilire quali di essi sia preponderante (metodo proporzionalista). Cioè: la coscienza, in ordine ad una decisione moralmente giusta, non deve riferirsi alla norma morale come al criterio decisivo, ma al confronto dei vari beni in questione (cosi i vari proporzionalisti).

È necessario fare attenzione al legame profondo fra le due affermazioni. La coscienza morale del singolo, nel giudicare se la persona è o non è obbligata dalla norma morale, non procede chiudendosi completamente in se stessa. Essa deve compiere un bilanciamento dei vari beni in questione, per controllare quale è il bene prevalente. E questo è il punto centrale sul quale dobbiamo fermare la nostra attenzione.

Partiamo da una verità della nostra fede: il male del quale non è possibile pensare uno più grande, è il male morale, cioè il peccato. Non una volta, ma mille volte la morte piuttosto che un solo peccato veniale. E su questo, tutti siamo d’accordo. Ma, quale è il criterio ultimo per sapere se un atto è o non è moralmente cattivo? È il riferimento dell’atto in questione al risultato intra-mondano dell’atto stesso. Cioè: la «rightness/wrongness» di un atto è determinato dal fatto che l’atto, confrontando i vari beni in questione, totalizza un bene/male maggiore/minore, nel mondo.

Molti erano i beni/mali in questione, quando T. Moro dovette prendere la sua decisione: il bene/male della sua famiglia; il bene/male della pace civile nel Regno inglese; il bene/male della sua persona; il bene/male della Chiesa cattolica in Inghilterra. Quale «right decision making procedure» doveva adottare? fare un bilanciamento dei vari beni in questione, per verificare quale era precisamente quello preponderante. Non semplicemente riferirsi alla legge evangelica: non dare mai a Cesare quello che è di Dio! Il peccato non sarebbe consistito eventualmente nel dare a Cesare quello che è di Dio: ma nel fatto che non si sceglierebbe il bene preponderante e in questa scelta, a causa di questa scelta, si è dato a Cesare quello che è di Dio.

È difficile avere una verifica più chiara della nostra ipotesi, come dimostrerò subito, per due ragioni soprattutto.

La prima. Si ha qui uno spostamento dell’asse portante dell’esistenza umana, cioè dell’esercizio della libertà creata. Il soggetto pone se stesso in riferimento alla storia, la quale diventa la misura decisiva del suo riferimento al Creatore che l’ha posto. Esiste cioè un modo di essere nel tempo che decide della nostra eternità, diverso dal nostro modo di essere in rapporto colla Santità di Dio quale si svela nella legge morale. Non è questo rapporto dell’uomo colla Potenza che lo crea, mediato dalla legge morale, il rapporto che decide del valore del rapporto dell’uomo coi beni creati. Al contrario. Il valore del rapporto dell’uomo col mondo (massimalizzare i beni creati - minimizzare i mali creati) decide del valore dell’uomo colla Potenza che lo crea. Nel rapportarsi a se stesso e volendo essere se stesso, l’io si fonda su se stesso, in quanto non ha altra misura decisiva che il suo essere nel mondo.

La seconda è ancora più profonda e meriterebbe più lunga trattazione. Gli storici più penetranti del pensiero moderno sono concordi nel dire «che è con la critica kantiana che il pensiero moderno ha preso il suo orientamento definitivo, grazie al quale il problema della verità dell’essere è riportato completamente all’uomo» (C. Fabro). Non vi è dubbio che l’ambito della nostra vita è circoscritto dallo spazio e dal tempo: la verità (anche la verità sul bene e sul male) quindi deve sempre determinarsi con riferimento allo spazio e al tempo. Ogni tentativo di uscirne è paragonabile... a chi è tanto grasso che per abbottonarsi i pantaloni deve fare un passo avanti. Anche l’etica di molti teologi sembra avere imboccato questa via, limitandosi all’affermazione di una libertà-Opzione trascendentale-fondamentale che aggancia l’uomo a Dio, senza potere inserire questo rapporto dentro il tempo e lo spazio, ambito della nostra vita quotidiana.

 

3. PERCHÉ QUESTO NUMERO DI «ANTHROPOTES»?

 

È difficile, molto difficile a volte, capirsi. Ho voluto solo chiarire il punto di vista da cui si muove la nostra riflessione. Essa prende molto seriamente. il problema posto dalla modernità: il problema del primato (assoluto) della libertà umana.

Come è accaduto che la modernità stia fallendo, proprio nel suo progetto fondamentale: restituire alla libertà il suo proprio peso specifico? È avvenuto casualmente questo fallimento? Si tratta di correggere semplicemente il tiro o al contrario si tratta di cambiare rotta?

Sono queste le domande che poniamo ai nostri colleghi per verificare alcune tesi: si tratta di cambiare rotta e non di prendere come punti di partenza il principio di immanenza sperando di correggerlo durante il cammino; la negazione di norme morali specifiche ineccepibili e l’adozione della «right decision making proportionalist procedure» portano nello stesso vicolo cieco cui è pervenuta la modernità, poiché quella negazione e questa adozione sono coerenti con la modernità medesima.

Perché abbiamo fatto tutto questo? Perché affermiamo un primato esistenziale della libertà, che può essere salvaguardato solo negando il primato formale della libertà medesima, mentre l’affermazione del primato formale per salvare il primato esistenziale finisce coll’evacuare ambedue i primati.

È ora possibile comprendere la logica interna di questo numero di «Anthropotes». Esso percorre tre tracciati etici: coscienza, legge, peccato, ma riconducendoli tutti e tre alla verità della creazione. È questa verità che sta al centro della riflessione: metafisica, etica e religione sono come tre superfici di una piramide. Sono distinte, ma si concentrano in un solo punto, in un solo vertice: Dio creatore, punto d’arrivo di ogni metafisica, spiegazione ultima dell’esperienza etica e cuore di ogni vera religione.

L’esposizione dei fondamenti dell’antropologia nel magistero di Giovanni Paolo II termina la nostra riflessione: una verifica richiesta al Magistero per avere una risposta ai nostri problemi. Infatti, «da chi andremo, Signore? Tu solo hai parole di vita eterna».