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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


L’aborto come problema morale
Cagliari, 27 ottobre 1991


Vorrei iniziare la mia riflessione definendo con la massima precisione possibile la prospettiva morale, la dimensione morale del problema dell’aborto. Di che cosa esattamente parliamo, quando si parla dell’aborto come problema morale?

La risposta in realtà non è così semplice, come potrebbe sembrare a prima vista. Essa, infatti, presupporrebbe la definizione di che cosa è un “problema morale”, di che cosa si intende, in generale, per “prospettiva morale”. Non abbiamo il tempo e non è neppure necessario affrontare una tale problematica. Limitiamoci a ciò che può servirci per introdurci nel tema sul quale vogliamo riflettere.

 

1. Una questione introduttiva: che cosa è un “problema morale”

 

Comunemente oggi si fa coincidere il problema morale con la seguente serie articolata di domande:

- a quali condizioni (o in virtù di quali proprietà) un’azione è permessa, lecita, retta, giusta, doverosa?

- (poiché nessun uomo vive in una casa senza porte e senza finestre e, quindi, col suo agire costituisce una serie di rapporti sociali) a quali condizioni (o in virtù di quali proprietà) una società può essere dichiarata a ragione giusta?

- a quali condizioni una persona può essere ritenuta responsabile delle proprie azioni quindi lodevole/biasimevole per come ha agito?

- a quali condizioni (o in virtù di quali proprietà) una scelta e decisione è presa razionalmente: sia una scelta di un singolo sia una scelta di una comunità umana?

Tralasciando le ultime due domande, potremmo dire che nella cultura contemporanea generalmente parlando, il problema morale consiste (a) nella determinazione delle norme o criteri in base ai quali si distingue un’azione ingiusta da un’azione giusta e (b) come motivare tali norme o criteri e il dovere di obbedire alle stesse.

In realtà, il problema morale non è sempre stato pensato in questi termini. E per renderci conto di ciò, è assai istruttivo rifarci a una pagina del Vangelo: l’incontro di Gesù col giovane ricco. Il giovane non chiede semplicemente: “che cosa devo fare” , ma aggiunge “per avere la vita eterna”. La domanda etica, il problema morale non è, non si riduce alla domanda su quali azioni devo/non devo fare. Questa domanda ha senso se, in quanto essa si inserisce in un movimento più profondo della persona, in un orientamento cioè della persona verso un fine ultimo, in un progetto esistenziale che si va edificando. Il giovane non vuole, prima di tutto, sapere che cosa deve/non deve fare: vuole sapere come raggiungere il possesso di una vita eterna (e non più mortale). E poiché egli intuisce che dovrà percorrere un cammino per entrare in questo possesso, cioè agire in un modo piuttosto che un altro, chiede che cosa deve fare.

Se confrontiamo attentamente i due modi di impostare il problema morale, possiamo dire che buona parte della riflessione morale contemporanea viene elaborata dal punto di vista dell’osservazione esterna e del giudice delle azioni altrui: è una morale alla terza persona. L’impostazione è la seguente: Tizio ha compiuto/vuole compiere la tale azione: essa è lecita o illecita? La domanda morale può essere impostata (come fece il giovane del Vangelo) alla prima persona: quale è il senso ultimo della vita e quindi che cosa è giusto che io faccia per realizzarlo?

Una domanda, a questo punto, ci si impone, inevitabile e troppo importante per essere del tutto tralasciata: per quale ragione la domanda sul senso è stata espulsa dal dibattito etico contemporaneo, riducendolo ad essere solo dibattito sulle regole da adottare nella nostra convivenza sociale? Voi capite che non è facile rispondere a questa domanda. Mi limito solo ad una riflessione.

La riflessione ultima, o comunque la non meno importante, di questa espulsione o censura è che alla domanda sul senso ultimo della vita non può essere data risposta che possa essere qualificata come vera o falsa. La risposta alla domanda sul senso può essere solo una decisione: il senso della vita è questo perché io decido che sia questo. E ovviamente le decisioni non sono capaci di essere portate al tribunale della ragione per dire se è vera o falsa: ciascuno decide per suo conto quale orientamento ultimo dare alla propria vita. Si parla, in questo senso, di un’etica senza verità.

Da tutta questa situazione è conseguito un risultato sul quale è necessario portare la nostra attenzione. «Il risultato è che molti non si sentono minimamente toccati da questi discorsi sulla liceità o illiceità delle azioni, perché, anche se ne intendono il contenuto e le argomentazioni, non ne colgono il senso. Insomma, chi ha uno stile di vita in cui le “considerazioni sulla liceità” non sono recepibili, non rinviene, nelle discussioni etiche attuali, una motivazione valida per cambiare genere di vita, giacché il problema etico fondamentale del come vivere è semplicemente dimenticato» (A. Rodriguez Luno, Un’etica senza Dio? in Studi Cattolici 350, aprile 1990, pag. 209-210).

Penso che ora siamo in possesso di tutti gli elementi necessari e sufficienti per rispondere alla nostra domanda da cui siamo partiti: che cosa significa “aborto come problema morale”? cioè: in che cosa consiste precisamente, come si definisce la problematica morale dell’aborto?

Se restiamo chiusi dentro il dibattito morale contemporaneo, la risposta è la seguente. La problematica morale dell’aborto consiste:

(a) nell’individuare a quali condizioni l’aborto è permesso proibito, lecito o illecito, retto o ingiusto;

(b) nell’individuare a quali condizioni la regolamentazione pubblica (civile) dell’aborto può essere ritenuta giusta 0 ingiusta;

(c) nell’individuare a quali condizioni le persone che entrano nel compimento di questo atto (l’aborto) possono essere ritenute responsabili di ciò che hanno fatto;

(d) nell’individuare le condizioni secondo le quali la decisione di abortire/di non abortire può essere presa razionalmente.

Sempre rimanendo chiusi dentro questa prospettiva, la soluzione a questa problematica, per ciò che attiene ad (a), che è la dimensione più importante del problema, può andare dalla risposta “a nessuna condizione...” alla risposta “a qualsiasi condizione…”.

Se, al contrario, non accettiamo di rinchiuderci dentro questa impostazione, la problematica morale si articola nel modo seguente:

(a) la giustificazione/la non-giustificazione dell’aborto con quale progetto di vita risulta essere coerente?

(b) la giustificazione/la non-giustificazione dell’aborto con quale progetto di società risulta essere coerente?

Da quale punto di vista, allora, il problema dell’aborto deve essere affrontato dal punto di vista della terza persona (prima impostazione) o dal punto di vista della prima persona (seconda impostazione)?

Esistono varie ragioni per le quali la prima impostazione deve essere abbandonata, per accogliere la seconda. Mi accontento di accennare solo ad alcune.

La prima. La prima impostazione, anche quando giungesse nella discussione accettata a concludere che a nessuna condizione l’aborto è permesso, lecito, retto, è pedagogicamente sterile. Per sterilità pedagogica intendo l’incapacità di questa riflessione a educare veramente le persone. E il motivo è già stato detto. Una riflessione di questo tipo passa accanto alla radice ultima del nostro operare: se essa è corrotta, non sarà la dimostrazione sulla giustificazione morale dell’atto in questione a sanarla. Essa continuerà a produrre i suoi frutti di morte.

La seconda e più importante. La prima impostazione finisce necessariamente (ed è di fatto finita) nella mera affermazione di un principio procedurale (le famose “regole del gioco”, di cui si parla spesso): è lecito ciò che si arriva a giudicare come tale, attraverso il consenso di chi liberamente ha partecipato alla discussione. E chi non partecipa, perché ne è incapace? Alla fine questa impostazione risulta incapace di offrire giustificazioni ultimamente accettate sul perché i membri socialmente deboli della società dovrebbero essere riconosciuti soggetti di diritti come tutti gli altri.

 

Ho concluso il primo punto, l’introduzione. Il problema morale dell’aborto, dunque, è dunque articolabile nelle seguenti domande:

(1) quale è la visione - il progetto dell’uomo coerente con la giustificazione, quale con la non-giustificazione dell’aborto?

(2) quale è la visione - il progetto di società coerente con la giustificazione, quale con la non-giustificazione dell’aborto?

Poiché la scelta di questa impostazione ha anche, come abbiamo visto, una ragione profondamente pedagogica, è necessario porci anche la seguente terza domanda:

(3) come educare la persona a quella visione-progetto di uomo e di società che renda l’aborto non solo impraticabile, ma impensabile?

A ciascuna di queste tre domande dedicherò rispettivamente i tre punti seguenti della mia riflessione.

 

2. Visione-progetto dell’uomo e aborto

 

Devo fare subito una precisazione. Molti di voi, lavorando nei CAV conoscono le ragioni che spingono (o possono spingere) una donna ad abortire. Queste conoscenze possono essere raccolte, rielaborate e dare così origine a una psicologia e/o sociologia della scelta abortiva, anche con quantificazioni statistiche. Orbene, vorrei che fosse chiaro fin dal principio che la mia riflessione è assolutamente diversa; che si muove in una prospettiva completamente distinta.

La mia domanda è domanda morale (nel senso già spiegato): quale progetto di vita produce la giustificazione dell’aborto - quale progetto di vita non produce la giustificazione dell’aborto?

Dunque, la mia riflessione che ora vado conducendo non è una ricerca delle motivazioni che spingono sempre questa donna concreta a fare l’aborto. Una donna può fare l’aborto, pur giudicandolo interiormente un atto ingiusto. La mia riflessione vuole capire come, perché giudicare l’aborto giusto sia possibile/come, perché sia impossibile. Certo, a qualcuno potrebbe venire il dubbio sull’utilità di una tale riflessione. Per il momento non rispondo: chiedo solo a questi di avere qualche momento di pazienza.

L’aborto è purtroppo praticato. Perché non sia più praticato, deve essere reso impraticabile. Perché sia reso impraticabile, è necessario in primo luogo che sia ingiustificabile (impensabile cioè dalla nostra ragione pratica). La mia domanda è (ed è la domanda morale): quando l’aborto è giustificabile/non-giustificabile? L’altra necessaria condizione perché l’aborto sia impraticabile è che la volontà, la libertà sia nell’obbedienza alla retta ragione che lo giudica ingiustificabile: e questo è il problema dell’educazione morale, sulla quale rifletterò nel punto tre.

Quando l’aborto è giustificabile? Se osserviamo attentamente quanto è accaduto durante questi anni, vediamo che due sono le giustificazioni dell’aborto, considerato come atto della persona (non ancora nel suo contesto sociale: vedi poi il n. 3): l’aborto è moralmente “indifferente” e pertanto abortire o non abortire è diritto esclusivo, insindacabile della donna; l’aborto è un “male” (non è sempre chiaro se in senso morale e/o psicologico e/o fisico), ma talvolta è un male necessario.

Ancora, possiamo notare che la seconda giustificazione è andata di fatto (e spesso anche teoreticamente) confluendo nella prima: concretamente le indicazioni di necessità sono sempre così indeterminate che abortir è sempre possibile. Ciò è accaduto non a caso, ma almeno per due ragioni già presenti nella seconda posizione. In primo luogo, perché la determinazione della necessarietà del ricorso all’aborto è sempre, per definizione, circostanziata, condizionata dalle circostanze, che per loro natura stessa, sono sempre mutevoli: donde è giocoforza che la loro “indicazione” sia la più generica possibile. In secondo luogo, la seconda posizione rifluisce nella prima perché giustificando l’aborto come male necessario, finisce col pensare che, alla fine, l’aborto non è giusto/ingiusto in sé e per sé, ma in dipendenza dalla situazione. Si combinino ora queste due ragioni implicate nella seconda posizione: l’aborto è giusto/ingiusto in ragione delle circostanze e l’indicazione delle circostanze deve essere assai generica. Il risultato è: il giudizio sulla giustizia o non dell’aborto è un giudizio insindacabile della donna. E questa è esattamente ciò che afferma la prima posizione. Possiamo allora dire obiettivamente: esiste in realtà una sola giustificazione dell’aborto, quella che afferma essere l’atto abortivo un atto indifferente e pertanto essere diritto esclusivo e insindacabile della donna il compierlo o non.

Dobbiamo ora compiere un passo ulteriore nella nostra riflessione, chiedendoci: come è accaduto, meglio come è potuto accadere che questa giustificazione fosse pensabile, abbia potuto entrare nella nostra cultura?

come cioè e perché l’aborto è divenuto giustificabile?

Partiamo dalla constatazione di un fatto: la brutalità logica di questa giustificazione. Per brutalità logica intendo il fatto che si rinuncia semplicemente ad argomentare, dando per dimostrato ciò che precisamente deve essere dimostrato. Gli esempi potrebbero essere molti. Uno basti: si ripete ossessivamente che la donna ha il diritto di disporre del proprio corpo, senza neppure accettare di discutere ciò che precisamente è in discussione, cioè se il concepito sia corpo della donna.

Questo rifiuto della logica dona molta materia di riflessione e ci avvia alla risposta della nostra domanda. Esso (rifiuto), infatti, è sempre il segno di un evento spirituale assai più profondo, accaduto nello spirito. Quale?

È nella natura di una sana ragione quella di essere completamente disponibile alla realtà: di lasciare che la realtà sia ciò che è. Lo spirito di chi ama veramente la verità desidera semplicemente di essere nella verità: di conformare i propri desideri alla verità e non di conformare la verità ai propri desideri. È per questo che una persona così scopre una verità prima sconosciuta, “non corregge da esaminatore, ma ne gode da scopritore” (Sant’Agostino, De libero arbitrio 2, 12, 34).

Questa attitudine tuttavia implica anche e soprattutto quella umiltà interiore, cioè di avere una visione di sé vera. In particolare di non collocarci sopra la verità, ma al di sotto. Di non ritenere che sia vero ciò e solo ciò che decidiamo che sia vero. Di non attribuire alla propria ragione un potere creativo della verità. Siamo al “nodo” della nostra questione.

Il problema, stretto nei suoi termini essenziali è il seguente: l’essere le cose ciò che sono da chi/da che cosa dipende? Per es.: l’essere il concepito parte del corpo della donna oppure un individuo umano da chi dipende? quale è la sorgente ultima della verità delle cose? Ora la modernità ha risposto nel modo seguente: dipende dalla ragione e dalla volontà umana; la sorgente ultima è l’uomo, per cui se si prescinde dall’uomo non ha più senso parlare di verità.

Prescindiamo, perché non è di decisiva importanza, se l’uomo di cui si parla sia un singolo o una comunità.

In questa ipotesi richiamarsi alla realtà (per es. alla realtà del concepito) non può più sortire alcun effetto; poiché precisamente la realtà è ciò che decido che sia: si può solo al massimo cercare di raggiungere un accordo fra le varie decisioni, di negoziare i contrasti decisionali. Ma diventa impossibile avere un referente che non sia il soggetto stesso che pensa. In questo contesto anche l’aborto diventa sempre e comunque giustificabile poiché semplicemente è la volontà stessa dell’uomo che decide ciò che è giusto. Poiché, più precisamente e più profondamente, non esiste il giusto o l’ingiusto, ma solo il tener per giusto o ingiusto.

Molte sono le cause di questa condizione spirituale in cui versa l’uomo moderno e contemporaneo. Mi limito a richiamare la più profonda: l’esclusione del rapporto con Dio creatore come rapporto ultimamente esplicativo della realtà e della verità delle cose. Si noti bene che non è precisamente la negazione dell’esistenza di Dio: è l’affermazione della non significatività del suo esserci o non esserci. Insomma la posizione è esprimibile in questi termini: che Dio ci sia o non ci sia non è di interesse ultimo, poiché che egli ci sia o non ci sia non cambia niente nella nostra vita. La realtà è esclusivamente affidata all’uomo.

E non è a caso che proprio la difesa dell’aborto sia diventata uno dei terreni sui quali non si può rimanere sconfitti, pensando che vive spiritualmente in questa cultura. Infatti il concepito non ha alcuna possibilità e capacità di decidere sul proprio essere: da questo “gioco delle decisioni interpretative” egli rimane inesorabilmente fuori. Questa sua situazione è tale, allora, per cui se si concede che il concepito è ciò che è (un individuo umano) e che pertanto che l’aborto è sempre e comunque un atto ingiusto, tutta quella visione è semplicemente messa in discussione, nella sua radice. Si tratta dunque di uno scontro decisivo.

 

3. Visione-progetto della società e aborto

 

Riflettiamo ora sull’aborto in quanto problema che in qualche modo (vedremo quale) riguarda l’assetto morale della società umana. Procederemo in modo analogo a come ho proceduto nel punto precedente.

L’aborto è stato introdotto nella legislazione civile del nostro tempo con una duplice (supposta) giustificazione. La prima è la seguente: se l’aborto appartiene a quella classe di atti umani che possiamo qualificare come “indifferenti“, e pertanto il diritto di compierlo è un diritto esclusivo ed insindacabile della donna, sarà giusta quella società nella quale l’esercizio di questo diritto sarà pienamente assicurato. È noto che l’aborto è stato introdotto negli Stati Uniti con questa giustificazione.

La seconda giustificazione e la seguente: poiché l’aborto è un male, in determinate circostanze però necessario, sarà giusta quella società nella quale queste circostanze vengono riconosciute e determinate. Questa seconda giustificazione è costretta ad ammettere un certo controllo di verifica sulla esistenza o non delle circostanze e una sia pure minima sanzione per chi compie l’aborto al di fuori di esse.

Ma anche in questo caso, abbiamo potuto constatare che la seconda giustificazione ha prodotto una normativa giuridica cosi elastica che sul piano operativo non si distingue dalla prima. Perché è accaduto questo? perché questa normativa è funzionale a un principio morale-giuridico: la decisione ultima e insindacabile di abortire è un diritto della donna. La legge può solo prescrivere procedure per il suo esercizio, ma non impedirlo. Questa funzionalizzazione, strumentalizzazione della norma giuridica è spiegabile dal momento che, come abbiamo detto, la visione dell’uomo che sta alla base delle due giustificazioni è la stessa. Al punto che viene sovente da pensare che la seconda sia solo un espediente tattico, una sorta di cavallo di Troia per introdurre semplicemente quella visione meno traumaticamente.

E ora, in questo terzo momento della nostra riflessione, dobbiamo vedere entro quale visione di società, di giustizia, l’atto di abortire è giustificabile. La domanda cioè alla quale cercherò di rispondere potrebbe essere formulata in questi termini: quale visione del sociale umano e della giustizia possono, anzi alla fine devono logicamente giustificare l’aborto?

Che poi questa giustificazione si traduca in una forma o l’altra, ho già detto che è praticamente lo stesso.

Già Platone aveva visto chiaramente che esistono due modi fondamentali di concepire la giustizia e di conseguenza l’assetto giuridico-istituzionale della società umana. E lo sviluppo successivo del pensiero occidentale ne ha individuato altri al di fuori di quelli. Ciò che è accaduto è che essi sono stati pensati in maniera più o meno sofisticata.

La prima visione della giustizia potrebbe essere descritta in questi semplici termini: la giustizia è la convergenza di interessi opposti. E pertanto la socialità umana dovrà realizzarsi, assettarsi giuridicamente-istituzionalmente in modo tale che siano assicurate regole procedurali che consentano ad ogni interesse opposto di porsi e di cercare una convergenza. Riflettiamo brevemente, ma seriamente su questa definizione di giustizia e di società giusta.

Si noti fin dall’inizio, poiché questo è di decisiva importanza teoretica, che non esiste e non può esistere una “convergenza” diciamo “ideale”, dal momento che gli “interessi” dell’uomo mutano continuamente e non si può mai ipotizzare in che cosa e come questi interessi si oppongano. Detto in altro modo. È ovvio che gli interessi dei singoli non possono essere sottoposti a un giudizio razionale che ne affermi la verità o la falsità. Essi sfuggono, per la loro natura stessa, alla possibilità di questo giudizio: sono dei fatti e i fatti sono semplicemente constatabili. Chiedersi: è giusto avere questo desiderio, questo interesse? è giusto volerlo accontentare? è semplicemente privo di senso. Ecco perché non può mai esistere una “convergenza ideale”.

Tuttavia ci sono almeno due ragioni che costringono ogni individuo a tener conto degli altri: lo scontro fra interessi e la limitazione delle risorse a disposizione. Ed è per questo che si ha la necessità di trovare un punto di convergenza: questa ricerca è la ricerca della giustizia. Ed è a questo punto che vediamo in azione un altro principio fondamentale in questa visione della giustizia.

Poiché non esiste possibilità di dare un giudizio di valore sui vari interessi opposti e quindi non esiste la possibilità di istituire un’obiettiva gerarchia di valori fra essi, l’unica condizione necessaria e sufficiente per il raggiungimento di una convergenza è che ciascuno possa affermare il proprio interesse, nel dialogo con l’altro, fino a che si arrivi a un consenso. Si dovranno quindi creare le condizioni necessarie e sufficienti perché sia possibile questa comunicazione. La giustizia è dunque esigenza procedurale, non sostanziale: qualora questa esigenza sia rispettata, la convergenza così raggiunta attraverso il consenso sarà senz’altro da ritenersi giusta.

Nel contesto di questa visione della giustizia, l’aborto, cioè la soppressione (l’uccisione) di un individuo umano, può essere pienamente — cioè senza contraddire quell’impostazione — giustificata. Possibilità che si dimostra almeno da due punti d vista. Il primo è che quando l’interesse del concepito, cioè di essere lasciato vivere, si scontra con l’interesse della madre o di altri, questo scontro non potrà più essere risolto. richiamandosi ad un diritto alla vita fondato semplicemente sul puro fatto di essere uomo: questa fondazione è esclusa precisamente da questa visione della giustizia. Anche in questo caso si deve ricorrere al principio della procedura comunicativa. Ma da questa il concepito resta escluso, ovviamente. Quindi, la sua vita è lasciata al beneplacito della società. Il secondo punto di vista che dimostra la possibilità di giustificare l’aborto dentro questa visione è che in questa visione risulta l’impossibilità di fondare l’esistenza di diritti umani fondamentali e universali che precedano il loro riconoscimento sociale.

La seconda visione della giustizia potrebbe essere descritta in questi semplici termini: la giustizia consiste nel dare a ciascuno ciò che è dovuto in ragione del suo essere stesso.

Notiamo subito il punto essenziale nel quale questa definizione di giustizia differisce da quella precedente. L’uomo non è solo soggetto che desidera il suo proprio bene: è la concezione materialista della persona umana. Egli è ordinato a un bene che corrisponde al suo essere-persona: che gli è dovuto come persona e che pertanto è dovuto a ogni persona umana. Esistono dunque diritti (cioè esigenze incondizionate di beni umani) che sono semplicemente fondati sulla persona, che scaturiscono dalla persona stessa.

La società è giusta tanto-quanto a ciascuna persona è assicurata la possibilità di raggiungere quei beni umani cui la persona è ordinata.

Nel contesto di questa visione, l’aborto è ingiustificabile. Per due semplici ragioni fra loro connesse. La prima è che in questa visione il diritto alla vita è il diritto primo nel senso che esso rende possibile ogni altro. La seconda è che in questa visione l’unico titolo necessario e sufficiente per possedere questo diritto è l’essere un individuo umano: nulla di più. Chiaramente, allora, questa visione non potrà mai, in nessun caso e per nessuna ragione, giustificare l’aborto. Esso deve sempre essere considerato un atto ingiusto, anche se ovviamente le sanzioni possono variare.

Ci siamo chiesti: quale visione del sociale umano e della giustizia possono giustificare l’aborto? abbiamo risposto: quella visione secondo la quale la giustizia è la convergenza di interessi opposti, raggiunta attraverso la libera negoziazione delle parti in causa.

Ma non possiamo accontentarci di questa risposta. Dobbiamo chiederci: in quale visione dell’uomo questa definizione di giustizia si radica e si fonda? Brevemente, mi sembra di poter rispondere: è una visione sensista, individualista, immanentista. È la stessa visione che giustifica l’aborto sul piano personale.

 

4. Rendere ingiustificabile l’aborto

 

Sono così giunto all’ultimo e più importante momento della mia riflessione.

La riflessione precedente ci ha condotto al seguente risultato. L’aborto nella società contemporanea non è solo praticato: in questo la nostra società non si differenzia da quelle precedenti. Esso è anche giustificato. Ed è stato giustificato perché si è imposta una visione dell’uomo, della giustizia e della società entro la quale la giustificazione dell’aborto non è solo uno spiacevole incidente, ma si inscrive come coerente e logicamente necessaria conseguenza di quella visione stessa. Anzi oso dire di più: la giustificazione dell’aborto è un test di primaria importanza per mostrare l’anti-umanesimo latente di quella visione. Così che la vera prova se quella visione è stata o non è stata abbandonata è se è stata o non abbandonata la giustificazione dell’aborto.

È questo il risultato, dunque, a cui siamo arrivati nella riflessione precedente. Allora il problema morale dell’aborto può finalmente formularsi in tutta la sua chiarezza: come dimostrare l’ingiustificabilità dell’aborto?

Da ciò che si è detto finora, la risposta sembra conseguire abbastanza facilmente: se l’aborto è giustificabile solo all’interno di quella visione, si mostri la falsità di questa (visione) e l’aborto diventa ingiustificabile. E la risposta è perfettamente vera. Tuttavia, è precisamente a risposta data che cominciano i problemi, tutti riconducibili a una sola domanda: come mostrare la falsità di quella visione? È questo il punto centrale di tutta la problematica. Vorrei, allora, umilmente presentarvi la mia risposta a questa domanda. Ma poiché questa risposta si basa su una convinzione di carattere molto generale, mi vedo costretto a presentarvi, sia pure in maniera molto sommaria, questa convinzione e poi passare a dirvi la mia risposta.

La mia convinzione riguarda la comunicazione della verità morale. Una breve spiegazione dei termini, prima. La verità morale è la verità che riguarda il bene della persona umana, quella che si conosce quando si conosce il bene della persona. È una verità, quindi, quella morale che per sua stessa natura esige di essere non solo conosciuta, ma anche fatta: ciò che è bene deve essere compiuto dalla nostra volontà e non solo conosciuto dalla nostra ragione.

Per “comunicazione” intendo quel processo mediante il quale una persona trasmette a un’altra una conoscenza che essa ignora. Dunque, comunicazione della verità morale è quel processo mediante il quale una persona trasmette ad un’altra una conoscenza che essa ignora. Dunque, comunicazione della verità morale è quel processo mediante il quale una persona trasmette a un’altra la conoscenza di ciò che è il bene della persona umana: conoscenza che, si suppone, è ignorata dalla persona.

Spiegati i termini, chiediamoci: come accade questa comunicazione? Per rispondere, è necessario riflettere un momento su una singolare proprietà della verità morale. Essa (la verità morale) è conosciuta interamente solo quando è vissuta, cioè realizzata dalla libertà. Un poco come uno spartito musicale: so veramente che cosa vi sta scritto quando è eseguito. Esiste certo una conoscenza pura della verità morale; essa, tuttavia, non raggiunge interamente la pienezza di conoscenza del bene. Da questa proprietà della verità morale deriva che la sua comunicazione non può ridursi all’insegnamento delle procedure razionali attraverso le quali si raggiunge la conoscenza della verità sul bene. Anche quando questo apprendimento fosse raggiunto, la persona può rimanere del tutto indifferente verso il bene così conosciuto. Che cosa allora è necessario? È necessario che in quella conoscenza si mostri la risposta reale alla domanda di bene (di beatitudine), di finalità, che sta inscritta nella persona umana concreta. Come è possibile questo? È la difficoltà centrale di ogni educazione morale. Detto in altre parole: il bene è accolto quando è amato. Ma non ci si innamora di una norma morale, di una verità: ci si affeziona alla persona. E allora non vedo altra possibilità perché accada una comunicazione reale della verità sul bene non solo ideale, se non mostrare questo bene nella persona concreta. È questa la mia convinzione sulla comunicazione della verità morale.

E ora posso tentare di dare una risposta alla domanda che abbiamo posto: come mostrare la falsità di quella visione dell’uomo e della società nella quale la giustificazione dell’aborto è possibile?

Si tratta di una visione che conduce a una verità morale (si fa per dire), a una definizione di bene della persona e di giustizia nella società.

Certamente, si pone la necessità della costruzione di un pensiero che dimostri la falsità di quella visione e l’impegno quotidiano, paziente di mutare, sia pure nella piccola misura del possibile, quell’ordinamento giuridico-istituzionale che è generato da quella visione. Tuttavia, ed è questo il punto sul quale vorrei attirare la vostra attenzione, ormai avviandomi alla conclusione, se ci limitiamo a questo, credo che l’aborto continui ad essere ritenuto giustificabile.

La necessità prioritaria è di mostrare che nessuno ha il diritto di dire di fronte a nessuno: “è male che tu ci sia!”, nell’accoglienza pura e semplice di ogni vita.

Non è questa l’attività di ogni CAV [Centro di Aiuto alla Vita]? Voi ponete le basi perché possa rigenerarsi nell’uomo di oggi la possibilità dell’azione di grazia per ogni vita che sboccia nell’universo dell’essere.

«Più importante di ogni documento sarà un annuncio coerente e concreto del Vangelo della vita… per ricostruire l’evidenza e la gioia della fede e per offrire ai credenti le ragioni della nostra speranza, che possono convincere anche i non-credenti» (J. Ratzinger, Relazione del concistoro dei Cardinali sulle minacce alla vita).