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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Seminario di Ars /2
Autonomia della coscienza, legge morale e Magistero della Chiesa
Ars, settembre 1992


Prima di entrare direttamente nel problema, è necessario che ci poniamo nella giusta posizione, sul terreno adatto a far nascere una vera riflessione teologica. Quale è questa posizione giusta? questo terreno adatto? Rispondo subito: è la soggettività cristiana. Per “soggettività cristiana” intendo semplicemente la persona in quanto chiamata a seguire Cristo mediante le sue scelte quotidiane. Dunque: la persona che sceglie di seguire Cristo, nella certezza che questa è la via che porta alla vita eterna, oggetto supremo del suo desiderio. Solo dopo aver riflettuto seriamente su questa realtà possiamo affrontare il problema in modo corretto.

In questo modo, abbiamo già individuato le tappe del nostro cammino. Il primo punto della nostra riflessione sarà, dunque, dedicato alla riflessione sulla soggettività cristiana; il secondo punto sarà dedicato a chiarire i due concetti di autonomia della coscienza e legge morale; il terzo alla considerazione dei loro rapporti reciproci.

 

1. La soggettività cristiana

 

L’importanza di questa riflessione è duplice. Con questa considerazione vogliamo uscire dall’impostazione etica di cui ho parlato nella mia prima conferenza, abbandonare ogni forma di legalismo. Ma, dall’altra parte, solo immergendo profondamente noi stessi nel vissuto della soggettività cristiana possiamo sperare di prendere la strada giusta per risolvere il problema che ci siamo posti.

Partiamo dalla descrizione di un’esperienza molto semplice. A tutti noi capita... di agire contro coscienza, perché a tutti noi capita... di peccare. Cioè: ciascuno di noi sa per esperienza che la nostra libertà puo’ scegliere contro il dettame della coscienza. La coscienza dice: “questo atto che hai progettato di compiere è ingiusto”, ma la nostra libertà sceglie di compiere questo atto contro il giudizio della coscienza. Facciamo una breve, una attenta analisi di questa esperienza.

La conoscenza che io raggiungo mediante il giudizio della coscienza non è sufficiente a dirigere le mie scelte: non possiede una tale forza. D’altra parte, nessuno sceglie di fare il male perché è male: è impossibile che la nostra volontà si muova verso il male precisamente perché male. Come l’orecchio non può udire il silenzio, come l’occhio non può vedere le tenebre, così la volontà non può volere il male. Quindi fra il giudizio della coscienza e la scelta della volontà contro il giudizio della coscienza è intervenuto, si è frapposto un “giudizio” che ha giudicato essere bene per me fare ciò che la coscienza dice essere male. È questo giudizio che ha diretto la mia scelta. Per questo, da ora in poi lo chiameremo. “giudizio di scelta” (judicium electionis). Abbiamo così scoperto che esistono, possono esistere due giudizi pratici: quello che chiamiamo “giudizio di coscienza”, quello che chiamiamo “giudizio di scelta”.

Lasciamo per il momento il primo e concentriamo tutta la nostra attenzione sul secondo, al fine di scoprire la sua intima natura. Che cosa “spinge” la ragione pratica a contraddire se stessa (giudizio di coscienza) e a formulare quel giudizio? Se, ancora, guardiamo con attenta profondità dentro di noi, vediamo che la ragione pratica è “spinta” a quel giudizio perché la persona sente una intima affezione verso quella bontà che la coscienza, al contrario, ha giudicato non essere vera. “Questo atto è intimamente ingiusto, perché è un adulterio”, dice la coscienza. Mediante questo giudizio, la persona conosce la bontà, la bellezza della fedeltà coniugale e, per contrarium, la malizia, la turpitudine di quell’atto (adulterio) che ha progettato di compiere. Tuttavia, la persona sente una intima affezione non verso la bontà, la bellezza della fedeltà coniugale, ma verso il bene implicato nella congiunzione sessuale. È a causa di questa affezione che essa (persona) dice: “per me è bene unirmi a questa donna”, cioè elabora il suo “giudizio di scelta”.

Volendo descrivere la nascita del “giudizio di scelta” in un modo più preciso, più tecnico, possiamo dire così. Ogni giudizio razionale è la conclusione di almeno due premesse, poiché questo è il normale modo umano di pensare. Mentre il giudizio di coscienza è la conclusione di due premesse che sono opera della ragione, il giudizio di scelta è la conclusione di due premesse che non sono atti razionali, ma sono i “movimenti appetitivi” dell’uomo. Il ragionamento che conclude nel giudizio di coscienza è il seguente: l’adulterio è un atto ingiusto (M); ma questo atto che ho progettato di compiere è un adulterio (m); quindi “questo atto che ho progettato... è un atto ingiusto” (= giudizio di coscienza). Il ragionamento che conclude nel giudizio di scelta è il seguente: voglio compiere ciò che mi procura piacere (M); questo atto è piacevole (m); quindi questo atto è bene per me (= giudizio di scelta). È facile ora vedere come il primo tipo di ragionamento avviene entro i confini della ragione pratica: esso mi fa conoscere la verità su ciò che è bene/ciò che è male, nulla di più. Il secondo tipo di ragionamento non avviene solo dentro ai confini della ragione, ma anche nell’affettività: esso mi fa conoscere-scegliere ciò che è bene per me (che può essere in realtà male). Aristotele disse molto finemente: è un giudizio che sceglie e una scelta che giudica. E san Tommaso dice che nel giudizio di scelta si ha l’ingresso del giudizio di coscienza nell’affettività umana.

Facciamo ora un passo avanti verso il centro della soggettività cristiana, riflettendo precisamente sulle due premesse del giudizio di scelta.

Nell’esempio fatto sopra, si puo’ constatare che due sono i movimenti spirituali implicati nel giudizio di scelta: uno di carattere generale (voglio compiere ciò che mi procura piacere) e uno di carattere più particolare (questo atto è piacevole). Meditiamo attentamente su questi due strati della nostra vita spirituale e sul loro reciproco rapporto.

Questi due movimenti o atti della nostra libertà hanno un nome preciso nella grande tradizione etica della Chiesa: il primo è chiamato intenzione, il secondo scelta. Useremo anche noi, d’ora in poi, questo vocabolario. L’intenzione connota il movimento della nostra persona verso un genere di beni. Mi spiego con un semplice esempio. Bere alcool non è la stessa cosa che commettere un adulterio, tuttavia i due atti hanno qualcosa in comune: di essere beni piacevoli. Essi, cioè, appartengono allo stesso genere di bontà. La figura di Don Giovanni o la vita allo “stadio estetico” di cui parla Kierkegaard in pagine famose sono l’espressione di un’esistenza che è intenzionata, cioè orientata verso questo genere di beni. Ho fatto un esempio negativo, ma ovviamente la persona si orienta, è intenzionata verso i vari beni nei quali essa trova la sua realizzazione come persona. Per il momento, questo è sufficiente per quanto riguarda l’intenzione.

Ma è proprio dell’intenzione spingere la volontà a cercare quel bene a cui orienta la persona, a realizzare quel bene verso cui l’intenzione muove la persona. L’intenzione muove alla scelta: a compiere cioè quell’atto che realizza quell’intenzione. Chi segue Cristo è intenzionato a vivere nella povertà, nella umiltà. Ma come realizzare questa intenzione, questo orientamento? È la scelta che realizza questa intenzione: la scelta che la persona compie concretamente. E questa scelta di povertà, di umiltà implica un giudizio (di scelta) molto circostanziato: seguire Cristo povero non esige le stesse scelte per il monaco, per il vescovo, per la persona sposata e cambiano anche le circostanze.

Fermiamoci ancora un momento sopra questa dialettica di intenzione-scelta nella soggettività umana: è attraverso essa, infatti, che si apre la porta per entrare, fra poco, nel mistero più profondo della persona. Il rapporto fra intenzione e scelte, il passaggio dall’intenzione alla scelta è profondamente diverso dal rapporto fra legge morale e coscienza, dal passaggio dalla legge morale alla coscienza. E questa diversità deve essere vista chiaramente, altrimenti ci sfugge il mistero della soggettività cristiana. Il rapporto fra legge morale e coscienza è rapporto fra universale e particolare: si tratta cioè di vedere se questo atto è contemplato o non dalla legge universale, se è assumibile o non nella norma universale (ricordate le tre soluzioni al problema di H.V.). Il rapporto fra intenzione e scelta è rapporto fra un bene in generale voluto e la sua concretizzazione: non si tratta semplicemente e solamente di ricondurre un individuo alla sua specie o di riportare un determinato caso nella norma generale. Si ha qui, nel passaggio dall’intenzione alla scelta, un evento spirituale molto più profondo. La persona è intenzionata a seguire Cristo povero. Le circostanze da cui dipende che si possa qualificare una scelta e un’azione, scelta di povertà e azione povera, sono infinite e sempre mutevoli. Le scelte di povertà non sono semplicemente casi distinti alle quali si puo’ applicare il concetto generale di povertà. Sono invece esemplificazioni diverse tra loto, sono diverse l’una dall’altra, e l’una non è mai ripetizione dell’altra poiché ciascuna realizza in modo originale l’intenzione di seguire Cristo povero. La povertà di Francesco non è la povertà di Ignazio.

Due sono le conseguenze sulle quali, fra le tante, vorrei attirare la vostra attenzione, prima di procedere oltre in questo schizzo della soggettività cristiana. Tenuto conto di questo rapporto intenzione-scelta, la prima conseguenza è il rifiuto totale della teoria dell’opzione fondamentale, come è stata formulata in questi anni. Essa è teoreticamente insostenibile da molti punti di vista, ma soprattutto perché spezza questa dialettica fra intenzione e scelta, dialettica che è essenziale nella soggettività umana e cristiana: la terza soluzione data al problema di H.V. è errata precisamente per questo. Nell’uomo l’intenzione non puo’ realizzarsi che mediante e nella scelta.

La seconda conseguenza è ancora più importante. La possiamo enunciare così: nell’esistenza umana e cristiana ciò che è decisivo non è il giudizio di coscienza, ma il giudizio di scelta. Mi spiego. Non si diventa cristiani pensando di diventarlo, così come non si esiste pensando di esistere. Non divento molto cristiano, pensando molto il cristianesimo: il pensare umano non crea l’esistenza. C’è un solo modo di diventare cristiani: scegliere/decidere di diventare cristiani. Ora il giudizio di coscienza è solo potenzialmente pratico, mentre il giudizio di scelta è attualmente pratico, è l’esercizio della ragione nell’atto stesso della scelta: usus rationis in particolari eligibili, dice san Tommaso (1, 2, q. 58, 2c). È con vera finezza spirituale che san Tommaso insegna che la conoscenza morale circostanziata, come quella che raggiungo mediante il giudizio della coscienza, “non sufficit ad recte ratiocinandum circa particularia” (1, 2, q. 58, 5c). L’insufficienza consiste nel fatto che la conoscenza della coscienza può essere trascurata dalla persona nel momento della scelta; può essere una conoscenza che non riguarda lui come questo individuo, con questi desideri, che deve agire in questa situazione. Questa conoscenza se non esprime ciò che l’individuo sta attualmente desiderando, resta inoperante. Tutto questo dovrà essere ripreso quando parleremo della ricostruzione della soggettività cristiana.

Riprendiamo ora la nostra descrizione della soggettività cristiana. Dunque: intenzione-scelta sono i due poli che generano l’atto della persona, l’atto in cui la persona realizza il suo essere persona. Dobbiamo ora chiederci: come sorgono in noi le intenzioni? Cioè queste disposizioni permanenti che rendono la persona capace di scelte ottime? La domanda equivale alla domanda su come sorgono in noi le virtù. Infatti, noi qui intendiamo intenzione nel senso forte del termine, come permanenti disposizioni che rendono la persona capace di scelte ottime: di scelte, cioè, che realizzano pienamente l’essere della persona come tale.

La domanda puo’ avere un significato psicologico (attraverso quali processi la persona diventa virtuosa), un significato pedagogico (come si educa la persona alla virtù), un significato antropologico-teologico (in che cosa consiste l’essere virtuoso). Noi ci limitiamo all’ultimo significato: esso finalmente ci introduce nel centro della soggettività cristiana, della persona in quanto soggetto che agisce. Persona e atto.

In modo sintetico, ma completo, essere virtuoso significa essere autori in senso interamente vero del proprio atto: essere capaci di agire. La persona virtuosa infatti agisce in modo tale che l’atto le appartiene completamente. Ma facciamo un’analisi più attenta, partendo non da una esposizione teorica, ma da una esemplificazione pratica.

Chi segue Cristo povero? Non certamente colui che fa qualche scelta di povertà estemporaneamente, ma chi realizza giorno dopo giorno uno stile di vita povera. Ma questo non è ancora sufficiente: è l’aspetto materiale della cosa, direbbero gli scolastici. È la realizzazione di uno stile di vita povera precisamente in ragione del fatto che così si diventa discepoli di Cristo, per la ragione che la povertà ci mette nella sequela di Cristo. Se ora penetriamo profondamente in questa esperienza del “nudus sequi Christum nudum” vediamo subito: c’e’ nel discepolo una disposizione stabile ed uniforme, che ha introdotto nei principi dai quali scaturisce l’azione libera, una determinazione qualitativa tale che essi sono capaci di realizzare un’esistenza veramente buona, conforme alla regola della ragione illuminata dalla fede.

Più analiticamente. Si istituisce una sintonia profonda fra la persona ed il bene (la povertà di Cristo): le intenzioni sono fermamente orientate. Conseguentemente la persona è disposta a cercare e a scegliere le azioni che concretizzano lo scopo virtuoso (seguire Cristo povero) in modo appropriato alle circostanze e a sceglierle proprio per questa ragione. E così, queste azioni non nascono per caso. Pur sempre variabili, pur dovendo essere circostanziate, esse però sono scelte sempre per la stessa ragione, perché concretizzano quell’intenzione (seguire Cristo povero). In altre parole: la persona dà origine ad una storia, poiché la sua esistenza cessa di essere una trama disordinata, ma è la realizzazione di un progetto. È una esistenza nel senso forte del termine: e un’esistenza causata dalle sue scelte libere. In questo consiste l’essere virtuoso.

Prima di procedere ripercorriamo brevemente il cammino percorso nella nostra descrizione della soggettività cristiana. Abbiamo cominciato col distinguere il giudizio di coscienza dal giudizio di scelta. Ci siamo poi concentrati sul giudizio di scelta ed abbiamo visto che esso affonda le sue radici nelle intenzioni: la dialettica intenzioni-scelte è una dimensione costitutiva della soggettività cristiana. Riflettendo sulle intenzioni abbiamo visto che esso sono “confermate” positivamente o negativamente dalle virtù o dai vizi. La virtù costituisce un’altra dimensione essenziale della soggettività cristiana. Quale è l’origine di questo orientarsi stabilmente verso i beni (= intenzioni virtuose), orientamento che dà poi origine alle scelte? Esiste un’origine, diciamo, naturale, costituita cioè dalla struttura stessa della persona, più precisamente della volontà. È il desiderio di beatitudine che abita nel cuore umano, il desiderio cioè di raggiungere la pienezza dell’essere (adpetitus naturalis beatitudinis). Ma questa pienezza di essere in che cosa consiste? È la ragione pratica dell’uomo che deve rispondere e la libertà volere: si costituisce un progetto esistenziale di beatitudine. San Tommaso scrive che si ha una deliberazione riguardante se stessi in ordine al fine ultimo, cioè la beatitudine. Il testo tomista, come sempre, nella sua scarna concisione racchiude una profonda intuizione della vita spirituale.

Si tratta di una “deliberazione” cioè di un atto che è il risultato della cooperazione di ragione e volontà. Della ragione, che presenta le varie e possibili realizzazioni della vita beata e le giudica; della volontà che sceglie una di queste. È questo l’atto del deliberare. Ma si delibera su se stessi, cioè sulle varie possibilità di esistenza, non come possibilità logiche, ma come possibilità che sono reali: si delibera su come esistere. Ma in rapporto a che cosa? si può infatti deliberare su come esistere in rapporto al fatto, per esempio, che si è deciso di esercitare la professione medica oppure su come esistere in rapporto al fatto che si è deciso di non lavorare più. E così via. Ma si delibera su se stessi “in ordine al suo fine ultimo”. Cioè: in rapporto al fatto che si desidera una beatitudine vera, in rapporto al fatto che si intende dare una risposta a questo desiderio. Per questo, ho parlato di “progetto esistenziale di beatitudine”. È questa progettazione la radice immediata di quell’intenzionarsi, di quell’orientarsi verso i vari beni che realizzano il progetto esistenziale di beatitudine. Le varie intenzioni sono confermate poi dalle virtù, che possono generare le scelte giuste: cioè le scelte mediante le quali l’uomo realizza i vari beni e così cammina verso la beatitudine.

Che cosa avviene nella soggettività cristiana? È molto ben descritto da san Paolo in Fil. 3, 3-10. Paolo viveva in un progetto esistenziale che era fortemente radicato nella tradizione del suo popolo. Il progetto è indicato “una mia giustizia derivante dalla legge”. Ma quando egli incontra Cristo, tutto il suo progetto esistenziale è cambiato: guadagnare Cristo, essere trovato in Lui, conoscere la potenza della sua Risurrezione. E tutto lo stile della sua vita cambia così come le scelte concrete che costituiscono questo stile.

Ecco, ora possiamo ritenere di avere concluso la nostra breve descrizione della soggettività cristiana. Ripercorriamo il cammino, ma questa volta partendo dalla sorgente ultima. Nell’incontro con Cristo, la persona elabora il suo progetto esistenziale. Questa elaborazione ispira le sue intenzioni muovendo la persona verso quei beni nei quali quel progetto può realizzarsi: intenzioni confermate dalle virtù. Progetto e intenzioni virtuose prendono corpo nelle scelte concrete, nelle quali solamente progetto e intenzioni si realizzano e si concretizzano.

 

2. Dentro la soggettività cristiana

 

Solo ora possiamo cominciare a parlare di (autonomia della) coscienza, di legge morale, di Magistero della Chiesa. Cioè, dopo aver descritto la soggettività cristiana.

Infatti, è dentro essa che dobbiamo ora vedere coscienza e legge morale; è al servizio di essa che si pone il Magistero della Chiesa. Dobbiamo cioè individuare il luogo preciso in cui si collocano legge morale e coscienza e il Magistero. Sarà quindi una riflessione ancora analitica, in cui consideriamo le tre suddette realtà in se stesse. Nel punto seguente della nostra riflessione vedremo quali sono i loro reciproci rapporti.

Riflettendo sulla soggettività cristiana, penso che ci siamo resi conto dell’importanza centrale della scelta e quindi del giudizio di scelta. In realtà la scelta è come il punto di tangente sul quale poggia tutto il volume della sfera posta sul piano. La Tradizione etica della Chiesa ha sempre sottolineato questa importanza decisiva. È la scelta che ci fa esistere in un modo o nell’altro; è nella scelta che ciascuno di noi diventa, come scrive Gregorio di Nissa, padre e madre di noi stessi.

Riflettendo sul rapporto intenzioni virtuose-scelta si deve evitare di cadere in un errore oggi abbastanza presente nella teologia morale. È l’errore di chi pensa che il passaggio dalle intenzioni virtuose (o attitudini) alla scelta avviene spontaneamente (era già l’idea di Lutero). La realtà è ben diversa. La virtù è una determinazione nella volontà o nelle passioni che sta a disposizione del volere e di cui il soggetto puo fare uso quando vuole. Perciò la virtù non solo non diminuisce, ma accresce la possibilità di scelta, in quanto mette a disposizione della persona una capacità di agire che diversamente la persona non possiederebbe. Ed è proprio su questo passaggio dalle intenzioni alle scelte che ora dobbiamo concentrare la nostra attenzione.

Che cosa è che può far scegliere la volontà? Si noti bene: ho detto “può far scegliere”, non ho detto “fa scegliere”. La scelta infatti è atto prodotto esclusivamente dalla volontà. Nessuna altra facoltà umana esercita una casualità efficiente. È il fatto che la persona intra-vede nell’atto possibile una bontà, una preziosità tale che lo rende degno di essere voluto: senza questa valutazione non ci può essere scelta in senso vero e proprio. Infatti, il fatto che un bene si mostri alla volontà, rende possibile che questa spiri da sé un atto di amore (= scelta) di quel bene. Ma si faccia bene attenzione. Il bene deve mostrarsi come tale, nella sua forma di bene. La volontà può scegliere quel bene precisamente in quanto e perché è bene. Si tratta cioè di una vera e propria auto-determinazione, di un vero e proprio muovere se stesso. È più che la semplice consapevolezza: posso rendermi consapevole della mia attività respiratoria, ma non per questo l’atto del respirare è una scelta. È una necessità naturale che tale rimane, anche se ne divento consapevole.

Grazie a questa valutazione, a questa visione della bontà inerente all’atto che posso compiere, la persona non segue semplicemente inclinazioni e desideri dati, che di fatto possono anche essere buoni, ma è in grado di spirare da sé, di produrre in sé e da sé un movimento del tutto volontario che va a un bene operabile, in quanto è rappresentato dalla ragione pratica. Senza la mediazione di questo atto valutativo non si ha passaggio dalle intenzioni alle scelte: al massimo ci può essere un comportamento semplicemente spontaneo. Ma la spontaneità non è libertà.

Orbene, questa valutazione, questo giudizio valutativo che rende possibile la scelta è ciò che chiamiamo giudizio di coscienza o coscienza morale. Essa si pone, nell’ambito della soggettività umana e cristiana, alle spalle, per così dire, dell’atto della scelta; essa sta fra le intenzioni (virtù) e la scelta. Se abbiamo capito bene questa collocazione, ora possiamo capire la natura intima di questo giudizio che è la coscienza e in quale senso preciso si può e si deve parlare di autonomia di coscienza, e in quale senso non si può e non si deve parlare di autonomia di coscienza.

Dunque, prima di tutto la natura di questo giudizio. Si tratta di un atto della nostra ragione pratica, di un giudizio mediante il quale la persona conosce la qualità morale dell’atto che può compiere, che sta per compiere. Ma per capire bene la natura di questo giudizio e della conoscenza che raggiungiamo per mezzo di esso, è necessario ricordare quella distinzione dal giudizio di scelta che abbiamo fatto. Il giudizio della coscienza è un giudizio per sé puramente razionale. Esso dice: “questa è l’azione che devo fare/non devo fare in questa situazione”. Si tratta di una valutazione che riguarda l’azione già circostanziata, ma considerata ancora in se stessa: cioè indipendentemente dai desideri e dalle intenzioni dell’individuo. È per questo che questo giudizio non è immediatamente pratico, come dimostra il fatto che esso può essere contraddetto dalla scelta libera. E, infatti, la scelta scaturisce dalla volontà, dai desideri e dalle intenzioni della persona.

Il giudizio della coscienza, pur essendo un giudizio particolare, ha in sé una esigenza di universalità Esso cioè ha una sua giustificazione che non si fonda su riferimenti così personali da essere ineffabili e incomunicabili. Nel giudizio di coscienza la persona dice al contempo: “questa è l’azione che devo compiere” e “qualunque persona al mio posto dovrebbe compiere questa azione”. Donde deriva alla coscienza questa capacità di essere giudizio particolare-universalizzabile? Scopriamo qui un’altra importante dimensione del giudizio di coscienza.

La ragione elabora i suoi giudizi secondo leggi universali e necessarie. La coscienza è un giudizio della ragione che ha per oggetto un atto circostanziato al massimo, ma giudicato alla luce della verità della persona, della dignità della persona. Quando la coscienza dice “questa è l’azione che devo compiere”, lo dice perché ha visto che in questa azione la persona umana come tale si afferma, si realizza. Ho detto “la persona umana”, non “il mio io“. La coscienza non giudica secondo ciò che mi piace, ciò che mi è utile: in riferimento, direbbe san Bernardo al seguito di Agostino, a ciò che “tamquam privato sui ipsius amore desiderat anima” (De diversis, Sermo 8, 9). In questo sta la grandezza (ma anche la miseria) della coscienza. In essa l’uomo diventa consapevole della sua verità di persona, della bontà propria del suo essere personale, della singolare preziosità della sua persona, ma in quanto quella verità esige ora di essere affermata e non negata; in quanto quella bontà esige ora di essere amata e non odiata; in quanto quella preziosità esige ora di essere salvata e non perduta. Affermazione, amore, salvezza che la coscienza vede realizzarsi nell’atto, il quale pertanto viene giudicato doveroso. È nella coscienza che l’uomo resta come “imprigionato” dentro la sua verità, nel senso che ora è costretto a... essere libero, a fare la sua scelta. Cioé: la coscienza libera in questo senso l’uomo. Libera l’uomo perché lo sottopone alla verità: per questo siamo liberi — scrive sant’Agostino — perché siamo sottoposto alla verità.

Ed è precisamente in questo profondo rapporto fra coscienza-verità-scelta che possiamo ora dire in che senso si può e si deve parlare di autonomia di coscienza.

Il senso primo, da cui derivano mi sembra tutti gli altri, è che l’uomo non può fare una scelta libera senza la mediazione del giudizio della sua coscienza: radix totius judicium rationis, scrive san Tommaso. Non può fare una scelta libera se non in quanto segue il giudizio della sua coscienza se non perché fatto che è il giudizio della sua coscienza. In questo senso, allora, l’uomo deve sempre seguire il giudizio della sua coscienza, perché semplicemente deve agire umanamente cioè liberamente. Agire in coscienza e agire liberamente sono come la condizione e il condizionato.

Di conseguenza, l’autonomia della coscienza significa che l’uomo nel suo valutare non deve lasciarsi guidare dalle passioni, dai suoi desideri, ma esclusivamente dal puro desiderio, dal disinteressato desiderio di sapere la verità sulla scelta, sull’atto che afferma il mio essere persona. Non da considerazione di utilità, di calcolo. Quando la persona comincia a sbirciare verso le conseguenze utili o dannose del suo atto ha già rinunciato all’autonomia della coscienza.

Ancora, autonomia della coscienza significa non accettare il criterio della maggioranza come criterio di verità su ciò che è bene a male, di seguire l’opinione dei più. La Familiaris consortio dice stupendamente: “Seguendo Cristo, la Chiesa cerca la verità, la quale non è sempre lo stesso che l’opinione della maggioranza. Essa ascolta la coscienza e non il potere ed in questo modo difende i poveri” (5, 2). Giudicare liberi dal condizionamento delle opinioni alla moda; giudicare liberi dalle proprie passioni e dai propri interessi; giudicare solo nella sottomissione alla verità: questa è l’autonomia della coscienza.

E ora possiamo, per contrarium, dire in che senso non si può e non si deve parlare di autonomia di coscienza.

Anche qui si ha un senso originariamente errato di autonomia di coscienza. È l’errore che nasce dal ritenere identici il fatto di riconoscersi obbligati e il fatto di obbligare se stessi. Sulla base di questo errore, si intende autonomia di coscienza il fatto che il fondamento, la sorgente ultima che causa l’obbligazione è il giudizio di coscienza. Cioè: il giudizio di coscienza non è solo ciò mediante cui (principium quo) riconosco di essere obbligato a..., ma cio’ che (principium quod) mi obbliga a... Autonomia di coscienza, quindi, significa che non esiste una verità, una bontà, una preziosità della persona che precede la coscienza e la illumina, ma che questa verità, bontà e preziosità è costituita nel e dal giudizio di coscienza.

Autonomia di coscienza, quindi, finisce (ha finito) col significare puramente e semplicemente libertà di agire: la confusione è qui semplicemente tragica! Poiché la coscienza non ha alcun punto di riferimento che le si imponga, ma è essa stessa che pone i propri criteri, essa è libera. E siamo al concetto di “libertà di coscienza”, nel quale risiede una tremenda ambiguità. Libertà di coscienza che si capovolge in coscienza della propria libertà.

Infine, terzo significato errato, autonomia della coscienza significa che nessuna autorità può entrare nell’ambito proprio della coscienza: in questo ambito ciascuno è assolutamente autonomo. Ciò che l’autorità può e deve fare è costituire alcune regole di convivenza fra le varie libertà (ambito della giustizia), ma non puo’ attribuirsi l’autorità, come fa il Magistero della Chiesa, di dettare norme di comportamento riguardanti la propria vita diciamo privata. È un attentato contro l’autonomia della coscienza, che va combattuto.

La realtà è che con questa esaltazione della autonomia e libertà della coscienza, forse mai come ora si è manipolato l’uomo, si è organizzato una così potente strategia di produzione del consenso attraverso la manipolazione dell’opinione. Col richiamo alla coscienza si è distrutto la coscienza e la soggettività umana e cristiana. Ma siamo ormai arrivati al momento di parlare dell’altra realtà, la legge morale, sempre nel contesto della soggettività.

Parlando del giudizio di coscienza, abbiamo visto come esso sorga dal confronto fra un atto che in data situazione si presenta come possibile e la verità, la bontà, la dignità della persona umana come tale. Verità, bontà, dignità che può essere affermata/negata, amata/odiata, salvata/perduta nell’atto precisamente della persona.È in questo contesto che possiamo capire che cosa è la legge morale e la funzione che essa esercita nell’ambito della soggettività umana e cristiana.

Prima di tutto la natura della legge morale. Partiamo ancora una volta da un esempio. Esiste nella persona umana la tendenza, l’istinto al rapporto sessuale colla persona dell’altro sesso e la scienza dimostra come la sessualità sia “costruita” in modo tale che può dare origine ad un nuovo individuo umano. Dunque, possiamo dire che il fine proprio (si noti bene: proprio) della sessualità è la congiunzione sessuale per dare origine a una nuova vita. Possiamo anche dire che questo è anche il fine dovuto (debitus finis)? che fine proprio (della sessualità) e fine dovuto (della sessualità) è lo stesso? Questa identità deve essere negata. Perché?

La persona umana colla sua ragione comprende che: a) essere persona è essenzialmente diverso e più che essere qualcosa; b) il corpo è corpo personale e la persona è persona corporale; c) la sessualità, quindi, è sessualità personale e la persona è persona sessuata (uomo e donna lo creò). La persona “ha conosciuto se stessa”: è illuminata dalla verità su se stessa.

In questa luce si chiede: quale esercizio della sessualità, quale atto sessuale afferma questa verità? quale atto nega questa verità? E arriva alla seguente conclusione: solo l’atto dell’amore coniugale aperto al dono della vita afferma (cioè realizza) la verità della persona; ogni atto diverso da questo nega (cioè non realizza) la verità della persona. In questo momento, cioè nel momento in cui la persona umana giunge a conoscere questo rapporto fra un atto e la persona, essa ha scoperto una legge morale.

La legge morale, quindi, nella sua essenza è in senso proprio un giudizio della ragione mediante il quale conosco il rapporto esistente fra un atto e l’essere della persona in quanto realizzabile (perfezionabile) mediante l’atto libero. La legge morale è questo giudizio.

Per analogia, pero’, legge morale può anche significare non formalmente il giudizio razionale mediante cui conosco il rapporto atto-persona, ma questo stesso rapporto. È come dire “cibo sano”, nel senso di “cibo che causa la salute”. Ora si comprende perché il fine proprio non è il fine dovuto. L’inclinazione come tale non è la legge morale; la legge morale si costituisce mediante la ragione.

È importante che vediamo la differenza fra la conoscenza che raggiungo attraverso quel giudizio razionale che è la legge morale e la conoscenza che raggiungo attraverso quel giudizio razionale che è la coscienza morale. La prima conoscenza è universale e solo potenzialmente particolare; la seconda è particolare e solo potenzialmente universale. Mi spiego. Ciò di cui parla la legge è l’atto della persona non considerato dal punto di vista delle circostanze in cui la persona concreta lo può compiere né dal punto di vista dello scopo che una persona concreta si propone nel compierlo. È l’atto della persona considerato in sé e per sé, nel suo rapporto puro colla persona come tale, in quanto può essere oggetto della libera volontà prescindendo da qualsiasi altra considerazione nel volerlo. Si capisce, quindi, perché questa conoscenza sia universale: ovunque esista una persona che compia quell’atto è vero cio’ che afferma la legge morale. E si capisce anche perché questa conoscenza sia potenzialmente particolare e quindi solo remotamente praticabile: l’atto considerato dalla legge morale non esiste in realtà, nel senso che l’atto reale è sempre più che l’atto così considerato. Non è una conoscenza falsa, ma limitata e incompleta.

È per questo che è necessaria la conoscenza che raggiungo attraverso la coscienza: questa mi fa conoscere l’atto nella sua particolarità, alla luce anche della legge morale, come vedremo fra poco.

Vista la natura della legge morale, possiamo chiederci quale è la sua funzione nella soggettività umana e cristiana. È questo un punto assai importante.

Ripartiamo ancora dall’esempio già fatto. È chiaro che la persona sente la tendenza naturale, precedente la sua volontà, al rapporto colla persona di altro sesso. È ugualmente però certo che questo rapporto non si realizza umanamente se non si realizza liberamente. La libertà è chiamata ad assumere questa inclinazione: ciò verso cui inclina è un bene umano. Ma è precisamente questo il punto: verso che cosa inclina? o, il che è lo stesso,: quale è il bene proprio della sessualità, in che cosa consiste propriamente la bontà della sessualità? È questa una domanda della ragione, a cui cioè la ragione deve rispondere. In che senso deve? nel senso che la persona deve chiarire a se stessa e in se stessa questa inclinazione; nel senso che è la ragione che deve presentare quella bontà nei confronti della quale la libertà può muovere la persona e fare le sue scelte. Ora la ragione giunge a conoscere quel bene che non solo è possibile (operabile), ma è dovuto (operandum). Che cosa significa dovuto? un bene tale che appartiene come tale alla volontà razionale, per cui se la volontà sceglie, deve scegliere quel bene, se non vuole rinnegare se stessa: auto-distruggendosi nel momento stesso in cui si afferma. Ecco, ora siamo in grado di rispondere alla domanda. La funzione della legge morale nella soggettività umana è quella di fare conoscere quali sono quei beni che sono dovuti alla persona come tale. “Dovuti” significa: originaria convenienza per cui bene (indicato dalla legge morale) e volontà razionale si appartengono reciprocamente. Quel bene è il bene proprio della persona: la volontà razionale è orientata a quel bene. La legge morale indica quindi la via della vita.

Tuttavia l’esperienza sembra smentire tragicamente tutto questo. E qui entriamo nella soggettività cristiana. Se, infatti, la legge morale esprime questa reciproca appartenenza, originaria convenienza fra bene e volontà razionale, perché la volontà razionale si sente inclinata piuttosto in direzione diversa? Questo fatto fa assumere alla legge morale la funzione di “accusatore”, nel senso che essa fa prendere coscienza all’uomo di essere “venduto al peccato”. E questa consapevolezza fa invocare il Redentore. Egli rigenera la soggettività della persona, liberando la sua (della persona) libertà.

Abbiamo visto il sorgere della coscienza morale e della legge morale nell’interno della soggettività umana e cristiana. Ora dobbiamo vedere in che rapporto sono fra loro e quale è il servizio che il Magistero morale della Chiesa è chiamato a svolgere nei confronti della soggettività umana e cristiana, e quindi della coscienza e della conoscenza morale. Questo è il terzo e ultimo punto della nostra riflessione.

 

3. Coscienza, legge morale e Magistero

 

La legge morale e la coscienza rappresentano i due momenti fondamentali nei quali si attua la vita dello spirito alla ricerca della verità sul bene della persona. Sono due tappe dello stesso cammino verso la conoscenza della verità sul bene. Esse si radicano in quella attitudine spirituale che gli antichi chiamavano “sinderesi”, cioè quella innata capacità dell’intelletto di intuire la bontà, di produrre in sé la nozione di bene e i supremi principi dell’ordine morale. E si radicano in quella tensione spirituale della persona verso la pienezza dell’essere che muove la persona a ricercare in che modo la libertà può raggiungerla, cioè a ricercare la verità sul bene. È su questo scopo comune alla legge morale ed alla coscienza che vorrei richiamare la vostra attenzione. Sia la legge morale, sia la coscienza connotano, come abbiamo visto, un’attività razionale, cioè una conoscenza della verità. Se l’esposizione precedente ha messo in risalto, per ragioni didattiche, soprattutto la loro distinzione, ora dobbiamo recuperare la loro profonda unità.

Se noi prendiamo coscienza profonda di quell’evento spirituale che è l’esperienza etica, aiutati dai grandi maestri che l’hanno descritta, da Platone a Newman, noi vediamo che essa (esperienza etica) è l’esperienza di una bontà che esige di essere riconosciuta, amata dalla mia persona non in quanto e non perché sono io e non un altro. Dalla mia persona in quanto soggetto razionale. È la volontà razionale come tale che è chiamata in causa. San Tommaso dice che chi afferma la dipendenza del bene dalla volontà divina e non viceversa, bestemmia. La cosa è profonda. È la volontà razionale come tale che è chiamata in causa; quindi ogni volontà razionale, quella di Dio come quella della creatura, quella dell’angelo come quella dell’uomo. L’esperienza etica è la percezione di un ordine che è intrinseco all’essere come tale, di una Misura trascendente ogni essere e immanente ad ogni essere.

Tuttavia, l’esperienza etica non è solo questo. In essa ciascuno di noi è interpellato nella sua singolare irripetibilità: nessuno può prendere il mio posto. È colla mia scelta che mi è chiesto di riconoscere, di amare quel bene, quell’ordine intrinseco all’essere.

L’esperienza etica è questo incrocio di universalità e singolarità, di eternità e di temporalità: è il respiro dell’eternità nel tempo. È per questo che la conoscenza del bene avviene attraverso una visione di un ordine che esige di prendere corpo nella nostra concretissima scelta (= la legge morale) e attraverso una visione del bene proprio della concretissima scelta nella luce dell’ordine dell’essere (= coscienza morale). È come un circolo che si istituisce nella vita dello spirito.

Quando questo “circolo” si spezza? quando si contrappone legge morale e coscienza? È proprio questa disarticolazione interiore che è accaduta in questi anni.

Quel rapporto si spezza quando si espelle dalla riflessione etica il concetto di verità. Questa espulsione significa che la domanda di felicità che abita nel cuore umano non può ricevere una risposta che possa qualificarsi come “vera” o “falsa”. Chiedersi se si possa distinguere una vera felicità da una falsa felicità non ha senso, poiché essere felici significa sentirsi felici. La progettazione quindi della propria esistenza sfugge a ogni giudizio avente carattere di validità universale. La stessa cosa vale anche per le scelte che concretizzano e realizzano quel progetto.

Ma l’uomo non vive solo, vive in società. È necessario, quindi, che si pongano delle regole così che a ciascuno sia consentito di realizzare nelle proprie scelte libere il progetto esistenziale liberamente elaborato. Queste sono leggi che valgono per tutti; la loro è solo una funzione di regolamentare gli interessi opposti: chiedersi se siano vere 0 false non ha significato. Bisogna solo chiedersi se sono funzionali o non funzionali. E a questo punto l’espulsione del concetto di verità dall’etica è totale: un’etica senza verità.

In questo contesto il rapporto coscienza morale e legge morale è pensato come rapporto fra autonomia della persona (che realizza nelle sue libere scelte il proprio progetto esistenziale) e le regole che limitano questa autonomia. Non ha più senso che un’autorità possa imporre regole che entrino a regolare il campo dell’autonomia della coscienza. Un esempio: non ha senso che la legge civile consideri matrimonio solo quello fra uomo e donna, poiché qui si tratta di progettare la propria sessualità. E si chiede il matrimonio omosessuale.

Nel piano della società civile si ha la distruzione del tessuto connettivo della società umana; nell’ambito dell’esperienza di fede si ha quello sradicamento del soggetto dalla comunione ecclesiale di cui ho già parlato. Ne poteva essere diversamente. Solo la verità sul bene crea comunione, non il privato sentimento del bene.

E ora finalmente possiamo capire facilmente il compito del Magistero morale della Chiesa, considerando le due situazioni spirituali sopra descritte.

A) Nel contesto di una soggettività umana e cristiana sana, il compito del Magistero è visto correttamente come ciò che aiuta la ragione dell’uomo a scoprire la verità sul bene della persona. Esso compie questo servizio in due modi: insegnando quale esercizio della libertà, quale atto della persona distrugge il bene di essa (ed è il caso per es. di Humanae vitae) oppure mostrando quali atti realizzano il bene della persona.

Ora, è chiaro che il Magistero non può sostituirsi alla coscienza, poiché nessuno può farlo: è questo — come abbiamo visto — il senso corretto di autonomia. Esso, coll’insegnamento delle norme morali negative dice che cosa la coscienza non deve mai giudicare bene; delle norme morali positive, indica i criteri mediante i quali la coscienza deve giudicare l’atto che la libertà sta per compiere.

B) Nel contesto di una soggettività umana e cristiana ammalata, il compito del Magistero è semplicemente impensabile. Non lo si accetta poiché la sua accettazione è impensabile. Per ciò che riguarda l’ambito della propria vita o è considerato una indebita ingerenza (“Il Papa non ha il diritto di insegnarci come vivere la nostra sessualità coniugale”) o è al massimo visto come uno dei tanti punti di riferimento che è prudente tenere in conto. Dire più di questo è negare l’autonomia della coscienza (qui intesa nel modo scorretto).

Per cio che riguarda la dimensione più sociale, il Magistero può essere accettato in quanto istanza che aiuta a produrre un consenso su valori comuni, su alcune fondamentali regole di comportamento sociale.

E siamo cosí arrivati al punto da cui siamo partiti: il vero problema è la ricostruzione di una vera soggettività umana e cristiana, quella rigenerazione dell’uomo di cui Gesù parla a Nicodemo.

 

Conclusioni

 

L’Apostolo si pone davanti alla coscienza dell’uomo: alla persona cioè nel momento in cui progetta e giudica quelle scelte che realizzeranno o non la sua persona. Egli, pertanto, non può dissimulare vergognosamente la verità o falsificarla. Sarebbe un traditore dell’uomo e diventerebbe responsabile della sua perdizione. Alla fine, porsi davanti alla coscienza dell’uomo è stare al cospetto di Dio, poiché Dio è colui che vuole che ogni uomo si salvi e quindi arrivi alla conoscenza della Verità.

Ciascuno di noi deve collocarsi di fronte alla coscienza, non di fronte alla società o di fronte all’opinione della maggioranza. Di fronte a ogni persona nella sua infinita preziosità. La persona è se stessa in modo eminente nella sua scelta. Servire la coscienza significa dire, senza vergognose dissimulazioni, la verità sul bene dell’uomo: perché l’uomo non sbagli nelle sue scelte.