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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Coscienza morale e ministero sacerdotale
Due conferenze tenute ad Ars in settembre 1992 a un Seminario di studio per Sacerdoti francofoni
Versione pubblicata in Anthropotes, dicembre 1993


Vorrei, in primo luogo, dichiarare quale è l’oggetto preciso di questa mia conversazione, la quale costituisce la porta d’ingresso nella nostra riflessione comune.

Non mi propongo una riflessione accurata, analitica, di autori e delle loro tesi e la rispettiva critica positiva o negativa. Sarebbe un’erudizione più che una meditazione sul nostro ministero pastorale, considerato dal punto di vista del servizio che deve rendere alla coscienza morale.

Ciò che mi propongo sono essenzialmente due obbiettivi. Il primo: mostrare come è «trattata» la coscienza morale nella riflessione teologica contemporanea. Il secondo: le conseguenze pratiche di questo «trattamento».

Tuttavia, prima di tentare di elaborare la mia riflessione attorno ai due punti suddetti, vorrei rispondere a una domanda del tutto preliminare: che senso ha, se ne ha uno, riflettere sul ministero pastorale in quanto esso deve rendere un servizio alla coscienza morale? È la domanda che pone il problema delle ragioni profonde, ultime, del nostro riflettere.

 

1. Coscienza morale e ministero apostolico

 

Vorrei partire dalla descrizione di un fatto che è accaduto e sta ancora accadendo nella nostra comunità cristiana e poi da un’affermazione di san Paolo: fatto e Parola saranno la guida nella nostra riflessione durante questa prima parte della mia conferenza.

 

1. 1. Il fatto sul quale vorrei richiamare la vostra attenzione è il modo con cui nelle comunità cristiane si è risolto concretamente il problema di Humanae Vitae.

Semplificando un poco la situazione, si può dire che le soluzioni concrete errate che hanno avuto maggiore accoglienza nelle nostre comunità, sono state quattro.

A) La prima afferma che la contraccezione è senz’altro un male e che, per- tanto, non si può rifiutare sic et simpliciter l’insegnamento di Humanae Vitae.

L’errore, tuttavia, è stato di pensare che la norma morale che condanna la contraccezione abbia un valore universale: valga semper et pro semper. In realtà, si tratta di una norma che ammette delle eccezioni: non sempre, non in ogni caso la contraccezione è ingiusta.

La coscienza dei coniugi ha precisamente il compito di giudicare-decidere quando, nelle situazioni concrete la contraccezione è ingiusta o giusta. Ciò che si può, e si deve fare, è di offrire alla coscienza dei fedeli dei «punti di riferimento» in base ai quali essa può elaborare un giudizio corretto.

Tralasciamo la teoria etica generale che ha giustificato questo approccio, poiché essa non ci interessa per ora direttamente. Vorrei solo richiamare l’attenzione che si ha questo approccio anche nel problema dei divorziati risposati, a riguardo della legge dell’indissolubilità.

B) La seconda soluzione parte dalla convinzione che se nella Chiesa fosse tollerata chiaramente una diversità di opinioni teologiche, l’intero problema potrebbe essere facilmente risolto. Esso è diventato di così difficile soluzione, perché il Magistero di Paolo VI e di Giovanni Paolo II non hanno approvato questa diversità di opinioni: non hanno mai giudicato che la malizia di ogni atto contraccettivo appartenesse alle questioni liberamente discutibili nella Chiesa. Per quale ragione una tolleranza delle diverse opinioni risolverebbe il problema? Perché, precisamente, lascerebbe libera la coscienza nel suo giudizio.

La pluralità delle opinioni, legittimata nella Chiesa, renderebbe al contempo ciascuna di esse discutibili, cioè non certa e quindi, alla fine, libererebbe la coscienza dei fedeli da una norma. Si noti bene che il Magistero potrebbe essere anche certo della sua convinzione. Ma esso dovrebbe astenersi dall’imporre questa certezza impedendo il legittimo pluralismo teologico su questo punto. In questo modo, quanto meno i fedeli resterebbero in buona fede: non commetterebbero peccato, anche se oggettivamente compiono un atto ingiusto.

Ancora una volta: la coscienza giudica, e la preoccupazione pastorale di primaria importanza non è che il giudizio sia vero, ma che sia sincero.

C) La terza soluzione parte dalla constatazione del fatto che esiste oggi una grande distanza fra ciò che il Magistero della Chiesa insegna e la pratica dei fedeli.

Ora la pura e semplice insistenza sulla dottrina non serve a niente per colmare questa distanza È necessario ricuperare e diffondere, soprattutto fra i pastori, una attitudine di compassione e di accomodamento pastorale. Essa (attitudine) consiste in una pastorale che incoraggia il fedele ad accettare l’insegnamento della Chiesa come un ideale e ad avanzare gradualmente verso questo ideale. Ma agli sposi non deve essere chiesto di confessare ogni atto di contraccezione e di avere il serio proposito di emendarsi: un atto contraccettivo potrebbe non essere peccato mortale, se non distoglie dalla tensione verso l’ideale.

È in questa situazione che si colloca la coscienza: fra la tensione all’ideale e la condotta reale. Nel senso che, alla fine, essa giudica se questa (la condotta reale) contraddice quella (la tensione verso l’ideale).

D) La quarta soluzione afferma che la diffusione sempre più grande dei metodi naturali di controllo della fertilità è la vera soluzione del problema. Si sottintende: quei metodi che oggi offrono sicure garanzie, scientificamente fondate. È chiaro, infatti, che quando le coppie dovessero astenersi solo pochi giorni al mese, per evitare la gravidanza, difficilmente qualcuno sarebbe interessato a ricorrere ad altri metodi.

La scienza ha già risolto molti altri problemi dell’umanità: essa sarà in grado di risolvere anche questo.

 

Queste mi sembrano le quattro soluzioni principali errate. Vorrei ora aiutarvi a vedere come, in primo luogo, tutte e quattro hanno una radice comune che è il legalismo etico e come, in secondo luogo, la coscienza morale viene trattata nel contesto del legalismo etico.

In primo luogo, è necessario che definiamo rigorosamente che cosa è il legalismo etico e non sarà poi difficile vedere come quelle quattro soluzioni nascano da esso.

Fondamentalmente, il legalismo etico consiste nell’errore di ritenere che la legge divina sia come la legge umana. O per essere più precisi. Quando noi parliamo di leggi, consapevolmente o non, pensiamo subito alle leggi umane: e non può non essere che così. Tutte le nostre conoscenze partono dalle nostre esperienze. Nel momento, quindi, in cui parliamo di «legge divina», ne parliamo analogicamente: ed anche questo è inevitabile. Ogni nostro discorso su Dio è analogico. Ma è precisamente in questo punto che l’errore del legalismo può prendere possesso del nostro spirito. In due modi. O perdendo la coscienza dell’analogia e quindi ritenendo che si tratti di univocità oppure ritenendo che la legge umana sia l’analogatum princeps, alla luce del quale deve essere pensata la legge divina. Dunque: il legalismo etico consiste nel ritenere che la legge divina sia come la legge umana. Ma che cosa significa?

In primo luogo e soprattutto che la legge (morale) divina non ha altro fondamento ultimo che la libera volontà divina. In una visione legalistica, ciò significa che non esiste un legame necessario fra ciò che è comandato o proibito e il comando o la proibizione come tale, poiché la legge morale non esprime ultimamente che una decisione della volontà divina. Il rapporto esistente fra oggetto, atto, persona non è in se stesso principio sufficiente di regolazione della prassi umana. Il fatto che un bene convenga in sé e per sé alla persona, che un male non convenga alla persona, non è ancora una ragione sufficiente per volerlo o non volerlo effettivamente. La vera ragione è da ricercarsi nel fatto che Dio ha voluto effettivamente quest’ordine: «lex non est recta nisi quia statuta» (D. Scoto).

Il legalismo etico è così condotto, coerentemente, a pensare il rapporto libertà e legge morale in termini antitetici, nel senso che libertà e legge hanno un’estensione inversamente proporzionale: si ha libertà dove non si ha legge e dove c’è una legge non si è più liberi. (Di passaggio, notiamo che il legalismo etico risulta incapace di capire veramente la libertà cristiana come libertà dalla legge: ma di questo parleremo in seguito). Se, quindi, la legge non è certa, e finché non è certa, si deve pensare di essere liberi: ciò che non è certamente proibito, è permesso.

Separando il bene dalla legge, o meglio fondando la bontà (dell’atto) sulla legge divina, il legalismo etico è coerentemente condotto a pensare la dimensione storica della vita cristiana in un modo che questa (dimensione) viene seriamente compromessa. E ciò in due modi connessi fra loro. Primo: si nega ogni rapporto necessario fra la bontà della persona (che agisce) e la giustizia dell’atto compiuto. È la ben nota teoria dell’opzione fondamentale. L’esistenza etica della persona si realizza in ciò che viene chiamata «libertà trascendentale» o «dimensione trascendentale della libertà». L’agire concreto, intramondano della persona non ha necessariamente una rilevanza decisiva, dal punto di vista etico. Di conseguenza, ed è il secondo modo di compromettere la storicità dell’uomo, è possibile compiere atti concreti contro, per esempio, la castità senza cessare di essere casti, se la persona resta orientata all’ideale di castità. È la teoria della legge morale come legge ideale, molto connessa alla teoria della opzione fondamentale.

Mi fermo nella esposizione del legalismo etico. Questi semplici richiami sono sufficienti per vedere che quelle quattro soluzioni sono dirette emanazioni di quella visione.

A) Se la legge morale decide ciò che è il bene o il male di un atto non è impensabile che esistono condizioni del tutto singolari nelle quali quella legge non vale. Per capire meglio questo punto assai importante, usciamo per un momento dalla visione etica legalista e pensiamo: l’atto del contraconcepire è in sé e per sé ingiusto. È chiaro che o questa proposizione è vera, e allora non ammette eccezioni o ammette eccezioni e allora è falsa. Non è così, invece, se pensiamo: l’atto di contraconcepire non è in sé e per sé ingiusto, ma perché una legge lo proibisce. È chiaro che è pensabile un atto contraccettivo giusto, perché è pensabile una diversa estensione della legge.

Che questa sia non solo pensabile, ma anche probabile può essere dimostrato da vari punti di vista: la legge è sempre una «generalizzazione» e non può contemplare tutti i casi, tutte le circostanze della vita; la situazione in cui vivo è talmente straordinaria che certamente il legislatore non intendeva prenderla in esame. E siamo così alla prima soluzione al problema Humanae Vitae: la legge morale insegnata da H.V. è generalmente valida, tuttavia, essa ammette delle eccezioni, dovute a circostanze particolarmente gravi. È l’epikeia che va attuata.

B) Ho già parlato del rapporto legge morale-libertà nella visione legalista. Ho già detto che, in questo contesto, lo certezza (lo stato soggettivo) dell’esistenza della legge è la cosa più importante. La legge dubbia non obbliga e, quindi, l’insegnamento morale della Chiesa non è obbligante all’infuori del caso in cui è fuori di ogni dubbio.

È lapalissiano che le norme contestate sono dubbie: molti fedeli dicono che essi possono non osservarle con tranquillità di coscienza e molti teologi le rigettano. Ora ciò che è messo in dubbio è discusso, ciò che è discusso finisce sempre col diventare incerto e così quelle norme non devono più essere ritenute obbliganti.

Certamente, l’autorità magisteriale continuerà ad affermarle, ad esigere la loro osservanza. Ma è chiaro a tutti che si tratta di un insegnamento che non ha più attinenza con la vita.

E siamo così alla seconda soluzione: lo stato di dubbio in cui versa la Chiesa libera i fedeli dall’obbligo e, pertanto, devono «essere lasciati in pace».

C) La non percezione della differenza fra legge morale divina e la legge umana, essenza della visione legalista, conduce ad un’altra conseguenza, sulla quale è necessario riflettere molto attentamente.

Il legalismo porta, quasi inevitabilmente, o al rigorismo o al lassismo. L’es- senza del rigorismo consiste nella presunzione a favore della legge, sempre e comunque. L’essenza del lassismo consiste, al contrario, nel ritenere che basti un qualsiasi dubbio o difficoltà per ritenerci liberi dalla legge. Queste due attitudini possono nascere e crescere solo nel contesto di una visione legalista. Da una parte, non essendoci una ragione intrinseca all’intimazione della legge, il problema primo che psicologicamente e spiritualmente viene ad occupare la persona è la difficoltà o facilità di compiere ciò che la legge impone. La domanda fondamentale non è: perché mi viene chiesto questo? ma è: è difficile o facile compiere ciò che è chiesto? Posto in questi termini, il problema diventa di sapere se e come è possibile osservare la legge in questione. Dall’altra parte, non si può semplicemente negare l’obbligatorietà di una legge a causa della difficoltà della sua osservanza: in questo senso si può mostrare la falsità del lassismo, pur rimanendo dentro al sistema legalista. Tuttavia, la difficoltà diventa criterio ermeneutico della legge stessa e della sua forza obbligante: esistono leggi così difficili da osservare, così esigenti che non possono essere osservate in un senso puntuale. Esse sono «leggi-ideali (ziel-gebots)».

Queste leggi indicano obbligatoriamente verso quale condotta tendere, ma non esigono che tu in ogni caso compia un certo atto. Esigono che tu tenda verso questo ideale: tensione che non esclude che si compiano atti che sono in se stessi considerati contrari alla legge come tale.

E siamo così alla terza soluzione: la legge di H.V. esige solo di tendere alla sua realizzazione, è una «legge-ideale». Alla coscienza è chiesto di decidere se e quanto un atto particolare favorisce o frena questo cammino.

Una variante di questa posizione è la teoria dei conflitti di doveri o valori, sulla quale non vorrei fermarmi, per non dilungarmi troppo.

D) La quarta soluzione al problema H.V. può essere espressione del legalismo etico. Nel senso che essa, al pari delle altre tre soluzioni precedenti non coglie che ci troviamo di fronte a un problema di verità. Ho detto «può». Questa soluzione in realtà, oggi spesso è il segno di una crisi spirituale più profonda: la riduzione del problema etico al problema tecnico. È la convinzione che si tratti non di un problema dell’agire umano, ma del suo fare tecnico.

Mi ero proposto di mostrare come quelle quattro soluzioni date al problema di H.V. (o almeno le prime tre) nascono da una visione legalista: sono prodotti del legalismo etico. Mi resta ora di mostrare quale sorte subisce la coscienza morale dentro illegalismo morale. Sempre sulla base di questo problema particolare, per non staccarci troppo dalla vita quotidiana della Chiesa.

È singolare la sorte che tocca alla coscienza di ogni sistema etico legalista: da una parte, essa si vede caricata di un peso superiore alle proprie forze, per così dire; dall’altra parte, paradossalmente essa non viene riconosciuta nella sua dignità propria. Vediamo brevemente questi due aspetti della sorte toccata alla coscienza.

 

A) Seguendo con attenzione le riflessioni precedenti, si è potuto constatare come il legalismo etico conduce, quasi inevitabilmente, a una situazione di vera schizofrenia interiore poiché il soggetto che agisce, la persona si trova confrontata con due regole o norme di agire: quella remota che è la legge morale e quella prossima che è il giudizio della coscienza. La legge morale, infatti, è regola dell’agire solo «prima facie», solo generalmente parlando, ma l’obbligazione è posta in essere, in ultima analisi, dal giudizio della coscienza. Esiste, o meglio, in linea di principio non si esclude che possa esistere un contrasto fra le due norme regolatrici.

Si pone così una sorta di «sospetto» nel cuore della persona. Non è a caso che proprio in questo contesto siano sorte «figure» di coscienza morale del tutto sconosciute alla grande Tradizione etica cristiana, come la coscienza scrupolosa, figlia legittima di ogni legalismo etico.

Questa condizione della coscienza morale resta sostanzialmente intatta, anche quando si ricorre ad alcuni palliativi. Come per esempio mostrando che la legge morale ha una certa corrispondenza colle esigenze della natura umana; affermando che il giudizio della coscienza implica anche la dimensione affettiva della persona.

B) Paradossalmente, tuttavia, ad una coscienza così enfatizzata non può essere riconosciuto il suo ruolo proprio. Mi limito ad una considerazione solamente, poiché su questo punto, di importanza fondamentale, ritorneremo a lungo in seguito.

La coscienza è vista come l’istanza che applica la legge universale al caso particolare o, il che è equivalente, che sussume il caso particolare dentro la legge universale: ma è proprio questo il ruolo della coscienza? quella di una specie di giudice che applica la legge al caso particolare? Si può ancora dire che il soggetto, la persona è autore del suo giudizio pratico? Penso di no. In questo senso, dico che nonostante l’enfatizzazione della coscienza, ad essa non si riconosce poi quello che è il suo ruolo proprio. Ripeto: ritornerò su questo punto, che ha un impatto pastorale formidabile.

 

1. 2. Abbiamo descritto un fatto: il modo con cui la comunità cristiana ha cercato di risolvere concretamente il problema posto da H.V. Dentro questo fatto, abbiamo visto, in secondo luogo, il permanere nella comunità cristiana di una visione legalista. Dentro questa visione, abbiamo visto quale sorte tocca alla coscienza morale. Abbiamo dunque descritto un fatto. Ora per rispondere alla nostra domanda sul nostro ministero pastorale in quanto esso deve rendere un servizio alla coscienza morale, lasciamo per un momento la situazione, per udire attentamente una parola di san Paolo.

Scrive dunque san Paolo nella 2 Cor. 4, 2: «rifiutando le dissimulazioni vergognose, senza comportarci con astuzia né falsificando la parola di Dio, ma annunziando apertamente la verità, ci presentiamo davanti ad ogni coscienza (suneidesin), al cospetto di Dio».

Il testo è molto ricco. L’interlocutore del ministro nella Nuova Alleanza è la coscienza dell’uomo: il ministro si pone di fronte ad essa. Ma porre se stesso davanti alla coscienza significa porre se stesso di fronte a Dio. Poiché questo è soggetto a cui si rivolge l’apostolo e il «luogo» in cui il dialogo apostolo-coscienza avviene, cioè il cospetto di Dio, non è possibile dissimulare per vergogna la verità o falsificare la parola di Dio.

Si afferma, pertanto, una profonda connessione fra esercizio del ministero come annuncio della verità, coscienza morale dell’uomo, presenza di Dio: alla presenza di Dio, l’apostolo parla alla coscienza morale dell’uomo.

Il testo dell’apostolo si radica in una mirabile tematica biblica, già presente nei Profeti. «Parlate al cuore di Gerusalemme», dice Isaia (40, 2) e chi non vuole ascoltare la voce di Dio, deve allontanarsi dal cuore. Commenta san Bernardo: «Babylon, quoniam in terra est nec potest sustinere universos sermones eius, elongatur a corde et in carne magis ambulat, tamquam mortua a corde... vult enim laetari cum malefecerit et exultare in rebus pessimis, audiensque vocem Domini huiusmodi gaudia nullatenus approbantem... fugit» (De diversis, sermo V, 2). È nel cuore (cioè nella coscienza) che Dio parla all’uomo e, quindi, l’apostolo, che è servo della Parola, non può non rivolgersi al cuore, alla coscienza. Quando, da una parte l’Apostolo non intende più parlare «al cuore» e l’uomo, dall’altra, non vuole rimanere nel cuore, allora la Verità è dissimulata vergognosamente e la Parola è falsificata. Apostolo e uomo si ingannano reciprocamente, poiché sono usciti dal cospetto di Dio, dal momento che il dialogo non accade nella coscienza dell’uomo.

Possiamo ora concludere il primo punto della nostra riflessione.

La domanda era: che senso ha riflettere sul ministero pastorale in quanto esso deve rendere un servizio alla coscienza morale? Per trovare la risposta abbiamo percorso due vie: una di carattere descrittivo, l’altra di ascolto della Parola di Dio. Dal confronto di queste due vie, troviamo precisamente la risposta.

La legge di Dio è estranea alla coscienza morale: l’annuncio si rivolge certamente alla coscienza, ma è l’intimazione di un obbligo nei confronti del quale la coscienza deve prendere posizione. In sostanza, è detto alla coscienza: questo è ciò che è comandato/proibito (dalla legge di Dio), ora vedi se il tuo caso è contemplato, è sussumibile o non da questa legge.

Ministro della Nuova Alleanza e coscienza si trovano confrontati, in questo dialogo, «al cospetto di Dio» poiché è della legge di Dio che si parla. Ma, proprio per questo, è il Dio della legge che è presente.

È questo il servizio che dobbiamo rendere alla coscienza morale? In fondo, le tre soluzioni che abbiamo analizzato costituiscono tre tentativi di uscire da questa impostazione. Ma non potevano, perché accettano i presupposti fondamentali di quel sistema. Si tratta, in fondo, di una cosmesi, più che di una riflessione teoretica radicale.

Non è dunque questo il servizio che si deve rendere alla coscienza morale. Quale, dunque? Tutta la riflessione cercherà di rispondere a questa domanda.

Proseguendo la mia riflessione, che ha il compito solamente di porre lo status quaestionis generale, si deve dire che in realtà la riflessione teologica più attenta ha cercato di uscire da questa situazione. Come? anche attraverso una riflessione sulla coscienza.

E allora, dobbiamo ora vedere come precisamente è trattata la coscienza morale nella riflessione teologica contemporanea.

 

2. La coscienza nella riflessione teologica contemporanea

 

Premetto che non intendo fare una ricerca analitica su questo punto. Non è necessario per il nostro compito e sarebbe molto lungo. È sufficiente cogliere le linee di sviluppo di una riflessione che, iniziata soprattutto attorno ad H.V. (1968), sembra ormai aver esaurito e terminato il suo percorso teoretico.

Tutta la dottrina della coscienza dipende dal modo col quale sciogliamo un «nodo teoretico» che può essere descritto nel modo seguente: la persona umana è eticamente obbligata quando e se sa di essere obbligata. In questa formulazione abita quel nodo teoretico di cui ho parlato. Vediamo.

Prima facie, cioè immediatamente, la formulazione indica due fatti: l’essere obbligati, il sapere di essere obbligati. Tutta la questione è di sapere che rapporto esiste fra questi due fatti: la soluzione che si dà a questa questione determina la propria concezione di coscienza.

Per cogliere tutta la gravità della questione, si deve notare che, trattandosi del sapere della coscienza, non si tratta di un sapere qualsiasi, per es. il sapere che posso raggiungere studiando un libro di etica.

È un sapere che ha per oggetto se stesso: è un sapersi obbligati, è un riconoscersi obbligati. E quindi la formulazione più precisa è la seguente: la persona è eticamente obbligata quando e se si riconosce obbligata.

E dunque il problema è di sapere quale rapporto esiste fra essere obbligati e riconoscersi obbligati.

Facciamo un passo avanti. Se io pongo il problema nel contesto di una visione legalista, esso coincide colla domanda: che rapporto esiste fra la legge morale e la coscienza. Infatti, secondo ogni visione legalista, essere obbligati è lo stesso che essere sottomessi ad una legge. Orbene, si deve tener presente che la teologia morale contemporanea riceve in eredità dal suo passato prossimo questa problematica: lo abbiamo già constatato nel numero precedente. Le vie che possono essere percorse per risolvere il problema nella sua precisa formulazione ricevuta nel periodo post-tridentino, sono fondamentalmente due: o si mette in questione questa formulazione stessa e si ricostruisce la domanda alla sua radice oppure si cerca una risposta corretta al problema ma senza porre in questione radicalmente il modo in cui storicamente il problema si era posto. Ora, a me sembra che la teologia cattolica contemporanea, generalmente parlando, abbia scelto la seconda strada. Ma, a questo punto, prima di procedere, dobbiamo abbandonare per un momento il mondo della teologia morale cattolica per andare a visitare, per un qualche tempo, la riflessione filosofica moderna, anzi il centro stesso della modernità, secondo gli storici più acuti della medesima.

Quale è questo centro? è l’identificazione dell’essere colla coscienza dell’essere. Volendo semplificare un poco, si può dire che il centro della modernità è costituito dall’affermazione secondo la quale non la coscienza procede dall’essere, ma l’essere procede dalla coscienza, è presenza di coscienza. Che cosa significa questo principio fondamentale per la nostra questione? significa identificare realmente l’essere obbligati, riconoscersi obbligati e obbligare se stessi. Mi spiego, Sono obbligato perché mi riconosco obbligato, in quanto riconoscendomi obbligato mi obbligo. Cioè: l’atto con cui mi riconosco obbligato non è da considerarsi semplicemente l’atto mediante cui conosco un’obbligazione pre-esistente. Esso (atto) è precisamente il principio che costituisce l’obbligazione in me. I latini distinguevano un «principium quo» ed un «principium quod», Sapersi obbligati non è il «principium quo», io conosco che sono obbligato, ma è il «principium quod», che mi fa essere obbligato. In questo senso, essere obbligati, riconoscersi obbligati e obbligare se stessi si identificano. Insomma, obbligazione e consapevolezza di questa sono identiche.

Ora si può cogliere il senso preciso che ha per la modernità l’autonomia della coscienza morale: un senso completamente diverso da quello che ha nella grande tradizione etica della Chiesa, Essa significa che la causa efficiente l’obbligazione è l’atto della coscienza; che obbligo me stesso quando io mi conosco obbligato; che il legislatore dell’uomo è l’uomo stesso, Quando la modernità parla di dignità della coscienza intende precisamente affermare questa autonomia. Ritorniamo nel territorio della teologia morale contemporanea.

Ovviamente, l’esperienza culturale della modernità e la riflessione teologica non vivono su due isole: c’è stata tutta una profonda osmosi fra le due. Osmosi che ha dato i suoi frutti anche nella dottrina sulla coscienza morale. Vediamo subito in che modo.

È chiaro che nessun teologo può accettare, nella sua interezza, il principio centrale della modernità: esso implica l’ateismo. Implicazione che la storia ha tragicamente mostrato, con le conseguenze che tutti conosciamo. Tuttavia, c’era nella teologia morale che si riproponeva il problema della coscienza, una specie di abbassamento del sistema immunitario nei confronti della modernità (così intesa), di buona disponibilità se non a un matrimonio, quanto meno ad una pacifica convivenza. In che cosa consiste questa «buona disponibilità»?

Certamente la teologia, come dicevo, non poteva procedere verso un’identificazione della legge morale colla coscienza, elevando il giudizio a norma suprema dell’agire, tuttavia, come si è già visto nel primo punto della nostra riflessione, questo era l’orientamento fondamentale. Delle quattro soluzioni offerte al problema di H.V., le prime tre concludevano tutte nell’affermazione della coscienza come istanza normativa ultima. Se da una parte quindi si continua ad affermare l’esistenza di una legge morale «oggettiva», dall’altra tuttavia il fondamento ultimo dell’obbligo è collocato nel giudizio di coscienza. In questo senso, si ha una pericolosa e ambigua convivenza col principio moderno di coscienza. Perché pericolosa? perché ambigua? Rispondendo a queste due domande avremo il ritratto che della coscienza morale ha dipinto la teologia morale contemporanea.

È una convivenza pericolosa. Esistono domande così radicali da costringere il nostro pensiero a dare solo una risposta (che, ovviamente, può essere vera o falsa); da impedire al nostro pensiero di essere neutrale o di sospendere la risposta, essendo neutralità o sospensione già una risposta; da escludere un tertium fra l’aut-aut delle sole due risposte possibili. Ora, il principio moderno di coscienza è una delle due risposte possibili alla domanda metafisica essenziale sul significato dell’essere, rispetto ad una coscienza non creatrice come quella umana. È la risposta che identifica l’essere con la coscienza dell’essere. Cercare un compromesso con questa soluzione nel senso di accettare in parte questa risposta e in parte respingerla, è un’impossibilità teoretica. Chi si mette sulla strada di questo «compromesso» finisce, e in questo sta il pericolo, coll’accettare completamente quella risposta. E, infatti, la malattia mortale di cui soffre la dottrina teologica contemporanea è il soggettivismo, cioè l’affermazione del giudizio della coscienza come momento costitutivo della moralità come tale.

Questa situazione teoretica in cui versa la dottrina della coscienza ha fatto entrare in essa una profonda ambiguità. È il secondo aspetto sul quale vorrei ora attirare la vostra attenzione. Col termine «ambiguità» intendo connotare quella proprietà per cui una proposizione può avere due significati contrari. Facciamo un esempio molto semplice.

Il Magistero della Chiesa ha sempre insegnato che chi agisce contro il giudizio certo della propria coscienza, pecca sempre, anche se il giudizio è falso. Ma lo stesso Magistero insegna che occorre distinguere accuratamente l’imputabilità di un atto al soggetto agente dalla qualità morale dell’atto stesso: un atto ingiusto da me compiuto può non essermi imputato, senza che per questo l’atto da ingiusto diventi giusto. L’imputabilità, infatti, è fondata sulla modalità con cui l’atto è causato dal soggetto; la qualità morale sull’apporto dell’atto colla natura della persona. Posso esprimere questa verità dicendo che, alla fine, è il giudizio di coscienza che decide della moralità dell’atto, che costituisce la mediazione decisiva per la persona che agisce? Certamente queste formulazioni, e altre simili, possono esprimere quanto abbiamo appena esposto. Tuttavia, in un contesto come quello creato dal principio fondamentale della modernità, non si tratta più di distinguere moralità e imputabilità, dal momento che alla luce di quel principio questa distinzione non ha più senso.

È un esempio: ne potrei fare molti altri. Ora l’ambiguità è una grave malattia nella comunicazione umana, perché può obiettivamente ingannare l’altro. D. von Hildebrandt scrisse un libro intitolato: Il cavallo di Troia nella città di Dio. È la situazione in cui oggi versa la dottrina della coscienza morale, in larga parte. È una specie di cavallo di Troia attraverso cui è penetrata una visione soggettivistica dell’esistenza cristiana.

Di fronte a questa situazione, non manca chi ritiene che si debba semplicemente ri-affermare la dottrina post-tridentina. Il problema cioè è quello di ristabilire una obbedienza alla legge morale, ridando a questa quel primato nei confronti della coscienza, che la può salvare dal deserto del soggettivismo. Ma, forse, in questo modo siamo già entrati nel terzo e ultimo punto della nostra riflessione. Credo, quindi, che sia utile fare una breve sintesi di questo secondo punto.

La domanda era la seguente: quale è la dottrina della coscienza morale nella teologia morale contemporanea, nella sua essenza? Abbiamo costruito la risposta nel seguente modo.

- La dottrina della coscienza dipende dal modo con cui si risolve il problema del problema fra essere obbligati e sapersi obbligati.

- La teologia morale riceve questo problema nella formulazione che esso riceve in una visione legalista (che è quella di fondo nella teologia morale contemporanea), cioè il rapporto fra legge morale e coscienza.

- La modernità si incentra tutta e si concentra nel principio che l’essere è la coscienza dell’essere e che l’essere obbligato coincide con il riconoscersi obbligato.

- La teologia morale convive con questo principio giungendo ad elevare il giudizio di coscienza a principio costitutivo dell’essere obbligati.

E in questa «elevazione» della coscienza a norma ultima dell’agire sta l’es- senza della dottrina teologica contemporanea più largamente diffusa.

 

3. Conseguenze pratiche della dottrina

 

In questo ultimo punto della nostra riflessione cercherò di individuare le principali conseguenze di questa dottrina nella vita della Chiesa e dei fedeli. In questo modo ci sarà poi più facile capire quale è la nostra responsabilità di pastori nella situazione attuale.

La prima, la più grave e quella sulla quale dobbiamo meditare più profondamente è lo sradicamento del singolo dalla Chiesa. Si tratta di uno dei punti centrali di tutta la nostra riflessione. Vorrei, dunque, fermarmi più a lungo su questa situazione.

Leggendo i Padri della Chiesa e i grandi maestri del pensiero cristiano una delle cose che mi colpisce più profondamente è la coscienza di una certa identità fra il «singolo» e la Chiesa. Mi limito solo a due esempi.

Nelle Omelie sul Cantico del Cantici (1, 7), Origene arriva a dire «io, La Chiesa» e tutta la pagina è basata su questa misteriosa identificazione fra il soggetto, la persona del credente e la Chiesa: la Chiesa è nel credente ed il credente è nella Chiesa. E quindi nel Commento al Cantico dei Cantici (3; PG 13, 159B) può scrivere: «la sposa, cioè la chiesa o l’anima che tende verso la perfezione». Si noti: «la chiesa o l’anima». Ed è ben noto che questa mistica identificazione ha costituito il principio ermeneutico fondamentale della Sacra Scrittura: tutta la Scrittura parla di Cristo, cioè della Chiesa cioè di ogni credente.

Lo ritroviamo anche nel Medioevo. Basti un esempio. Tutto il Commento al Cantico di san Bernardo si regge su questa mistica identificazione. «Quae est sponsa», si chiede, «et quis est sponsus?» e risponde: «hic Deus noster est, et illa, si audeo dicere, nos sumus» (LXVIII, 1). Ma, forse, la pagina nella quale questa esperienza è espressa in modo sublime è nel Sermone 12, 11. «Quod etsi nemo nostrum sibi arrogare praesumat, ut animam suam quis audeat sponsam Domini appellare, quoniam tamen de Ecclesia sumus, quae merito hoc nomine et re nominis gloriatur, non immerito gloriae huius participium usurpamus. Quod enim simul omnes plene integreque possidemus, hoc singuli sine contradictione participamus». E termina con questa stupenda preghiera: «Gratias tibi, Domine Jesu, qui nos carissimae Ecclesiae tuae aggregare dignatus es, non solum ut fideles essemus, sed ut etiam tibi vice sponsae in amplexos iucundos, castos, aeternosque copularemur».

La pagina di Bernardo è assai utile per proseguire la nostra riflessione. Egli dice: «quod simul omnes plene integreque possidemus, hoc singuli sine contradictione participamus». È così spiegata la nostra identificazione colla Chiesa. Questa è pienezza e integrità (cioè è «cattolica»), il singolo partecipa di questa pienezza e integrità: il singolo è tutta la Chiesa, anche se non totalmente. La Chiesa diviene la dimora, cioè l’ethos del credente.

Questo incontro mirabile del singolo colla Chiesa comincia a divenire problematico quando la Chiesa è conosciuta come una realtà estrinseca al singolo: l’ecclesialità non è una dimensione costitutiva del singolo, ma solo una disposizione della volontà di Dio, che non ha un fondamento nell’essere stesso della persona. Si crea una separazione ontologica che si cerca di superare volontaristicamente (l’obbedienza alla Chiesa).

La situazione della coscienza morale nella Chiesa è precisamente questa, nella sua sostanza. Né poteva essere diversamente. Infatti, se la legge morale si pone nei confronti della coscienza nel modo che abbiamo detto varie volte precedentemente, se la Chiesa insegna questa legge morale, il rapporto coscienza-Chiesa è identico al rapporto coscienza-legge morale. Non c’è una connessione ontologica fra coscienza e legge; non c’è una connessione ontologica fra coscienza e Chiesa. È compito della coscienza determinare se e quanto mi obbliga la legge morale; è compito della coscienza determinare se e quanto la Chiesa possa entrare nella coscienza.

Se confrontiamo questa situazione con quella descritta da Origene e da Bernardo, possiamo capire che cosa significa «sradicamento della coscienza del singolo dalla Chiesa».

Si ha una prova continua di questo sradicamento in un dibattito che sembra non avere mai fine: il rapporto fra Magistero morale della Chiesa e coscienza del singolo. Questo dibattito è stato sempre impostato su base conflittuale, come se il conflitto appartenesse alla fisiologia e non alla patologia del rapporto. Ritornerò più avanti sui punti dottrinali di questo problema.

La cosa più singolare è che ormai si finisce spesso il discorso sul Magistero, dicendo: «questo è ciò che insegna il Magistero, ma poi hai la tua coscienza». Questo modo di dire è la dichiarazione aperta del fallimento di un rapporto.

Così dicendo, infatti, o si dice una cosa ovvia o si trasmette un messaggio in se stesso contraddittorio. Infatti, da una parte si afferma un’autorità magisteriale, ma dall’altra si afferma che quest’autorità deve essere sottoposta al giudizio della coscienza: il che è come dire che non ha autorità. Ci sono, certo, problemi dottrinali che cercheremo di affrontare. Ma il vero problema del rapporto Magistero-coscienza è costituito dal fatto che questo rapporto si pone in una soggettività che ha perso la sua identificazione colla Chiesa, che è sradicata dalla Chiesa. Come è facile vedere, questa conseguenza di una certa dottrina della coscienza è la più grave.

 

Vorrei ora richiamare la vostra attenzione su una seconda conseguenza. La suddetta dottrina della coscienza ha compromesso gravemente la proposta pedagogica e l’impegno educativo della Chiesa, sul piano morale.

Molte sono le ragioni di questa compromissione. In primo luogo, l’opera educativa è tendenzialmente orientata a ridursi a istruzione morale. La visione che pone al centro dell’esperienza etica il concetto di obbligazione, costituita dalla legge, dà origine necessariamente a una proposta educativa che ha come suo principale scopo far conoscere ciò a cui si è obbligati e fare interiorizzare le norme morali nella coscienza del singolo. In questo senso, ho parlato di una tendenziale riduzione dell’educazione morale a istruzione morale.

Ma si ha un’insidia ancora più profonda all’opera educativa della Chiesa. Abbiamo già parlato lungamente sul rapporto coscienza-legge morale e più volte abbiamo detto che l’ultima parola spetta alla coscienza del singolo. In un senso molto preciso: si tratta di un giudizio sul quale non è possibile pronunciare un giudizio di verità universalmente valido. Da queste premesse di dottrina etica generale deriva il rischio di ridurre la persona a un soggetto che prende decisioni razionali di compiere azioni giuste, sulla base di regole e principi generali. Quale è, allora, la conseguenza pedagogica di questa visione? quella di ritenere che il fine dell’educazione morale sia quello di formare la persona al corretto ragionamento morale, di sviluppare in essa una competenza di ragionamento che sappia risolvere il proprio caso particolare alla luce dei principi generali. Ma per non dare l’impressione che si stia parlando di teorie che non hanno nessun aggancio colla realtà, ancora una volta esemplifichiamo col problema H.V.

Se facciamo attenzione a come viene affrontato questo problema dal punto di vista educativo, leggendo i documenti che al riguardo sono stati pubblicati, vediamo che la preoccupazione fondamentale è costituita dal «caso difficile»: esso è considerato il caso normale. Individuato così il nucleo del problema, si indicano le regole generali che devono guidare la soluzione del «caso difficile». Le regole generali sono le regole, applicando le quali, il fedele giunge al giudizio: «sono obbligato/non sono obbligato alla norma di H.V.». Ecco il modello pedagogico è esattamente quello appena descritto. La conferma la troviamo nel fatto che in questi documenti si conserva un silenzio pressoché totale sul tema della virtù della castità: questo tema, infatti, implica una teoria etica e pedagogica molto diversa, come vedremo.

Ritorniamo ora alla riflessione generale. Perché questo modo di concepire l’opera educativa costituisce una grave insidia alla pedagogia cristiana? Per due ragioni, almeno, molto serie. In primo luogo perché questa pedagogia, figlia legittima della dottrina etica sopra esposta, mette fra parentesi la reale soggettività cristiana: il suo radicamento nella comunità cristiana, nella tradizione, nella storia. In secondo luogo, poi, ma non da meno, quella pedagogia rischia continuamente di cadere, in una cultura relativistica come la nostra, in una prospettiva puramente formalistica. Cioè: si educa all’acquisizione di «modelli di ragionamento», più che alla scoperta e assimilazione di contenuti veri. È una pedagogia che tende a essere puramente formale e procedurale.

Non procedo oltre nell’individuazione delle conseguenze della dottrina della coscienza morale che abbiamo esposta. Le due conseguenze che ho indicato, sradicamento del singolo dalla Chiesa e proposta pedagogica riduttiva, sono fra loro strettamente connesse. Esse nascono, alla fine, da una visione sostanzialmente incompleta del soggetto, della persona del credente. Ma, in questo modo, sono arrivato ad una conclusione importante.

Il profondo malessere, a dir poco, che si prova di fronte a tutto il modo con cui la teologia morale contemporanea ha affrontato il problema della coscienza morale, nasce dal fatto che in questo approccio è il concreto soggetto o persona credente che non è considerata. È questo il nodo centrale: la persona umana che vive in Cristo. È la verità su essa che deve essere integralmente affermata e difesa. E a questo punto scopriamo il significato ultimo del nostro servizio pastorale che si presenta «davanti ad ogni coscienza, al cospetto di Dio»: aiutare la persona a vedere se stessa «al cospetto di Dio», nella luce di Dio.

È necessario, dunque, riflettere profondamente sulla soggettività cristiana. Per «soggettività cristiana» intendo semplicemente la persona in quanto chiamata a seguire Cristo mediante le sue scelte quotidiane. Dunque: la persona che sceglie di seguire Cristo, nella certezza che questa è la via che porta alla vita eterna, oggetto supremo del suo desiderio. Solo dopo aver riflettuto seriamente su questa realtà possiamo affrontare il problema in modo corretto.

 

4. La soggettività cristiana

 

L’importanza di questa riflessione è duplice. Con questa considerazione vogliamo uscire dall’impostazione etica di cui ho parlato sopra, abbandonare ogni forma di legalismo. Ma, dall’altra parte, solo immergendo profondamente noi stessi nel vissuto della soggettività cristiana possiamo sperare di prendere la strada giusta per risolvere il problema che ci siamo posti.

Partiamo dalla descrizione di un’esperienza molto semplice. A tutti noi capita… di agire contro coscienza, perché a tutti noi capita… di peccare. Cioè: ciascuno di noi sa per esperienza che la nostra libertà può scegliere contro il dettame della coscienza. La coscienza dice: «questo atto che hai progettato di compiere è ingiusto», ma la nostra libertà sceglie di compiere questo atto contro il giudizio della coscienza. Facciamo una breve, una attenta analisi di questa esperienza.

La conoscenza che io raggiungo mediante il giudizio della coscienza non è sufficiente a dirigere le mie scelte: non possiede una tale forza. D’altra parte, nessuno sceglie di fare il male perché è male: è impossibile che la nostra volontà si muova verso il male precisamente perché male. Come l’orecchio non può udire il silenzio, come l’occhio non può vedere le tenebre, così la volontà non può volere il male. Quindi fra il giudizio della coscienza e la scelta della volontà contro il giudizio della coscienza è intervenuto, si è frapposto un «giudizio» che ha giudicato essere bene per me fare ciò che la coscienza dice essere male. È questo giudizio che ha diretto la mia scelta. Per questo, da ora in poi lo chiameremo: «giudizio di scelta» (judicium electionis). Abbiamo così scoperto che esistono, possono esistere due giudizi pratici: quello che chiamiamo «giudizio di coscienza», quello che chiamiamo «giudizio di scelta».

Lasciamo per il momento il primo e concentriamo tutta la nostra attenzione sul secondo, al fine di scoprire la sua intima natura. Che cosa «spinge» la ragione pratica a contraddire se stessa (giudizio di coscienza) e a formulare quel giudizio? Se, ancora, guardiamo con attenta profondità dentro di noi, vediamo che la ragione pratica è «spinta» a quel giudizio perché la persona sente una intima affezione verso quella bontà che la coscienza, al contrario, ha giudicato non essere vera. «Questo atto è intimamente ingiusto, perché è un adulterio», dice la coscienza. Mediante questo giudizio, la persona conosce la bontà, la bellezza della fedeltà coniugale e, per contrarium, la malizia, la turpitudine di quell’atto (adulterio) che ha progettato di compiere. Tuttavia, la persona sente una intima affezione non verso la bontà, la bellezza della fedeltà coniugale, ma verso il bene implicato nella congiunzione sessuale. È a causa di questa affezione che essa (persona) dice: «per me è bene unirmi a questa donna», cioè elabora il suo «giudizio di scelta».

Volendo descrivere la nascita del «giudizio di scelta» in un modo più preciso, più tecnico, possiamo dire così. Ogni giudizio razionale è la conclusione di almeno due premesse, poiché questo è il normale modo umano di pensare. Mentre il giudizio di coscienza è la conclusione di due premesse che sono opera della ragione, il giudizio di scelta è la conclusione di due premesse che non sono atti razionali, ma sono i «movimenti appetitivi» dell’uomo. Il ragionamento che conclude nel giudizio di coscienza è il seguente: l’adulterio è un atto ingiusto (M); ma questo atto che ho progettato di compiere è un adulterio (m); quindi «questo atto che ho progettato di compiere è un atto ingiusto» (= giudizio di coscienza). Il ragionamento che conclude nel giudizio di scelta è il seguente: voglio compiere ciò che mi procura piacere (M); questo atto è piacevole (m); quindi questo atto è bene per me (= giudizio di scelta). È facile ora vedere come il primo tipo di ragionamento avviene entro i confini della ragione pratica: esso mi fa conoscere la verità su ciò che è bene/ciò che è male, nulla di più. Il secondo tipo di ragionamento non avviene solo dentro ai confini della ragione, ma anche nell’affettività: esso mi fa conoscere-scegliere ciò che è bene per me (che può essere in realtà male). Aristotele disse molto finemente: è un giudizio che sceglie e una scelta che giudica. E san Tommaso dice che nel giudizio di scelta si ha l’ingresso del giudizio di coscienza nell’affettività umana.

Facciamo ora un passo avanti verso il centro della soggettività cristiana, riflettendo precisamente sulle due premesse del giudizio di scelta.

Nell’esempio fatto sopra, si può constatare che due sono i movimenti spirituali implicati nel giudizio di scelta: uno di carattere generale (voglio compiere ciò che mi procura piacere) e uno di carattere più particolare (questo atto è piacevole). Meditiamo attentamente su questi due strati della nostra vita spirituale e sul loro reciproco rapporto.

Questi due movimenti o atti della nostra libertà hanno un nome preciso nella grande tradizione etica della Chiesa: il primo è chiamato intenzione, il secondo scelta. Useremo anche noi, d’ora in poi, questo vocabolario. L’intenzione connota il movimento della nostra persona verso un genere di beni. Mi spiego con un semplice esempio. Bere alcool non è la stessa cosa che commettere un adulterio, tuttavia i due atti hanno qualcosa in comune: di essere beni piacevoli. Essi, cioè, appartengono allo stesso genere di bontà. La figura di Don Giovanni o la vita allo «stadio estetico» di cui parla Kierkegaard in pagine famose sono l’espressione di un’esistenza che è intenzionata, cioè orientata verso questo genere di beni. Ho fatto un esempio negativo, ma ovviamente la persona si orienta, è intenzionata verso i vari beni nei quali essa trova la sua realizzazione come persona. Per il momento, questo è sufficiente per quanto riguarda l’intenzione.

Ma è proprio dell’intenzione spingere la volontà a cercare quel bene a cui orienta la persona, a realizzare quel bene verso cui l’intenzione muove la persona. L’intenzione muove alla scelta: a compiere cioè quell’atto che realizza quell’intenzione. Chi segue Cristo è intenzionato a vivere nella povertà, nell’umiltà. Ma come realizzare questa intenzione, questo orientamento? È la scelta che realizza questa intenzione: la scelta che la persona compie concretamente. E questa scelta di povertà, di umiltà implica un giudizio (di scelta) molto circostanziato: seguire Cristo povero non esige le stesse scelte per il monaco, per il vescovo, per la persona sposata e cambiano anche le circostanze.

Fermiamoci ancora un momento sopra questa dialettica di intenzione- scelta nella soggettività umana: è attraverso essa, infatti, che si apre la porta per entrare, fra poco, nel mistero più profondo della persona. Il rapporto fra intenzione e scelte, il passaggio dall’intenzione alla scelta è profondamente diverso dal rapporto fra legge morale e coscienza, dal passaggio dalla legge morale alla coscienza. E questa diversità deve essere vista chiaramente, altrimenti ci sfugge il mistero della soggettività cristiana come è stato giustamente richiamato da G. Abbà [In Felicità, vita buona e virtù. Saggio di filosofia morale, ed. LAS, Roma 1989, pp. 155-168]. Il rapporto fra legge morale e coscienza è rapporto fra universale e particolare: si tratta cioè di vedere se questo atto è contemplato o non dalla legge universale, se è assumibile o non nella norma universale (ricordate le tre soluzioni al problema di H.V.). Il rapporto fra intenzione e scelta è rapporto fra un bene in generale voluto e la sua concretizzazione: non si tratta semplicemente e solamente di ricondurre un individuo alla sua specie o di riportare un determinato caso nella norma generale. Si ha qui, nel passaggio dall’intenzione alla scelta, un evento spirituale molto più profondo. La persona è intenzionata a seguire Cristo povero. Le circostanze da cui dipende che si possa qualificare una scelta e un’azione, scelta di povertà ed azione povera, sono infinite e sempre mutevoli. Le scelte di povertà non sono semplicemente casi distinti alle quali si può applicare il concetto generale di povertà. Sono invece esemplificazioni diverse tra loro, sono diverse l’una dall’altra, e l’una non è mai ripetizione dell’altra poiché ciascuna realizza in modo originale l’intenzione di seguire Cristo povero. La povertà di Francesco non è la povertà di Ignazio.

Due sono le conseguenze sulle quali, fra le tante, vorrei attirare la vostra attenzione, prima di procedere oltre in questo schizzo della soggettività cristiana. Tenuto conto di questo rapporto intenzione-scelta, la prima conseguenza è il rifiuto totale della teoria dell’opzione fondamentale, come è stata formulata in questi anni. Essa è teoreticamente insostenibile da molti punti di vista, ma soprattutto perché spezza questa dialettica fra intenzione e scelta, dialettica che è essenziale nella soggettività umana e cristiana: la terza soluzione data al problema di H.V. è errata precisamente per questo. Nell’uomo l’intenzione non può realizzarsi che mediante e nella scelta. La seconda conseguenza è ancora più importante. La possiamo enunciare così: nell’esistenza umana e cristiana ciò che è decisivo non è il giudizio di coscienza, ma il giudizio di scelta. Mi spiego. Non si diventa cristiani pensando di diventarlo, così come non si esiste pensando di esistere. Non divento molto cristiano, pensando molto il Cristianesimo: il pensare umano non crea l’esistenza. C’è un solo modo di diventare cristiani: scegliere-decidere di diventare cristiani. Ora il giudizio di coscienza è solo potenzialmente pratico, mentre il giudizio di scelta è attualmente pratico, è l’esercizio della ragione nell’atto stesso della scelta: usus rationis in particolari eligibili, dice S. Tommaso (1, 2, q. 58, 2c). È con vera finezza spirituale che S. Tommaso insegna che la conoscenza morale circostanziata, come quella che raggiungo mediante il giudizio della coscienza, «non sufficit ad recte ratiocinandum circa particularia» (1, 2, q. 58, 5c). L’insufficienza consiste nel fatto che la conoscenza della coscienza può essere trascurata dalla persona nel momento della scelta; può essere una conoscenza che non riguarda lui come questo individuo, con questi desideri, che deve agire in questa situazione. Questa conoscenza se non esprime ciò che l’individuo sta attualmente desiderando, resta inoperante. Tutto questo dovrà essere ripreso, quando parleremo della ricostruzione della soggettività cristiana.

Riprendiamo ora la nostra descrizione della soggettività cristiana. Dunque: intenzione-scelte sono i due poli che generano l’atto della persona, l’atto in cui la persona realizza il suo essere persona. Dobbiamo ora chiederci: come sorgono in noi le intenzioni? cioè queste disposizioni permanenti che rendono la persona capace di scelte ottime? La domanda equivale alla domanda su come sorgono in noi le virtù. Infatti, noi qui intendiamo intenzione nel senso forte del termine, come permanenti disposizioni che rendono la persona capace di scelte ottime: di scelte, cioè, che realizzano pienamente l’essere della persona come tale.

La domanda può avere un significato psicologico (attraverso quali processi la persona diventa virtuosa), un significato pedagogico (come si educa la persona alla virtù), un significato antropologico-teologico: in che cosa consiste l’essere virtuoso? Noi ci limitiamo all’ultimo significato: esso finalmente ci introduce nel centro della soggettività cristiana, della persona in quanto soggetto che agisce. Persona e atto.

In modo sintetico, ma completo, essere virtuoso significa essere autori in senso interamente vero del proprio atto: essere capaci di agire. La persona virtuosa infatti agisce in modo tale che l’atto le appartiene completamente. Ma facciamo un’analisi più attenta, partendo non da una esposizione teorica, ma da una esemplificazione pratica.

Chi segue Cristo povero? non certamente colui che fa qualche scelta di povertà estemporaneamente, ma chi realizza giorno dopo giorno uno stile di vita povera. Ma questo non è ancora sufficiente: è l’aspetto materiale della cosa, direbbero gli scolastici. È la realizzazione di uno stile di vita povera precisamente in ragione del fatto che così si diventa discepoli di Cristo, per la ragione che la povertà ci mette nella sequela di Cristo. Se ora penetriamo profondamente in questa esperienza del «nudus sequi Christum nudum» vediamo subito: c’è nel discepolo una disposizione stabile ed uniforme, che ha introdotto nei principi dai quali scaturisce l’azione libera, una determinazione qualitativa tale che essi sono capaci di realizzare un’esistenza veramente buona, conforme alla regola della ragione illuminata dalla fede.

Più analiticamente. Si istituisce una sintonia profonda fra la persona ed il bene (la povertà di Cristo): le intenzioni sono fermamente orientate. Conseguentemente la persona è disposta a cercare e a scegliere le azioni che concretizzano lo scopo virtuoso (seguire Cristo povero) in modo appropriato alle circostanze ed a sceglierle proprio per questa ragione. E così, queste azioni non nascono per caso. Pur sempre variabili, pur dovendo essere circostanziate, esse però sono scelte sempre per la stessa ragione, perché concretizzano quell’intenzione (seguire Cristo povero). In altre parole: la persona dà origine ad una storia, poiché la sua esistenza cessa di essere una trama disordinata, ma è la realizzazione di un progetto. È una esistenza nel senso forte del termine: e un’esistenza causata dalle sue scelte libere. In questo consiste l’essere virtuoso.

Prima di procedere, ripercorriamo brevemente il cammino percorso, nella nostra descrizione della soggettività cristiana. Abbiamo cominciato col distinguere il giudizio di coscienza dal giudizio di scelta. Ci siamo poi concentrati sul giudizio di scelta ed abbiamo visto che esso affonda le sue radici nelle intenzioni: la dialettica intenzioni-scelte è una dimensione costitutiva della soggettività cristiana. Riflettendo sulle intenzioni abbiamo visto che esse sono «confermate» positivamente o negativamente dalle virtù o dai vizi. La virtù costituisce un’altra dimensione essenziale della soggettività cristiana.Quale è l’origine di questo orientarsi stabilmente verso i beni (= intenzioni virtuose), orientamento che dà poi origine alle scelte? Esiste un’origine, diciamo, naturale, costituita cioè dalla struttura stessa della persona, più precisamente della volontà. È il desiderio di beatitudine che abita nel cuore umano, il desiderio cioè di raggiungere la pienezza dell’essere (adpetitus naturalis beatitudinis). Ma questa pienezza di essere in che cosa consiste? È la ragione pratica dell’uomo che deve rispondere e la libertà volere: si costituisce un progetto esistenziale di beatitudine. San Tommaso scrive che si ha una deliberazione riguardante se stessi in ordine al fine ultimo, cioè la beatitudine. Il testo tomista, come sempre, nella sua scarna concisione racchiude una profonda intuizione della vita spirituale.

Si tratta di una «deliberazione» cioè di un atto che è il risultato della cooperazione di ragione e volontà. Della ragione, che presenta le varie e possibili realizzazioni della vita beata e le giudica; della volontà che sceglie una di queste. È questo l’atto del deliberare. Ma si delibera su se stessi, cioè sulle varie possibilità di esistenza, non come possibilità logiche, ma come possibilità che sono reali: si delibera su come esistere. Ma in rapporto a che cosa? Si può infatti deliberare su come esistere in rapporto al fatto, per esempio, che si è deciso di esercitare la professione medica oppure su come esistere in rapporto al fatto che si è deciso di non lavorare più. E così via. Ma si delibera su se stessi «in ordine al suo fine ultimo». Cioè: in rapporto al fatto che si desidera una beatitudine vera, in rapporto al fatto che si intende dare una risposta a questo desiderio. Per questo, ho parlato di «progetto esistenziale di beatitudine». È questa progettazione la radice immediata di quell’intenzionarsi, di quell’orientarsi verso i vari beni che realizzano il progetto esistenziale di beatitudine. Le varie intenzioni sono confermate poi dalle virtù, che possono generare le scelte giuste: cioè le scelte mediante le quali l’uomo realizza i vari beni e così cammina verso la beatitudine.

Che cosa avviene nella soggettività cristiana? È molto ben descritto da san Paolo in Fil. 3, 3-10. Paolo viveva in un progetto esistenziale che era fortemente radicato nella tradizione del suo popolo. Il progetto è indicato «una mia giustizia derivante dalla legge». Ma quando egli incontra Cristo, tutto il suo progetto esistenziale è cambiato: guadagnare Cristo, essere trovato in Lui, conoscere la potenza della sua Risurrezione. E tutto lo stile della sua vita cambia così come le scelte concrete che costituiscono questo stile.

Ecco, ora possiamo ritenere di avere concluso la nostra breve descrizione della soggettività cristiana. Ripercorriamo il cammino, ma questa volta partendo dalla sorgente ultima. Nell’incontro con Cristo, la persona elabora il suo progetto esistenziale. Questa elaborazione ispira le sue intenzioni muovendo la persona verso quei beni nei quali quel progetto può realizzarsi: intenzioni confermate dalle virtù. Progetto ed intenzioni virtuose prendono corpo nelle scelte concrete, nelle quali solamente progetto ed intenzioni si realizzano e si concretizzano.

 

5. Dentro la soggettività cristiana

 

Solo ora possiamo cominciare a parlare di (autonomia della) coscienza, di legge morale, di Magistero della Chiesa. Cioè, dopo aver descritto la soggettività cristiana.

Infatti, è dentro essa che dobbiamo ora vedere coscienza e legge morale; è al servizio di essa che si pone il Magistero della Chiesa. Dobbiamo cioè individuare il luogo preciso in cui si collocano legge morale e coscienza ed il Magistero. Sarà quindi una riflessione ancora analitica, in cui consideriamo le tre suddette realtà in se stesse. Nel punto seguente della nostra riflessione vedremo quali sono i loro reciproci rapporti.

Riflettendo sulla soggettività cristiana, penso che ci siamo resi conto dell’importanza centrale della scelta e quindi del giudizio di scelta. In realtà la scelta è come il punto di tangente sul quale poggia tutto il volume della sfera posta sul piano. La Tradizione etica della Chiesa ha sempre sottolineato questa importanza decisiva. È la scelta che ci fa esistere in un modo o nell’altro; è nella scelta che ciascuno di noi diventa padre e madre di noi stessi.

Riflettendo sul rapporto intenzioni virtuose-scelta si deve evitare di cadere in un errore oggi abbastanza presente nella teologia morale. È l’errore di chi pensa che il passaggio dalle intenzioni virtuose (o attitudini) e scelta avviene spontaneamente (era già l’idea di Lutero). La realtà è ben diversa. La virtù è una determinazione della volontà o delle passioni che sta a disposizione del volere, di cui il soggetto può fare uso quando vuole. Perciò la virtù non solo non diminuisce, ma accresce la possibilità di scelta, in quanto mette a disposizione della persona una capacità di agire che diversamente la persona non possiederebbe. Ed è proprio su questo passaggio dalle intenzioni alle scelte che ora dobbiamo concentrare la nostra attenzione.

Che cosa è che può far scegliere la volontà? Si noti bene: ho detto «può far scegliere», non ho detto «fa scegliere». La scelta infatti è atto prodotto esclusivamente dalla volontà. Nessuna altra facoltà umana esercita una casualità efficiente. È il fatto che la persona intra-vede nell’atto possibile una bontà, una preziosità tale che lo rende degno di essere voluto: senza questa valutazione non d può essere scelta in senso vero e proprio. Infatti, il fatto che un bene si mostri alla volontà, rende possibile che questa spiri da sé un atto di amore (= scelta) di quel bene. Ma si faccia bene attenzione. Il bene deve mostrarsi come tale, nella sua forma di bene. La volontà può scegliere quel bene precisamente in quanto e perché è bene. Si tratta cioè di una vera e propria auto-determinazione, di un vero e proprio muovere se stesso. È più che la semplice consapevolezza: posso rendermi consapevole della mia attività respiratoria, ma non per questo l’atto del respirare è una scelta. È una necessità naturale che tale rimane, anche se ne divento consapevole.

Grazie a questa valutazione, a questa visione della bontà inerente all’atto che posso compiere, la persona non segue semplicemente inclinazioni e desideri dati, che di fatto possono anche essere buoni, ma è in grado di spirare da sé, di produrre in sé e da sé un movimento del tutto volontario che va a un bene operabile, in quanto è rappresentato dalla ragione pratica: senza la mediazione di questo atto valutativo non si ha passaggio dalle intenzioni alle scelte: al massimo d può essere un comportamento semplicemente spontaneo. Ma la spontaneità non è libertà.

Orbene, questa valutazione, questo giudizio valutativo che rende possibile la scelta è dò che chiamiamo giudizio di coscienza o coscienza morale. Essa si pone, nell’ambito della soggettività umana e cristiana, alle spalle, per così dire, dell’atto della scelta; essa sta fra le intenzioni (virtù) e la scelta. Se abbiamo capito bene questa collocazione, ora possiamo capire la natura intima di questo giudizio che è la coscienza ed in quale senso preciso si può e si deve parlare di autonomia di coscienza, ed in quale senso non si può e non si deve parlare di autonomia di coscienza.

Dunque, prima di tutto la natura di questo giudizio. Si tratta di un atto della nostra ragione pratica, di un giudizio mediante il quale la persona conosce la qualità morale dell’atto che può compiere, che sta per compiere. Ma per capire bene la natura di questo giudizio e della conoscenza che raggiungiamo per mezzo di esso, è necessario ricordare quella distinzione del giudizio di scelta che abbiamo fatto. Il giudizio della coscienza è un giudizio per sé puramente razionale. Esso dice: «questa è l’azione che devo fare/non devo fare in questa situazione». Si tratta di una valutazione che riguarda l’azione già circostanziata, ma considerata ancora in se stessa: cioè indipendentemente dai desideri e dalle intenzioni dell’individuo. È per questo che questo giudizio non è immediatamente pratico, come dimostra il fatto che esso può essere contraddetto dalla scelta libera. E, infatti, la scelta scaturisce dalla volontà, dai desideri e dalle intenzioni della persona.

Il giudizio della coscienza, pur essendo un giudizio particolare, ha in sé una esigenza di universalità. Esso cioè ha una sua giustificazione che non si fonda su riferimenti così personali da essere ineffabili ed incomunicabili. Nel giudizio di coscienza la persona dice al contempo: «questa è l’azione che devo compiere» e «qualunque persona al mio posto dovrebbe compiere questa azione». Donde deriva alla coscienza questa capacità di essere giudizio particolare/universalizzabile? Scopriamo qui un’altra importante dimensione del giudizio di coscienza.

La ragione elabora i suoi giudizi secondo leggi universali e necessarie. La coscienza è un giudizio della ragione che ha per oggetto un atto circostanziato al massimo, ma giudicato alla luce della verità della persona, della dignità della persona. Quando la coscienza dice «questa è l’azione che devo compiere», lo dice perché ha visto che in questa azione la persona umana come tale si afferma, si realizza. Ho detto «la persona umana», non “il mio io». La coscienza non giudica secondo ciò che mi piace, ciò che mi è utile: in riferimento, direbbe san Bernardo al seguito di Agostino, a ciò che «tamquam privato sui ipsius amore desiderat anima» (De diversis, Sermo 8, 9). In questo sta la grandezza (ma anche la miseria) della coscienza. In essa l’uomo diventa consapevole della sua verità di persona, della bontà propria del suo essere personale, della singolare preziosità della sua persona, ma in quanto quella verità esige ora di essere affermata e non negata; in quanto quella bontà esige ora di essere amata e non odiata; in quanto quella preziosità esige ora di essere salvata e non perduta. Affermazione, amore, salvezza che la coscienza vede realizzarsi nell’atto, il quale pertanto viene giudicato doveroso. È nella coscienza che l’uomo resta come «imprigionato» dentro la sua verità, nel senso che ora è costretto a... essere libero, a fare la sua scelta. Cioè: la coscienza libera in questo senso l’uomo. Libera l’uomo perché lo sottopone alla verità: per questo siamo liberi – scrive S. Agostino – perché siamo sottoposti alla verità.

Ed è precisamente in questo profondo rapporto fra coscienza-verità-scelta che possiamo ora dire in che senso si può e si deve parlare di autonomia di coscienza.

Il senso primo, da cui derivano mi sembra tutti gli altri, è che l’uomo non può fare una scelta libera senza la mediazione del giudizio della sua coscienza: radix totius libertatis judicium rationis, scrive san Tommaso. Non può fare una scelta libera se non in quanto segue il giudizio della sua coscienza. In questo senso, allora, l’uomo deve sempre seguire il giudizio della sua coscienza, perché semplicemente deve agire umanamente cioè liberamente. Agire in coscienza e agire liberamente sono come la condizione ed il condizionato.

Di conseguenza, l’autonomia della coscienza significa che l’uomo nel suo valutare non deve lasciarsi guidare dalle passioni, dai suoi desideri, ma esclusivamente dal puro desiderio, dal disinteressato desiderio di sapere la verità sulla scelta, sull’atto che afferma il mio essere persona. Non da considerazione di utilità, di calcolo. Quando la persona comincia a sbirciare verso le conseguenze utili o dannose del suo atto ha già rinunciato all’autonomia della coscienza.

Ancora, autonomia della coscienza significa non accettare il criterio della maggioranza come criterio di verità su ciò che è bene o male, di seguire l’opinione dei più. La Familiaris consortio dice stupendamente: «Seguendo Cristo, la Chiesa cerca la verità, la quale non è sempre lo stesso che l’opinione della maggioranza. Essa ascolta la coscienza e non il potere e in questo modo difende i poveri» (5, 2). Giudicare liberi dal condizionamento delle opinioni alla moda; giudicare liberi dalle proprie passioni e dai propri interessi; giudicare solo nella sottomissione alla verità: questa è l’autonomia della coscienza.

E ora possiamo, per contrarium, dire in che senso non si può e non si deve parlare di autonomia di coscienza.

Anche qui si ha un senso originariamente errato di autonomia di coscienza. È l’errore che nasce dal ritenere identici il fatto di riconoscersi obbligati e il fatto di obbligare se stessi. Sulla base di questo errore, si intende autonomia di coscienza il fatto che il fondamento, la sorgente ultima che causa l’obbligazione è il giudizio di coscienza. Cioè: il giudizio di coscienza non è solo ciò mediante cui (principium quo) riconosco di essere obbligato a..., ma ciò che (principium quod) mi obbliga a... Autonomia di coscienza, quindi, significa che non esiste una verità, una bontà, una preziosità della persona che precede la coscienza e la illumina, ma che questa verità, bontà e preziosità è costituita nel e dal giudizio di coscienza.

Autonomia di coscienza, quindi, finisce (ha finito) col significare puramente e semplicemente libertà di agire: la confusione è qui semplicemente tragica! Poiché la coscienza non ha alcun punto di riferimento che le si imponga, ma è essa stessa che pone i propri criteri, essa è libera. E siamo al concetto di «libertà di coscienza», nel quale risiede una tremenda ambiguità. Libertà di coscienza che si capovolge in coscienza della propria libertà.

Infine, terzo significato errato, autonomia della coscienza significa che nessuna autorità può entrare nell’ambito proprio della coscienza: in questo ambito ciascuno è assolutamente autonomo. Ciò che l’autorità può e deve fare è costituire alcune regole di convivenza fra le varie libertà (ambito della giustizia), ma non può attribuirsi l’autorità, come fa il Magistero della Chiesa, di dettare norme di comportamento riguardanti la propria vita diciamo privata. È un attentato contro l’autonomia della coscienza, che va combattuto.

La realtà è che con questa esaltazione della autonomia e libertà della coscienza, avvenuta in un momento in cui si manipola l’uomo, si è organizzata una potente strategia di produzione del consenso, attraverso la manipolazione dell’opinione. Col richiamo alla coscienza si è distrutto la coscienza e la soggettività umana e cristiana. Ma siamo ormai arrivati al momento di parlare dell’altra realtà, la legge morale, sempre nel contesto della soggettività.

Parlando del giudizio di coscienza, abbiamo visto come esso sorga dal confronto fra un atto che in data situazione si presenta come possibile e la verità, la bontà, la dignità della persona umana come tale. Verità, bontà, dignità che può essere affermata/negata, amata/odiata, salvata/perduta nell’atto precisamente della persona. È in questo contesto che possiamo capire che cosa è la legge morale e la funzione che essa esercita nell’ambito della soggettività umana e cristiana.

Prima di tutto la natura della legge morale. Partiamo ancora una volta da un esempio. Esiste nella persona umana la tendenza, l’istinto al rapporto sessuale colla persona dell’altro sesso e la scienza dimostra come la sessualità sia «costruita» in modo tale che può dare origine a un nuovo individuo umano. Dunque, possiamo dire che il fine proprio (si noti bene: proprio) della sessualità è la congiunzione sessuale per dare origine a una nuova vita. Possiamo anche dire che questo è anche il fine dovuto (debitus finis)? che fine proprio (della sessualità) e fine dovuto (della sessualità) è lo stesso? Questa identità deve essere negata. Perché?

La persona umana colla sua ragione comprende che: a) essere persona è essenzialmente diverso e più che essere qualcosa; b) il corpo è corpo personale e la persona è persona corporale; c) la sessualità, quindi, è sessualità personale e la persona è persona sessuata (uomo e donna lo creò). La persona ha conosciuto se stessa: è illuminata dalla verità su se stessa.

In questa luce si chiede: quale esercizio della sessualità, quale atto sessuale afferma questa verità? quale atto nega questa verità? E arriva alla seguente conclusione: solo l’atto dell’amore coniugale aperto al dono della vita afferma (cioè realizza) la verità della persona; ogni atto diverso da questo nega (cioè non realizza) la verità della persona. In questo momento, cioè nel momento in cui la persona umana giunge a conoscere questo rapporto fra un atto e la persona, essa ha scoperto una legge morale.

La legge morale, quindi, nella sua essenza è in senso proprio un giudizio della ragione mediante il quale conosco il rapporto esistente fra un atto e l’essere della persona in quanto realizzabile (perfezionabile) mediante l’atto libero. La legge morale è questo giudizio.

Per analogia, però, legge morale può anche significare non formalmente il giudizio razionale mediante cui conosco il rapporto atto-persona, ma questo stesso rapporto. È come dire «cibo sano», nel senso di «cibo che causa la salute». Ora si comprende perché il fine proprio non è il fine dovuto. L’inclinazione come tale non è la legge morale; la legge morale si costituisce mediante la ragione.

È importante che vediamo la differenza fra la conoscenza che raggiungo attraverso quel giudizio razionale che è la legge morale e la conoscenza che raggiungo attraverso quel giudizio razionale che è la coscienza morale. La prima conoscenza è universale e solo potenzialmente particolare; la seconda è particolare e solo potenzialmente universale. Mi spiego. Ciò di cui parla la legge è l’atto della persona non considerato dal punto di vista delle circostanze in cui la persona concreta lo può compiere né dal punto di vista dello scopo che una persona concreta si propone nel compierlo. È l’atto della persona considerato in sé e per sé, nel suo rapporto puro colla persona come tale, in quanto può essere oggetto della libera volontà prescindendo da qualsiasi altra considerazione nel volerlo. Si capisce, quindi, perché questa conoscenza sia universale: ovunque esista una persona che compia quell’atto è vero ciò che afferma la legge morale. E si capisce anche perché questa conoscenza sia potenzialmente particolare e quindi solo remotamente praticabile: l’atto considerato dalla legge morale non esiste in realtà, nel senso che l’atto reale è sempre più che l’atto così considerato. Non è una conoscenza falsa, ma limitata e incompleta.

È per questo che è necessaria la conoscenza che raggiungo attraverso la coscienza: questa mi fa conoscere l’atto nella sua particolarità, alla luce anche della legge morale come vedremo fra poco.

Vista la natura della legge morale, possiamo chiederci quale è la sua funzione nella soggettività umana e cristiana. È questo un punto assai importante.

Ripartiamo ancora dall’esempio già fatto. È chiaro che la persona sente la tendenza naturale, precedente la sua volontà, al rapporto colla persona di altro sesso. È ugualmente però certo che questo rapporto non si realizza umanamente se non si realizza liberamente. La libertà è chiamata ad assumere questa inclinazione: ciò verso cui inclina è un bene umano. Ma è precisamente questo il punto: verso che cosa inclina? o, il che è lo stesso,: quale è il bene proprio della sessualità, in che cosa consiste propriamente la bontà della sessualità? È questa una domanda della ragione, a cui cioè la ragione deve rispondere. In che senso deve? nel senso che la persona deve chiarire a se stessa e in se stessa questa inclinazione; nel senso che è la ragione che deve presentare quella bontà nei confronti della quale la libertà può muovere la persona e fare le sue scelte. Ora la ragione giunge a conoscere quel bene che non solo è possibile (operabile), ma è dovuto (operandum). Che cosa significa dovuto? Un bene tale che appartiene come tale alla volontà razionale, per cui se la volontà sceglie, deve scegliere quel bene, se non vuole rinnegare se stessa: auto-distruggendosi nel momento stesso in cui si afferma. Ecco, ora siamo in grado di rispondere alla domanda. La funzione della legge morale nella soggettività umana è quella di fare conoscere quali sono quei beni che sono dovuti alla persona come tale. «Dovuti» significa: originaria convenienza per cui bene (indicato dalla legge morale) e volontà razionale si appartengono reciprocamente. Quel bene è il bene proprio della persona: la volontà razionale è orientata a quel bene. La legge morale indica quindi la via della vita.

Tuttavia l’esperienza sembra smentire tragicamente tutto questo. E qui entriamo nella soggettività cristiana. Se, infatti, la legge morale esprime questa reciproca appartenenza, originaria convenienza fra bene e volontà razionale, perché la volontà razionale si sente inclinata piuttosto in direzione diversa? Questo fatto fa assumere alla legge morale la funzione di «accusatore», nel senso che essa fa prendere coscienza all’uomo di essere «venduto al peccato». E questa consapevolezza fa invocare il Redentore. Egli rigenera la soggettività della persona, liberando la sua (della persona) libertà.

Abbiamo visto il sorgere della coscienza morale e della legge morale nell’interno della soggettività umana e cristiana. Ora dobbiamo vedere in che rapporto sono fra loro e quale è il servizio che il Magistero morale della Chiesa è chiamato a svolgere nei confronti della soggettività umana e cristiana, e quindi della coscienza e della conoscenza morale. Questo è l’ultimo punto della nostra riflessione.

 

6. Coscienza, legge morale e Magistero

 

La legge morale e la coscienza rappresentano i due momenti fondamentali nei quali si attua la vita dello spirito alla ricerca della verità sul bene della persona. Sono due tappe dello stesso cammino verso la conoscenza della verità sul bene. Esse si radicano in quella attitudine spirituale che gli antichi chiamavano «sinderesi», cioè quella innata capacità dell’intelletto di intuire la bontà, di produrre in sé la nozione di bene e i supremi principi dell’ordine morale. E si radicano in quella tensione spirituale della persona verso la pienezza dell’essere che muove la persona a ricercare in che modo la libertà può raggiungerla, cioè a ricercare la verità sul bene. È su questo scopo comune alla legge morale e alla coscienza che vorrei richiamare la vostra attenzione. Sia la legge morale, sia la coscienza connotano, come abbiamo visto, un’attività razionale, cioè una conoscenza della verità. Se l’esposizione precedente ha messo in risalto, per ragioni didattiche, soprattutto la loro distinzione, ora dobbiamo recuperare la loro profonda unità.

Se noi prendiamo coscienza profonda di quell’evento spirituale che è l’esperienza etica, aiutati dai grandi maestri che l’hanno descritta, da Platone a Newman, noi vediamo che essa (esperienza etica) è l’esperienza di una bontà che esige di essere riconosciuta, amata dalla mia persona non in quanto e non perché sono io e non un altro. Dalla mia persona in quanto soggetto razionale. E la volontà razionale come tale che è chiamata in causa. San Tommaso dice che chi afferma la dipendenza del bene dalla volontà divina e non viceversa, bestemmia. La cosa è profonda. È la volontà razionale come tale che è chiamata in causa; quindi ogni volontà razionale, quella di Dio come quella della creatura, quella dell’angelo come quella dell’uomo. L’esperienza etica è la percezione di un ordine che è intrinseco all’essere come tale, di una Misura trascendente ogni essere e immanente a ogni essere.

Tuttavia, l’esperienza etica non è solo questo. In essa ciascuno di noi è interpellato nella sua singolare irripetibilità: nessuno può prendere il mio posto. E colla mia scelta che mi è chiesto di riconoscere, di amare quel bene, quell’ordine intrinseco all’essere.

L’esperienza etica è questo incrocio di universalità e singolarità, di eternità e di temporalità: è il respiro dell’eternità nel tempo. È per questo che la conoscenza del bene avviene attraverso una visione di un ordine che esige di prendere corpo nella nostra concretissima scelta (= la legge morale) e attraverso una visione del bene proprio della concretissima scelta nella luce dell’ordine dell’essere (= coscienza morale). È come un circolo che si istituisce nella vita dello spirito.

Quando questo «circolo» si spezza? Quando si contrappone legge morale e coscienza. È proprio questa disarticolazione interiore che è accaduta in questi anni.

Quel rapporto si spezza quando si espelle dalla riflessione etica il concetto di verità. Questa espulsione significa che la domanda di felicità che abita nel cuore umano non può ricevere una risposta che possa qualificarsi come «vera» o «falsa». Chiedersi se si possa distinguere una vera felicità da una falsa felicità non ha senso, poiché essere felici significa sentirsi felici. La progettazione quindi della propria esistenza sfugge a ogni giudizio avente carattere di validità universale. La stessa cosa vale anche per le scelte che concretizzano e realizzano quel progetto.

Ma l’uomo non vive solo; vive in società. È necessario, quindi, che si pongano delle regole così che a ciascuno sia consentito di realizzare nelle proprie scelte libere il progetto esistenziale liberamente elaborato. Queste sono leggi che valgono per tutti: la loro è solo una funzione di regolamentare gli interessi opposti: chiedersi se siano vere o false non ha significato. Bisogna solo chiedersi se sono funzionali o non funzionali. E a questo punto l’espulsione del concetto di verità dall’etica è totale: un’etica senza verità.

In questo contesto il rapporto coscienza morale e legge morale è pensato come rapporto fra autonomia della persona (che realizza nelle sue libere scelte il proprio progetto esistenziale) e le regole che limitano questa autonomia. Non ha più senso che un’autorità possa imporre regole che entrino a regolare il campo dell’autonomia della coscienza. Un esempio: non ha senso che la legge civile consideri matrimonio solo quello fra uomo e donna, poiché qui si tratta di progettare la propria sessualità. E si chiede il matrimonio omosessuale.

Nel piano della società civile si ha la distruzione del tessuto connettivo della società umana; nell’ambito dell’esperienza di fede si ha quello sradicamento del soggetto dalla comunione ecclesiale di cui ho già parlato. Né poteva essere diversamente. Solo la verità sul bene crea comunione, non il privato sentimento del bene.

E ora finalmente possiamo capire facilmente il compito del Magistero morale della Chiesa, considerando le due situazioni spirituali sopra descritte.

 

  1. A. Nel contesto di una soggettività umana e cristiana sana, il compito del Magistero è visto correttamente come ciò che aiuta la ragione dell’uomo a scoprire la verità sul bene della persona. Esso compie questo servizio in due modi: insegnando quale esercizio della libertà, quale atto della persona distrugge il bene di essa oppure mostrando quali atti realizzano il bene della persona.

Ora, è chiaro che il Magistero non può sostituirsi alla coscienza, poiché nessuno può farlo: è questo – come abbiamo visto – il senso corretto di autonomia. Esso, coll’insegnamento delle norme morali negative dice che cosa la coscienza non deve mai giudicare bene; delle norme morali positive, indica i criteri mediante i quali la coscienza deve giudicare l’atto che la libertà sta per compiere.

 

B. Nel contesto di una soggettività umana e cristiana ammalata, il compito del Magistero è semplicemente impensabile. Non lo si accetta poiché la sua accettazione è impensabile. Per ciò che riguarda l’ambito della propria vita o è considerato una indebita ingerenza («Il Papa non ha il diritto di insegnarci come vivere la nostra sessualità coniugale») o è al massimo visto come uno dei tanti punti di riferimento che è prudente tenere in conto. Dire più di questo è negare l’autonomia della coscienza (qui intesa nel modo scorretto).

Per ciò che riguarda la dimensione più sociale, il Magistero può essere accettato in quanto istanza che aiuta a produrre un consenso su valori comuni, su alcune fondamentali regole di comportamento sociale.

E siamo così arrivati al punto da cui siamo partiti: il vero problema è la ricostruzione di una vera soggettività umana e cristiana, quella rigenerazione dell’uomo di cui Gesù parla a Nicodemo.

 

Conclusioni

 

L’Apostolo si pone davanti alla coscienza dell’uomo: alla persona cioè nel momento in cui progetta e giudica quelle scelte che realizzeranno o non la sua persona. Egli, pertanto, non può dissimulare vergognosamente la verità o falsificarla. Sarebbe un traditore dell’uomo e diventerebbe responsabile della sua perdizione. Alla fine, porsi davanti alla coscienza dell’uomo è stare al cospetto di Dio, poiché Dio è colui che vuole che ogni uomo si salvi e quindi arrivi alla conoscenza della Verità.

Ciascuno di noi deve collocarsi di fronte alla coscienza, non di fronte alla società o di fronte all’opinione della maggioranza. Di fronte a ogni persona nella sua infinita preziosità. La persona è se stessa in modo eminente nella sua scelta. Servire la coscienza significa dire, senza vergognose dissimulazioni, la verità sul bene dell’uomo: perché l’uomo non sbagli nelle sue scelte.